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Il mistero gaudioso della Guida Michelin

Il mistero gaudioso della Guida Michelin

Passano gli anni e i decenni, ma la Rossa resta inafferrabile. Pronostici disattesi, scelte curiose e spesso discutibili, squilibrio apparente tra locali storici e novità. In definitiva, la sua forza è andare su una rotta diversa, incomprensibile per molti. Fissiamo qualche paletto minimo

Al netto di ogni dubbio, discussione, polemica bisogna sottolineare che ora più che mai sono tre gli elementi imprenscindibili di ogni Revelation Star (un tempo si chiamava presentazione della Guida Michelin…). Il primo: in un Paese fatto di anteprime, retroscena e pubblicazioni di conti correnti, la Rossa non solo riesce a nascondere tutto sino all’ultimo minuto, ma pure dopo (il che, lo ripetiamo, è incredibile in Italia). Il secondo: sbertuccia allegramente ogni pronostico, soprattutto degli addetti ai lavori, tanto che ci domandiamo come mai qualcuno non abbia creato un totalizzatore simil-ippodromo sulle percentuali di doppia o terza stella. Il terzo: persino i più esperti critici e giornalisti gastronomici – per quanto si vantino di capire – non hanno compreso il metodo di assegnazione soprattutto della stella singola, per non parlare della doppia. Tutti a parlare di metodo infallibile per conquistarla, qualcuno anche a suggerirlo scientificamente, ed ecco che anche lunedì in Franciacorta, un buon 50 per cento delle neo Stelle erano note solo a chi frequenta o lavora nel territorio del locale. Come la mettiamo?

La realtà è che la Michelin segue una propria rotta imperscrutabile. Ci sono oggettivamente una serie di cuochi giovani e meno giovani che stanno facendo un lavoro realmente ottimo e riconosciuto dalle altre guide, ma pure dai gourmet itineranti. Il caso Lido 84 di Riccardo Camanini è il perfetto esempio: passi per i Cinque Cappelli dell’Espresso e le Tre Forchette del Gambero Rosso (il top delle rispettive pubblicazioni), ma lasciare fermo a una Stella un locale che per la The Best World’s Restaurant è 15° – il migliore in Italia – appare ai più assurdo, grottesco, delirante. Invece, credeteci, è solo Michelin. Con meno enfasi, peraltro, è una situazione che riguarda cuochi come Carlo Cracco, Andrea Berton e Matteo Baronetto che stanno facendo benissimo. Qualcuno tira persino in ballo che insieme a Camanini sono marchesiani, dimenticando che Davide Oldani (due Stelle) lo è e quest’anno uno degli ultimi allievi, Fabrizio Molteni, ha conquistato il Macaron in un buon locale di Sirmione, La Speranzina. Mentre il cuoco che l’ha sostituito all’Albereta nel 2011, Daniel Canzian – bravo ed esperto – non è stato ancora premiato, nonostante lavori benissimo nel suo ristorante a Milano.

La piantiamo qui, perché l’elenco sarebbe noioso (e non riguarda solo i marchesiani ovviamente). È per sottolineare il mistero gaudioso che nessuno è in grado (realmente) di svelare e nel 2021 resta il plus della Michelin: perché nessuno discute il famoso 30 per cento in più delle prenotazioni in un locale neo stellato unitamente alla commozione dello chef e all’entusiasmo. Ma è come arrivarci il tema. L’unica boa del percorso ancorata bene – perché viene sottolineato dalla Michelin – è la costanza delle prestazioni: non basta fare il botto, ma arrivati al livello ritenuto giusto non avere cedimenti. Ed ecco spiegato perché ci sono locali eterni con una stella che sono vintage (d’autore, sia chiaro) rispetto a quelli nati nell’ultimo decennio. Giusto? Sbagliato? È la Michelin. In compenso, ecco la ricerca di under 35 e under 30 – rispettivamente sedici e cinque tra i neo stellati – che da un lato è meritoria, ma al tempo stesso penalizzante per tanti bravi professionisti tra i 40-50 anni che (questo non abbiamo paura di dirlo) propongono cucine e lavorano in locali superiori.

In questo caso, c’è meno mistero: si chiama sottilissimo equilibrio tra l’apparire conservatrice (quasi reazionaria) e il mostrarsi rivoluzionaria, anche con l’idea delle Stelle Verdi, meritevoli, ma legate a un calderone di aspetti che in realtà ormai caratterizzano un mare di locali in Italia. Citiamo testualmente: «Nell’assegnare il riconoscimento, gli ispettori prendono in considerazione molteplici fattori: la produzione delle materie prime, il rispetto del lavoro e il supporto dei produttori locali, la riduzione degli sprechi, la gestione dei rifiuti, le azioni mirate a minimizzare l’utilizzo delle risorse energetiche e l’impatto della struttura sull’ambiente, la formazione sostenibile dei giovani sono solo alcuni dei temi». Di tutto, di più. Detto questo, saranno i mesi (anzi, gli anni) successivi a dare peso alle scelte di questa edizione che prometteva fuochi epocali – ma eravamo noi a pensarlo, come sempre – ma ha sparato solo buoni mortaretti. O meglio, li ha esibiti con il solito stile: ci sono campioni che inseguono da cinque o dieci anni la seconda Stella ed ecco che un professionista serissimo, ma obiettivamente non del salotto buono quale Giovanni Solofra, se la conquista partendo da zero con il Tre Olivi di Paestum. È il fascino della Michelin, il mistero che da un lato affascina e dall’altro fa arrabbiare. Ma intanto, ne siamo qui a parlare. Ancora una volta, quindi chapeau.

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