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» Pasta con crema di ricotta e melanzane

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Innanzitutto lavate e mondate le melanzane e tagliatele a listarelle corte.

Mettete a cuocere le melanzane in un’ampia padella antiaderente con un po’ di olio e sale, e nel frattempo preparate la crema di ricotta: mettete ricotta, panna, basilico, sale e olio in una ciotola e frullate con un minipimer (in alternativa, potete mettere tutto in un mixer e frullare così, oppure tritare il basilico al coltello e mescolare a mano).
Mettete la crema in frigo nell’attesa.

Cuocete le melanzane finché non saranno ben dorate, quindi spegnete e unite la crema di ricotta.
Nel frattempo, cuocete la pasta in una pentola di acqua salata bollente e allungate il condimento con 1 mestolo di acqua di cottura per renderlo più fluido.

Scolate la pasta al dente e fatela saltare nel condimento, aggiungendo un po’ di pecorino per mantecare.

La pasta con crema di ricotta e melanzane è pronta: aggiungete un po’ di basilico fresco e servitela calda, tiepida o anche fredda.

Salento goloso: dieci locali che meritano (sempre) una sosta

Salento goloso: dieci locali che meritano (sempre) una sosta
La suggestiva Trattoria Iolanda a Lucignano
I ricci di mare: ‘cult’ salentino da Sapori d’Arneo a Porto Cesareo
Il grande dehor della Masseria del Sale a Manduria
Battuto di gamberi, specialità del Cielo a Ostuni
Farmacia Balboa, locale di tendenza a Tricase
Cucina ‘supertipica’ alla Taverna del Porto di Tricase
Già sotto l’Arco a Carovigno: una tavola stellata Michelin
La zuppa di sgombro all’acqua pazza di Le Macàre ad Alezio
Dentro un hotel: I Fornelli di Teresa a Tricase
Bros: il talento di Floriano Pellegrino e Isabella Potì a Lecce

Tutti pazzi per il Salento: anche per la sua cucina. E se molti italiani la considerano genericamente pugliese, in realtà ha la capacità nell’esaltare al massimo il concetto di cucina povera, frutto di tradizioni centenarie e di prodotti, provenienti soprattutto dalle campagne. Ai piatti contribuiscono il pesce dell’Adriatico e un po’ di carne, preferibilmente di cavallo. È il regno della verdura coltivata o selvatica, anche per questo si spiega il dominio di osterie-trattorie-masserie con cucina sui ristoranti di vertice.

I consigli di Antonio Guida

Quattro per la cronaca le stelle Michelin: Già sotto l’arco a Carovigno, Il Fornello da Ricci a Ceglie Messapica (che in verità è sul confine con le Murge, con una cucina solo di terra e vegetale), Cielo a Ostuni e il celebrato Bros a Lecce, il locale dei giovanissimi fratelli Pellegrino, con la loro cucina di contaminazioni persino con l’Oriente. Il che è provocazione in una terra come questa, come spiega Antonio Guida, figlio del Salento cresciuto in Francia, diventato grande all’Argentario e consacrato a Milano, alla guida del Seta, gioiello bistellato all’interno del Mandarin Oriental. «La nostra è una cucina di ingredienti, più di altre. Cerchiamo abbinamenti semplici, intensi che si scoprono da bambini grazie a mamme e nonne ai fornelli», dice. «Da noi si è sempre cucinato tantissimo e lo si continua a fare».

I piatti imperdibili

Nel lungo elenco di specialità da assaggiare per i neofiti del Salento, lo chef consiglia la frisa (un biscotto di grano duro) con il pomodoro, lo sciuttidu che è la gustosa peperonata locale, cicureddhe cu le fave nette (cicorie selvatiche con purea di fave), paparina e paparotta («È una ricetta propria della mia cittadina, Tricase», sottolinea Guida): la prima è papavero fritto in foglie, la seconda è il recupero per eccellenza a base di pane avanzato, legumi e cime di rapa, tutto fritto in olio di oliva che è storico vanto dell’area. Un primo? Ciceri e tria: la caratteristica sta nella cottura della pasta di semola di grano duro che viene in parte fritta e in parte bollita. Poi si unisce ai ceci cotti con olio extravergine, aglio, cipolla e aromi: un piatto antichissimo, Orazio ne parlava già nelle sue Satire (35 a.C.). Quanto al secondo, Guida impone l’assaggio dei pezzetti di carne di cavallo, cotti in terracotta con aglio, sedano, cipolla, salsa di pomodoro e alloro. Piatto ideale per un bel calice di rosso, magari Negroamaro: simbolo enoico di Salento e di Puglia. Pronti al tour?

Trattoria Iolanda – Lucignano

Da quasi 50 anni qui si mangia bene, grazie all’impegno della stessa famiglia. Ci sono tutte le specialità salentine, dei primi molto buoni e una proposta curata alla griglia. Bisogna prenotare sempre.

Sapori d’Arneo – Porto Cesareo

Un locale che piace sempre perché oltre a essere una fornita enoteca, con una cucina semplice e diretta, promuove un sacco di iniziative per far conoscere i sapori e i vini del territorio.

Masseria del Sale – Manduria

Siamo nella capitale del Primitivo, grande vino del territorio: posto unico, ospitato in una masseria ristrutturata del Seicento. Si gustano buoni piatti di terra e di mare. Alla sera è spettacolare, anche per l’illuminazione.

Cielo – Ostuni

Location notevole, ospitata dal relais La Sommità: piccola corte interna o una bianca sala dal soffitto a botte. La cucina parte dalle eccellenze della regione, ma la mano di Andrea Cannalire vira verso una linea più creativa.

Farmacia Balboa – Tricase

Già l’insegna mette di buon umore: «Bevande spiritose e vini pregiati». E’ il locale più noto della cittadina, frequentato anche da Vip stranieri e che propone una mixology al top. Ideale per un aperitivo o un dopo cena.

Taverna del Porto – Tricase

La cucina salentina è in gran parte legata alla terra. Ma in questo locale, sul lungomare, si gustano eccellenti piatti a base di pesce: crudi del giorno, gran fritto di paranza, polpo, spiedini..

Già sotto l’Arco – Carovigno

Al primo piano di un palazzo barocco, con splendida vista sulla cittadina, c’è una delle certezze della cucina pugliese. La cuoca Teresa Galeone è brava nel rivisitare (con classe e leggerezza) la tradizione, partendo talvolta da piatti antichi.

Le Macàre – Alezio

Nel dialetto locale, l’insegna significa streghette ammaliatrici. E in effetti questo piccolo locale ha una certa magia, fatta di piatti salentini, curati e in chiave moderna. Da non perdere il ricco antipasto misto.

I Fornelli di Teresa – Tricase

È il ristorante interno dall’albergo Adriatico: deve il nome alla fondatrice che lo gestisce ancora, proponendo piatti made in Salento e una buona pizza, realizzata con farine selezionate.

Bros – Lecce

La meta gourmet della zona: Floriano Pellegrino e Isabella Potì sono giovani ma già molto bravi: “prima salentini, poi cittadini del mondo” (parole loro) esaltano i prodotti del territorio con una tecnica di alta scuola. Esperienza da gourmet.

Beppe Palmieri, il miglior maître al mondo, si racconta

Beppe Palmieri, il miglior maître al mondo, si racconta

Intervista al maître e sommelier dell’Osteria Francescana di Modena. Che ci svela onori ed oneri di un maestro di sala. Tra rigore, passatelli e zero alcol. In 25 annidi carriera

«Questo è l’ufficio storico di me e Massimo, esiste da circa 15 anni. Uno spazio solo nostro».

Sono con Giuseppe Palmieri, detto Beppe, restaurant manager, maître storico e sommelier dell’Osteria Francescana di Modena, nel suo «rifugio segreto» a due passi dal ristorante, un luogo pieno di arte contemporanea, un lungo tavolo di legno, come quelli dei famosi Refettori Francescani del progetto Food for Soul, per le loro riunioni e una stanza-guardaroba dove lui, elegantissimo, si cambia ogni giorno prima del servizio. Definito «il cameriere più famoso al mondo», Palmieri è praticamente un mito del settore. Ma lui si schernisce «ho scelto coscientemente anni fa il ruolo del gregario», ma senza vittimismi anzi «la vera rivoluzione si fa in sala. E’ qui che si decreta il successo economico e delle idee di un cuoco. Quello che fa la differenza? Il fattore umano». Noi de La Cucina Italiana abbiamo trascorso una giornata con lo staff del ristorante di Massimo Bottura, (il servizio nel numero di luglio, co-diretto con lo chef) due volte migliore al mondo secondo la classifica World’s 50 Best Restaurant, incontrando anche lui, dal 2000 al servizio in via Stella, a Modena, nel locale rilevato 5 anni prima da Bottura. Nato a Matera nel 1975, un carattere forte e determinato, ha all’attivo un blog dal nome evocativo Glocal, manifesto della sua visione del cibo e della ristorazione,  un libro «Sala e Cucina» (Artioli 1899, pp. 169, 35 euro), diario di bordo della sua esperienza in Osteria Francescana. Imprenditore, ha gestito per 7 anni un alimentari con vendita di panini di alta qualità, a Modena, il mitico Generi Alimentari Da Panino, che dopo il lockdown ha deciso di chiudere ma solo per guardare a nuove avventure e «stare al passo con i tempi».      

Come si gestisce una sala da primi del mondo?
«A noi è sempre venuto naturale guardare al collettivo, non ci sono gruppi: per questo, dal più anziano a più giovane ci siamo messi e relazionati sempre sullo stesso piano. L’ho realizzato da subito: per funzionare il nostro assetto non poteva essere verticale ma orizzontale, rendendoci responsabili in egual misura».

Da che cosa si distingue un buon cameriere?
«Amo ripetere che camerieri si diventa, non si nasce, ci vuole esperienza, etica del lavoro. Poi le leadership, il talento, di fatto emergono da soli. Un leader si fa riconoscere per il senso di responsabilità verso i propri colleghi. Trovo detestabile il termine “collaboratori”. Se tu investi in maniera autentica su un rapporto di stima e amicizia tra colleghi in modo forte, ne nasce un grande rispetto, non ci sono subalterni».

Si spieghi meglio
«Se tu hai un sogno, hai bisogno degli altri per realizzarlo: tutti devono dare qualcosa, con lo stesso impegno, con il massimo orgoglio. Poi certo, ci vuole autodisciplina e una condizione psicofisica eccezionale che permette di andare oltre i propri limiti. Bisogna stare bene, essere contenti di quello che si fa. Se il singolo non è allineato, compromette il lavoro della totalità».

Si dice che anche se in cucina c’è l’Inferno, in sala deve regnare il Paradiso. Lei come trova il tempo di ricaricarsi e come riesce a trasmettere sempre armonia, pur nelle sue giornate concitate?
«C’è un momento molto importante per me ed è quando vengo nella mia, «cameretta», come la chiamo io, proprio in questo studio. Qui mi cambio e raccolgo i miei abiti. Ho un rituale che mi rilassa particolarmente: mi sciacquo la faccia, appoggio le chiavi sempre nello stesso punto, mi lavo i denti, scelgo l’abito, lucido le scarpe, mi annodo la cravatta. In tutto non impiego più di 10 minuti».

Molto breve come relax.
«E’ lo spirito della sala, non ci si può fermare». 

E’ sempre molto elegante: la forma è anche sostanza?
«Credo di sì, dato il mio ruolo. Anche in ciò che indosso, tengo a dare importanza al mio passato, e quindi alle cose che hanno una certa età. Le faccio un esempio: una camicia o una giacca anche se si logorano non sono certo da archiviare: in primis perché mi ricordano delle esperienze e quei momenti vissuti danno valore. Poi perché un capo di qualità, più invecchia, più è bello. Le imperfezioni danno fascino».

C’è un piatto che associa a tanti pasti consumati con lo staff dell’Osteria Francescana? Una ricetta delle feste magari?

«Credo che quello che ho più amato qui, siano stati i passatelli in brodo. Quando ce li concediamo, e sono davvero rare occasioni, quel piatto assume le connotazioni di un genere di conforto. Ci rappresenta più di altri perché è una grande ricetta storica emiliana. Poi ha un valore simbolico: è il piatto di recupero per antonomasia pur preparato con ingredienti nobili. Il brodo è un lusso: per farlo buono servono materie prime eccellenti e molto tempo. Nell’impasto dei passatelli infine c’è un mondo: le briciole di pane e un altro ingrediente-principe per noi della Francescana, ovvero le croste di Parmigiano Reggiano. Infine, per prepararli ci vuole il contributo di una comunità intera perché bisogna raccogliere tanti ingredienti. Di solito funziona così: c’è chi si ricorda che ci sono due buste di pane avanzato o un po’ di Parmigiano grattugiato. Poi in 2 o 3 si prepara il brodo. E’ uno dei piatti del nostro collettivo in cui non ho visto nessuno rifiutare il bis. Poi, ogni volta c’è un risvolto comico…».

Comico?
«Sì: nel momento in cui ci si servono i passatelli inizia il percorso accidentato dalla pentola verso la sedia. Si vedono brodi che cadono, gente che scivola. Si ride. Anche questo fa parte della festa, della magia».

In sala, alla Francescana, ci sono incredibili opere di arte contemporanea: cosa rappresentano per lei?
«Chi fa avanguardia ridiscute i classici: ecco, queste opere ne sono la prova, la summa. D’altro canto mi piace pensare che abbiamo sempre vissuto nel rigore».

Infatti il suo motto è «basso profilo, altissime prestazioni». Ha un che di militaresco.
«Esatto.  Dal punto di vista artistico c’è un’opera che mi rappresenta e che trovo al contempo una pietra miliare. E’ stata esposta per diversi anni proprio qui in Francescana: Us Navy Seals di Vanessa Beecroft. Per la prima volta una donna è riuscita a fotografare questi militari della marina americana schierati. Significa rompere un baluardo. Lo stesso approccio che guida la creazione dei nostro piatti».


Lei è un grande sommelier: come brinda lo staff?
«Non lo fa. Nella nostra storia della francescana, in 25 anni, non abbiamo mai bevuto un bicchiere di vino. Amiamo così tanto quello che facciamo che non potremmo agire altrimenti. Il lusso di un buon bicchiere di vino, che sia un Nebbiolo, un Sangiovese un Lambrusco o un bicchiere di Bordeaux, ce lo concediamo quando non siamo operativi. Il segreto per chi fa il nostro lavoro è la concentrazione nell’intensità dello sforzo. Sempre».

 

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