Tag: Italia

Tarte tropézienne e tropeziana: conoscete la differenza?

La Cucina Italiana

Tra le tante storie che raccontano la mai sopita concorrenza gastronomica tra Francia e Italia, quella che riguarda la tarte tropézienne e tropeziana merita certamente un posto speciale. Perché questi due dolci, completamente diversi e buonissimi, per il loro nome così simile sono stati protagonisti persino di una battaglia legale. Una storia cominciata nel 2018, quando dalla Francia arrivò una richiesta formale all’Italia di trovare un altro modo per denominare la “tropeziana” perché secondo loro richiamava troppo quello della loro creazione. E anche se di quella battaglia tra tarte tropézienne e tropeziana, che per giorni ha riempito le pagine dei giornali, non si sa più nulla, quel che è certo è che ha contribuito ulteriormente a rendere queste due torte delle icone della pasticceria da conoscere e da assaggiare.

Com’è fatta la tarte tropézienne e dove è nata

Authentic Tarte Tropezienne for sale at the St Tropez Market. The origins of the tart are that an Alexandre Mika had a shop in Saint-Tropez where he made this cake using a recipe that he brought with him from his native Poland. In 1955 a film crew set up across from the shop whom continuously bought up his tarts. The crew included the film director Roger Vadim; and a then unknown French beauty, Brigitte Bardot. The tart became so beloved of the crew that Bardot is said to have advised Mika that he should have a special name for it and that’s when it was christened La Tarte Tropézienne.stocknshares

Tornando alla storia, e alle differenze: la tarte tropézienne tra le due è quella nata per prima, e in verità non si tratta nemmeno di una torta strettamente francese. È un dolce composto due dischi di pan brioche aromatizzati all’arancia e farciti con una crema pasticcera e una crema al burro aromatizzate alla meringa che il pâtissier di origini polacche Alexandre Micka negli anni ’50 decise di proporre nella sua piccola boulangerie di Saint-Tropez usando una vecchia ricetta di famiglia: una ricetta di sua nonna, polacca appunto. E se non fosse stato per Brigitte Bardot, probabilmente oggi non staremmo neanche a parlarne. L’attrice – secondo una leggenda da molti data per vera – assaggiò la torta durante un pausa pranzo delle riprese di Et Dieu… créa la femme, a Saint-Tropez nel 1956, e le piacque così tanto che pensò di darle un nome in omaggio alla celebre località della Costa Azzurra: “tarte tropézienne”, appunto. Una storia curiosa che fece il giro del mondo contribuendo al successo della pasticceria. Oggi in Francia è ovunque: Tropézienne è un catena, un brand guidato dal pasticciere Albert Dufrêne, che continua a tenere la ricetta della torta segretissima. Pare sia ancora custodita nella scatola di latta in cui la teneva Alexandre Micka, scritta su un cartone usato per confezionare i dolci.

Come è fatta la torta tropeziana e dove è nata

Foto Facebook pasticceria Uva

Food for Future Festival: il successo della prima edizione

La Cucina Italiana

Il Food For Future Festival ad Alba si è rivelato un trionfo, aprendo la strada a conversazioni nuove e a stimolanti riflessioni profonde sul futuro della gastronomia. Nella due giorni Francia e Italia si sono incontrate raccontando pezzi del proprio passato, presente e futuro. Organizzato dalla Città di Alba in collaborazione con Luciano Tona e la giornalista enogastronomica Sarah Scaparone, l’evento ha attirato una platea di addetti al settori e appassionati del mondo culinario nel Teatro Sociale di Alba. Con 40 relatori, 11 panel e 9 talk dedicati alla Francia come paese ospite, il festival è stato una celebrazione vibrante della gastronomia in tutte le sue sfaccettature. L’edizione 2024 è infatti già stata lanciata dall’assessore al Turismo della Città di Alba, Emanuele Bolla, evidenziando l’impatto positivo dell’iniziativa che si è svolta per due giorni.

Un teatro trasformato in sala ristorante, talk brevi e concisi e tematiche fresche, verso il futuro della gastronomia: sono queste le caratteristiche di questo format molto innovativo. Insomma, una ventata d’aria fresca che attira e stimola l’ascoltatore a pensare al futuro del cibo insieme ai relatori. Questo approccio dinamico e coinvolgente ha riportato la parola al centro della discussione gastronomica attraverso conversazioni informali e intime.

I temi dell’incontro e lo sguardo al futuro

La domenica del festival è stata dedicata alla scena gastronomica italiana: partendo dalla pasticceria, finendo con la carne. Ma non sono state le aree gastronomiche a essere al centro, bensì tematiche più ampie: dall’evoluzione in pasticceria alle forme e i sensi in essa; dall’importanza dei valori del territorio a quelle del design e dell’architettura in gastronomia; dal pane ai panorami alpini; dalla pasta patrimonio UNESCO alle cucine acide, finendo con il tema del selvatico, la fassona e le città. Si inizia con un dibattito sulla pasticceria in cui le giovani generazioni rappresentate da Christian Marasca (Zia*, Roma) e Maicol Vitellozzi (Torino) hanno evidenziato come sia nei laboratori che nella ristorazione ci sia un ritorno alla classicità, al valore della gestualità e uno sguardo a naturalezza e semplicità ben lontane dalle sovrastrutture che hanno contraddistinto gli ultimi anni. Concetto di gestualità che torna nei discorsi legati alla montagna alla cucina di Biafora (Hyle*, San Giovanni in Fiore-Cs) e di Cantafio (La Stua de Michil*, Corvara-Bz) che lancia il progetto di Incö, con un tavolo che risponde alla quotidianità dell’offerta gastronomica o, ancora, la gestualità testimoniata dalla lavorazione di una sfoglia come hanno raccontato la sfoglina Poletti e Beppe Rambaldi (Cucina Rambaldi, Villardora-To): sfoglia che rappresenta una tradizione in continuo divenire, basti pensare alla lasagna e alle sue interpretazioni. I temi del congresso hanno quindi toccato diverse sfere, dalla montagna alla cucina, dalle filiere alimentari alla mediterraneità, creando un ponte tra culture agricole e cucine urbane.

Lidia Bastianich: «Le ricette e i ricordi più belli della mia vita in Italia»

Lidia Bastianich: «Le ricette e i ricordi più belli della mia vita in Italia»

Lidia Bastianich è cuoca, personaggio televisivo, scrittrice italiana naturalizzata statunitense. Non in ultimo mamma e nonna, premurosa, talvolta severa, ma sempre rispettosa delle sue radici italiane. Già, perché le origini di Lidia Bastianich sono istriane, quando ancora l’Istria apparteneva all’Italia, almeno fino al 1975, quando il nostro Paese – con il discusso Trattato di Osimo – rinunciò definitivamente e senza contropartite, al suo diritto su quei territori. Le abbiamo chiesto qualche aneddoto di quando viveva in Istria, con i suoi genitori e tutti i parenti, molti dei quali oggi non ci sono più. Ma anche cosa si è portata dietro, per ridare vita a quei ricordi con il pensiero e con i fatti.

Questo tema importante di commistione tra ricordi e cucina è il fulcro del progetto I Racconti delle Radici, creato in collaborazione con il MAECI, che è stato presentato alla Farnesina di recente alla presenza dei Ministri Tajani e Lollobrigida durante il lancio dell’ottava edizione della SCIM – Settimana della Cucina Italiana nel Mondo 2023. Naturalmente, Lidia Bastianich non poteva non far parte di questo magnifico racconto dell’immigrazione italiana nel mondo, e qui vi raccontiamo già un primo assaggiato.

Nonna Rosa e gli animali da cortile

«Sono cresciuta con mia nonna Rosa in campagna, a Pola, in Istria, in mezzo agli animali, ai prodotti della terra. Ricordo ancora il cortile di casa e questa scena: i nonni, i loro fratelli, le varie zie, tutte con grembiule e fazzoletto legato in testa. Erano loro, le zie, che a tavola ci ricordavano di non sprecare mai il cibo, “ci son figliol che non dar da magnar”, dicevano. Oggi la cucina italiana per me è un ricordo, una nostalgia, una passione, un modo per ricevere e dare amore. È stata, a tutti gli effetti, non solo uno stimolo per quello che ho fatto e che sto facendo negli Stati Uniti ma anche una conferma di quello che sono. Da bambina son cresciuta in una comfort zone, in piena campagna, tra i polli, le caprette, i conigli a cui portavo da mangiare. Io ero la “runner”, la “helper”, l’aiutante di nonna Rosa in cucina, soprattutto il giorno della domenica. Ricordo ancora quegli odori inebrianti del sugo che bolliva per ore, lì dove c’era la stufa, nella casetta “nera”, accanto al pollaio. Ma anche il profumo del lauro, del rosmarino, della conserva di pomodoro, che mi piaceva “tocciare”, un po’ furtivamente, con un pezzo di pane».

L’addio all’Italia, senza preavviso

«Quando sono emigrata negli Stati Uniti, nel 1958, avevo 12 anni, è stato il cibo a ricordarmi la mia infanzia: cucinare mi faceva stare bene perché mi riportava a quel periodo andato. Una volta arrivata a New York mi sono chiesta: “Perché amo così tanto la cucina?”. Credo che sia stato l’istinto a farmi tornare alle origini: ero bambina e all’epoca non avrei mai immaginato che non avrei più visto casa, poi nel tempo l’ho capito e, con dispiacere, ho pensato che non ero riuscita a salutare mia nonna Rosa, le mie caprette, le mie zie… Ecco, con la cucina ho portato la mia terra, la mia famiglia, in America».

Quella cucina piccola, ma piccola… così

«Una tradizione tenuta viva con passione, entusiasmo e amore da quattro generazioni, persino quando, appena arrivati Oltreoceano, la Caritas ci aveva assegnato un appartamentino con una cucina piccola quanto uno sgabuzzino. Lì abbiamo, comunque, fatto tavolate con la famiglia e gli amici, non senza difficoltà: ci passavamo il cibo di mano in mano, visto che non c’era spazio a sufficienza Poi, appena ho potuto, per reazione, mi sono regalata una grande cucina! Tra i piatti che preparavamo più spesso c’erano risi e patate, la polenta con il formaggio, le verze in padella e, soprattutto, gli gnocchi, che ancora oggi, quando li mangio, sono una carezza interna, mi trasmettono una “sensation” unica. Una tradizione che continua anche a New York e che ho trasmesso anche ai miei nipoti.

Attorno al tavolo a impastare gli gnocchi

Da piccoli i miei nipoti si mettevano tutti attorno al tavolo a impastare, proprio come faceva mia nonna con me; adesso sono adulti, vanno all’università, ma mi chiamano per chiedere consigli: “Come si fa il sugo, quanto deve bollire il brodo ecc.”. Sono felicissima che anche loro, oltre ai miei figli, possano portare con sé le loro origini, nonostante siano nati in America. La cultura del cibo trascende dalla nascita, ma appartiene alle origini della famiglia. Anche perché c’è una differenza sostanziale tra gli italiani e gli americani, noi ci portiamo dietro sempre il cibo. Per quello la cucina italiana negli Stati Uniti è la più apprezzata, anche grazie ai primi italoamericani che nel 1800 erano venuti qui a cercare fortuna, portando con sé le tradizioni regionali. Ben diverse dalle mie istriane, perché le loro erano del sud Italia. Così, in età adulta, ho cominciato a viaggiare in lungo e in largo per il Belpaese, così ho scoperti i piatti regionali e li ho portati negli States. Questa è stata la mia fortuna, questa la mia scelta, questa la mia vita».

Proudly powered by WordPress