Da Damiano Carrara ai Boomdabash, i ricordi gastronomici di 6 personaggi

Da Damiano Carrara ai Boomdabash, i ricordi gastronomici di 6 personaggi

Sei personaggi della musica, del design, della televisione, della letteratura e della cucina ci svelano i loro ricordi (gastronomici) più cari

Damiano Carrara

Classe 1985, è nato a Lucca, e qui ha mosso i primi passi come bartender, prima di trasferirsi in Irlanda. Nel 2012 si è spostato in California, e con suo fratello Massimiliano ha aperto due pasticcerie: Carrara Pastries. Il successo gli ha subito sorriso e la notorietà è arrivata con la tv, dove è diventato una stella di Food Network America. Damiano Carrara ha al suo attivo due libri in America, Dolce Italia e A Taste of Italy, e l’autobiografia Nella vita tutto è possibile, Harper Collins Italia. A settembre 2020 è uscito il suo primo libro di ricette in Italia Un po’ più dolce, Cairo Editore. Attualmente lavora all’apertura del suo primo atelier di pasticceria in Italia, prevista per l’autunno.

«Il cibo e la cucina sono stati fondamentali per me: hanno dato vita alla mia dolce professione e proprio al cibo sono legati quei momenti che, ancora oggi, mi scaldano il cuore. Sono sempre stato ghiotto, in particolare del ragù del mio babbo: quando da piccino rientrando a casa dopo un pomeriggio di scorribande ne sentivo il profumo, mi catapultavo in cucina alla ricerca del pentolone, puntualmente nascosto. Mia nonna Liliana diceva che ero un mangione e confesso che fermarsi di fronte al ragù era (ed è) quasi impossibile. Se penso ai pranzi in famiglia più belli non posso non citare quelli nella casa a Pianaccio, un paesino in provincia di Bologna, dove ci si ritrova tutti insieme. Avete presente quelle giornate in cui sai quando inizi a mangiare e cucinare, ma non quando finisci, in cui non guardi l’orologio né il telefono perché il tempo si dilata e il senso di pace pervade ogni cosa? Ecco, ogni volta che torno lì vivo questa sensazione. Un paio di anni fa c’è stata una giornata memorabile. Era un periodo molto intenso e raggiunsi la mia famiglia a Pianaccio per staccare un po’. Decidemmo di andar per funghi e tornammo con un bottino ricchissimo. Iniziammo subito a cucinare un classico di casa, i funghi impanati, con farina di mais e nepitella, e fritti: croccanti, profumati, da mangiare non stop. Poi c’erano la panzanella con i pomodori e la cipolla dell’orto, e il formaggio di un pastore della zona con la confettura di mirtilli selvatici di nonna Rosita. A conclusione i “tordelli” lucchesi. Come forse saprete questi tordelli (non tortelli, attenzione, il lucchese qui è d’obbligo) sono ripieni di carne, mortadella, bietola lessata e parmigiano e sono conditi proprio con il ragù che tanto adoro. E indovinate? Dopo più di trent’anni ancora non ho scoperto dove mio babbo lo nasconde…».

Isa Mazzocchi

Classe 1968, dopo il diploma di scuola alberghiera affina la sua esperienza a fianco dello chef Georges Cogny. Nel 1989 apre il ristorante La Palta, che in piacentino significa tabaccheria, gestito con la sorella Monica e il marito Roberto. Nel 2011 riceve la stella dalla Guida Michelin 2012, che tuttora mantiene, e nel 2021 vince il premio Michelin Chef Donna di Veuve Clicquot.

«La mia è una famiglia numerosa, soprattutto dalla parte di mamma: sette fratelli con al seguito i figli, ossia noi quindici cugini, tutti pressappoco della stessa età. Per me e mia sorella Monica era un’immensa gioia ritrovarsi nella nostra osteria o dagli zii per  i pranzi delle grandi occasioni: cresime, comunioni e la commemorazione dei defunti erano il pretesto per estrarre dalle dispense salse, giardiniere e confetture, per poi “sfoggiarle” durante questi incontri. Ricordo l’estrema cura con cui venivano preparati. Ogni famiglia partiva da casa con la migliore tovaglia ricamata a mano, con le stoviglie e le posate, tutte provenienti dal corredo della sposa. All’epoca c’era nonna Alice che coordinava figlie e nuore per la preparazione dei piatti e l’allestimento della tavola. Era quella figura che oggi si chiamerebbe “event planner”, ma che all’epoca senza telefono e internet riusciva a governare cucina e sala con rigore e metodo, mantenendo un clima gioioso e collaborativo. Ogni pranzo seguiva una stagione e una ricorrenza, anche se nel menù alcune pietanze erano sempre presenti. Per esempio, per i defunti c’era l’abitudine di ritrovarsi nella nostra osteria per mangiare la minestra di ceci, gli zampini e le orecchie del maiale con la salsa. Nelle altre ricorrenze invece la partenza era sempre inaugurata da immensi piatti di salumi nostrani, accompagnati dalle giardiniere casalinghe. A seguire i primi, tra cui gli immancabili anolini in brodo e le lasagne al forno, intervallati dai tortelli di ricotta ed erbette con la coda e dai panzerotti, che nel Piacentino sono sottili crespelle ripiene di ricotta e spinaci (o zucca), arrotolate, tagliate a cilindretto e gratinate in forno con la besciamella. Le cose che ricordo erano la presenza brulicante di belle signore attorno ai fornelli e quel momento magico in cui si sprigionavano profumi incredibili: il brodo, la pasta al forno e gli arrosti. Questi ultimi erano i piatti che davano un aspetto “regale” alle nostre tavole. Il tacchino, l’anatra, la faraona e il vitello erano sempre accompagnati da una processione di contorni. E se rimaneva ancora un piccolo spazio, quello era riservato al gran bollito: cappone, manzo, salame cotto e testina con la mostarda di frutta, la salsa verde al prezzemolo, quella rossa al pomodoro e ai peperoni. E qui partiva la prima disputa su quale fosse la più buona, quella con la giusta acidità e dolcezza. Non solo le salse erano argomento di discussione, ma anche il formaggio, perché i miei zii allevavano mucche da latte e producevano il loro grana, ognuno il “migliore”. Noi quindici cugini, sotto al tavolo, ci godevamo questo spettacolo degno di una pièce teatrale. Gran finale con i dolci, creazioni monumentali, orgoglio di ogni famiglia. Ricordo il semifreddo della zia Aurelia, un dolce a strati con pasta frolla, zabaione, crema al cioccolato e crema pasticciera, un concentrato di calorie e bontà. E poi il dolce di zia Cristina, con panna, amaretti e cioccolato grattugiato, le crostate, le ciambellone da intingere nella Malvasia dolce e la charlotte con le pere al vino rosso, uno dei miei dessert preferiti, la cui ricetta venne ereditata da mia mamma da una nobildonna piacentina. Oggi queste riunioni di famiglia non avvengono più, però cerco di riportare a casa mia un assaggio di quell’atmosfera preparando dei piatti il cui sapore, nonostante siano trascorsi decenni, riesce ancora a scaldarci il cuore».

Boomdabash

Una delle band di reggae italiano più note e amate, da quindici anni insieme. Il sound system degli anni Novanta è stato il loro pane quotidiano, sempre in crescita fino alla notorietà nel 2018 con l’album Barracuda e il singolo Non ti dico no con Loredana Bertè. Nel 2019 partecipano al Festival di Sanremo con Per un milione (quadruplo disco di platino) e poi realizzano una serie ininterrotta di successi (Don’t worry, Mambo salentino, Karaoke) fino all’ultimo, Mohicani con Baby K, già disco d’oro. E’ appena uscito il libro Salentu d’Amare, DeAgostini, dedicato alle meraviglie della loro terra (orecchiette con cime di rapa in testa), da cui è tratto il racconto.

«Spiagge, vino buono e olio ottimo, cultura altissima del cibo, famiglia, tradizione agricola, vita tranquilla e senza stress: il Salento è questo, riassunto in poche parole legate tra loro come il reggae con la Giamaica o il cacioricotta sulle orecchiette della domenica. Famiglia e cucina sono i cardini della vita: ogni ricorrenza diventa occasione per riunirsi a fare festa, anche se nelle famiglie molto numerose è difficile da organizzare. In verità, noi Boomdabash comunque ci proviamo, a radunare tutti attorno alla stessa tavola. D’estate, nella casa in campagna di Blazon, ogni anno organizziamo due giorni di grigliata. Con la bella stagione siamo spesso lontano da casa, per portare la musica in giro per il Salento e l’Italia. Viviamo sulla strada, più di notte che di giorno. Però riusciamo sempre a ritagliarci due giorni liberi. Intorno a Ferragosto interrompiamo il tour e ci prendiamo una pausa. Allora torniamo dove è cominciata l’avventura dei Boomdabash, in quella casa nella campagna di ulivi dove abbiamo messo insieme il nostro primo studio di registrazione domestico, usando i soldi guadagnati con le serate in spiaggia. Organizziamo il giardino con le griglie e i tavoli e mettiamo la musica. Sono invitate le nostre famiglie e gli amici, più di cento persone. Accendiamo il fuoco e cuciniamo carne e pesce per tutti. È un rito, una tradizione. È il Salento. Qui non si muore di fame, mai. La terra è generosa. Allo stesso tempo, però, c’è un’attenzione altissima a non sprecare nulla e a valorizzare ogni ingrediente, nel suo periodo e nella sua stagione. D’estate le verdure sono protagoniste e diventano anche un tipico spuntino da spiaggia. Noi, in spiaggia, ci passavamo le giornate, portando gli djembé e le chitarre. E poi, vuoi che non avessimo con noi anche le borse frigo piene? Ciascuno portava la sua, poi si metteva in comune il cibo. Prima di uscire depredavamo la cucina di casa, e i bottini erano importanti. Soprattutto la domenica mattina che è sacra. Non c’è momento migliore per passare dalla cucina, in una qualsiasi casa salentina, perché ci trovate loro, le polpette. Non mancano mai sulle tavole della domenica insieme alle orecchiette fatte in casa con le cime di rapa e agli straccetti di cavallo al sugo: i tre piatti che chi viene nel Salento deve assolutamente provare».

Tinto

Nicola Prudente nasce in Puglia, cresce in Toscana, oggi vive e lavora a Roma. Dal 2002 è, insieme a Federico Quaranta, l’anima e la voce di Decanter, programma cult di Rai Radio2, dedicato al mondo dell’agricoltura e dell’enogastronomia. Da ottobre 2019 è autore e conduttore del programma televisivo Mica pizza e fichi su La7. Nel 2020 esce il libro, edito da Cairo Editore, tratto dall’omonimo programma. È la pizza Margherita la passione irrefrenabile di Nicola Prudente, in arte Tinto, conduttore televisivo e radiofonico. Il collo della bottiglia, storie di vite è il suo primo romanzo, e l’ultimo dei cinque libri che ha pubblicato nel corso della sua carriera.

«Partiamo dal mio nome, anzi dal mio soprannome: Tinto. A casa mia il vino, rosso chiaramente, non è mai mancato. Posso però dire con certezza che in qualità di conduttore radiofonico e televisivo di programmi enogastronomici è molto più azzeccato Tinto di Nicola Prudente, più adatto a una scuola guida o a un’assicurazione. A parte le battute, oltre al vino sempre presente sulla tavola di mio nonno, il mio ricordo sensoriale più nitido è legato alla merenda, ovvero la bruschetta. Ginocchia sbucciate, scarpe impolverate ma bastava un filo di extravergine sul pane (toscano) appena abbrustolito ed era la felicità, che fa rima con semplicità. A volte c’erano anche il pomodoro e il basilico. Si dice che i pomodori non abbiano più il gusto di una volta ed è vero, ma se chiudo gli occhi ritrovo la dolcezza (e la spensieratezza) di quel tempo! A parte il mio motorino, un Sì Piaggio (truccato) color verde bottiglia, da giovane non mi separavo mai dalla pizza. Il mio era proprio amore, potevo mangiarla anche più volte al giorno, chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei condotto un programma in tv ospitando i migliori pizzaioli italiani (e quindi del mondo). All’università, avevo così tanti cartoni di pizza che riuscii, insieme a quelli delle uova, a insonorizzare una stanza nella quale giocavo con la play-station fino a notte fonda. In abbinamento ho sempre preferito il vino perché la birra mi faceva pensare ai sandali con calzino bianco dei tedeschi in vacanza sul lago. La cuoca a casa mia era ed è mia mamma. La sua specialità è il pesce ma dopo molti anni ho capito che il suo ingrediente segreto è l’amore, a differenza di mia moglie che invece è una buona forchetta, ma in cucina non sa la differenza fra olio e aceto. Lei è venezuelana e infatti nella lingua spagnola aceite vuol dire olio e vinagre vuol dire aceto… sarà un caso? Ho due bambini meravigliosi, Davide ed Eleonora, e ogni giorno combatto contro il junk food, alla fine vincerò io! Dopo tanti anni nel settore enogastronomico la cosa che mi affascina ancora non è la degustazione di vino, ma conoscere le storie dei produttori senza troppi formalismi, magari ospite a casa loro, più che nella barricaia. Sono stato da poco in Friuli-Venezia Giulia in una cantina e dopo un picnic fra le vigne non mi aspettavo di concludere la serata con un Gin tonic! Più che l’analisi sensoriale, ricerco l’anima del produttore, che mi fa comprendere di più il vino nel bicchiere. A proposito di bicchiere, sapete che sono entrato nel Guinness dei primati per il calice di bollicine più grande del mondo (due metri di altezza)? Ammetto che la temperatura di servizio non era proprio il massimo…».

Giovanni Raspini

Aretino, laureato in Architettura a Firenze, antiquario e collezionista, Giovanni Raspini, classe1950, ha progettato case, arredi e oggetti. Dal 1985 crea argenterie e gioielli nella sua azienda in Valdichiana, dove coordina un team di circa 120 persone. Fortemente legato al patrimonio artistico della sua terra, si è fatto promotore dell’istituzione del Laboratorio di Storia, Design e Tecnica dell’Oreficeria in collaborazione con l’Università di Siena. Nel corso degli anni, Giovanni Raspini ha realizzato le mostre/evento Wild, Vanitas Mundi, Nautilus e Gioielli da una wunderkammer, tutte dedicate a pezzi unici di gioielleria.

«Primavera del 1977. Sono da sei mesi in Arabia Saudita alle dipendenze di un’importante impresa italiana di costruzioni stradali. Il mio ufficio è a Riyad, ma il mio compito è quello di controllare e valutare i vari siti dove verranno fatte offerte per appalti: quindi ho una Toyota fuoristrada, un autista locale e una cassa refrigerata di provviste. La mia zona di interesse è il Sud del Paese, vicino al confine con lo Yemen. Una zona montagnosa e impervia. In pratica, solo strade sterrate e polvere dappertutto. Due giorni per raggiungere il sito: posti dimenticati da Dio, ma che cieli, che tramonti… Parlo di oltre quarantacinque anni fa nei villaggi non c’era neanche l’energia elettrica. Eppure che cordialità. In più avevo il mio talismano: una lettera del nostro sponsor, lo sceicco Mohamed eccetera eccetera, fratello del re e dominus di quelle zone. Appena tiravo fuori la famosa lettera, tutte le porte si aprivano. Porte… in realtà c’erano solo tende beduine. Insomma, eccoci alla fine di una giornata di lavoro. Senza una stanza, una doccia, un letto o altro ci accingiamo ad aprire qualche scatoletta di tonno, una birra analcolica e a dormire sui sedili del fuoristrada. Improvvisamente si avvicina un abitante del villaggio e ci dice che il suo capo vuole che si ceni da lui, nella sua tenda. Ho già il tonno, i carciofini, due uova sode e il pancarré che mi sorridono, ma non posso rifiutare. Ibrahim e io ci avviciniamo alla tenda. Le donne sono invisibili e comunque velate. La tenda è grande, illuminata dal generatore, e siamo in sette o otto. Ci accoccoliamo sulle stuoie di plastica e si chiacchiera amabilmente, mentre fuori sento rumori di cucina e un odore molto deciso. Di fronte a ciascuno un piatto di plastica e stop. Dopo mezz’ora entrano due ragazzi con un enorme vassoio di ottone dove, sopra un letto di riso, giace una pecora (kharouf: agnello o pecora) cotta in qualche modo. È stata spellata, meno che la testa. Mi ricordo ancora i denti gialli e gli occhi semichiusi tra una peluria giallastra e nera. Ho poco più di venticinque anni, mangio tutto e dormo dappertutto, ma quel pecorone odora di grasso rancido e tutti si passano di mano in mano bocconi di riso e carne. L’unica cosa apparentemente mangiabile è il fegato, che odora di meno e non è sanguinolento. Cerco di non mostrare la mia ansia, perché so che il vero problema è in arrivo, e riguarda, udite udite, proprio l’occhio della pecora. Come ben intende ogni gourmet o antropologo del cibo, l’occhio è il boccone più prelibato, e spetta di diritto all’ospite d’onore. E infatti tutti mi guardano con orgoglio: quindi il boss inizia a scavare nel muso dell’animale per estrarre l’organo. È un lavoro difficile, l’occhio non esce: lui tira tira e io provo a schermirmi, a dire che è troppo per un giovane come me… Poi, wow! L’occhio viscido scivola dalla mano del “chirurgo” e con un tonfo va a finire nel piatto dell’hagij, il più anziano, che contentissimo se lo pappa in un boccone. Come spesso capita in Arabia, tutto si è risolto quasi per magia. È stata la cena più surreale della mia vita, ma oggi la ricordo con dolcezza e gratitudine. Quella era ospitalità vera, generosa, primigenia, profondamente sincera e genuina. In fondo alla Penisola arabica, fra montagne rosse e aspre, dove il deserto incontra le alture. Il cibo era così così, il profumo diciamo intenso, e l’occhio l’ho scansato per miracolo. Ma se ripenso ai buffet di alcuni villaggi vacanze, agli interminabili pranzi di nozze, o ancora agli insipidi piatti di certe pause pranzo, beh, farei subito a cambio. Bei tempi».

Marina Migliavacca Marazza

Scrittrice milanese, finalista al Premio Bancarella, ha la capacità di far rivivere le vicende di personaggi dimenticati dalla Storia. L’ultimo suo titolo in libreria è La moglie di Dante, pubblicato da Solferino, in cui ricostruisce la figura di Gemma Donati, la donna più importante nella vita del Sommo Poeta.

«Le vacanze estive le passavo con la nonna Angelina in un paesino sul lago. Con lei io ci stavo benone. Era stata in collegio dalle suore fino ai diciotto anni, era una che “aveva studiato”. E doveva avere un certo tocco  pedagogico, perché mi aveva insegnato a leggere e a scrivere en souplesse, a poco più di tre anni. Era una maestra di ricamo capace di capolavori con ago e filo. Sapeva cucinare (molto bene) poche cose, e quelle preparazioni erano un rito. Il suo piatto forte era sempre lo stesso: il brasato rosso, col cui sugo si condiva la pasta fatta in casa, messo in tavola con una maionese battuta a mano, gialla e densa. Nessuno si sognava di protestare per la ripetitività del menù, anzi. Per me bambina la cosa più magica era la preparazione della maionese. Prima il gioco di destrezza per spezzare il guscio e liberare il bel tuorlo tondo e giallissimo da tutto l’albume fino all’ultimo goccio senza romperlo, farlo cadere ancora intatto nella ciotolina e cominciare a far scendere il filo d’olio, attaccando a lavorarlo con una forchetta d’argento scompagnata, ma bellissima, con una specie di stemma nobiliare sul manico, snella e leggera. Un movimento fluido sempre nello stesso senso, guai a cambiare, e l’aggiunta finale del limone q.b., delicatissima. Mescolando mescolando, il rosso d’uovo e l’olio e il limone, in origine separati, diventavano una emulsione stabile, perfetta, profumata. Usando quella forchettina, la maionese non impazziva mai, il tuorlo docile legava le sue molecole tensioattive all’olio, generando la densa crema di artusiana memoria. La musica ritmica dello sbattimento, ciac, ciac, ciac, ciac, scandiva il compiersi dell’incantamento davanti ai miei occhi spalancati generando l’oro giallo nella ciotola in tavola come una alchemica pietra filosofale. E qualche anno dopo, al superamento dell’esame di quinta elementare, ebbi anch’io la mia forchettina magica: era una stilografica col pennino d’argento. La nonna lo aveva capito che non avrei avuto le sue mani d’oro per il ricamo in bianco e nemmeno avrei confezionato profumate maionesi: il mio talento era la scrittura. Il pennino d’argento della nonna mi ha aiutata a non far impazzire le parole, a non avere mai la sindrome del foglio bianco, a ricordare che le cose si ottengono con la ricerca, col metodo, l’esperienza, l’amore. Che in fondo era l’ingrediente chiave della “maionese Angelina”, uno di quelli che non si listano nelle ricette, ma che se mancano fanno la differenza, come quando si scrive».

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