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La lepre in salmì della bisnonna Fanny: ricetta di famiglia

La lepre in salmì della bisnonna Fanny: ricetta di famiglia

Lepre in salmì, ma non solo. C’è una bella atmosfera quando si arriva a casa della signora Annapaola Zandomeneghi, vicino a Verona. «Ne ho imparate di ricette da voi». Da grande lettrice della nostra rivista, è così che ci accoglie e poi ci mostra la collezione con orgoglio (suo e, ve lo assicuro, anche nostro). Un giardino curato, un salotto immacolato, una bellissima tovaglia con tante firme: sono quelle delle persone che hanno mangiato a questo desco, che vengono poi ricamate, e fra poco ci sarà anche la mia. E poi c’è la lepre in salmì sul fuoco da una parte e la polenta dall’altra. La signora Annapaola non si scompone, anche perché con un passato di medico neurologo in ospedale ci vuole ben altro. La cucina è affollata, ci sono i figli Federico, che stappa una bottiglia di vino, ed Emanuela, che si dedica a sorvegliare il cibo, mentre sua figlia Adele, studentessa di medicina, sistema le torte appena tolte dal forno. Sono d’ispirazione dell’Alto Adige perché il padre Bruno è di Bolzano e le ha trasmesso l’arte della Linzer. Anche se oggi è la lepre la grande protagonista. «È una ricetta ricorrente in questa casa, che prepariamo quando siamo tra noi, non in giorni come Natale, per esempio, perché non è un piatto che si può mangiare in tante persone», spiega Emanuela, professoressa di psicologia in un’università milanese. «Mio padre Albino» continua, «aveva una nonna di nome Fanny che cucinava la lepre; lei ha trasmesso la ricetta a mia nonna Adele e poi a mia madre, che un giorno la darà a noi. Diciamo che sta scendendo lungo la genealogia delle donne della famiglia». Il profumo è ovunque in questa cucina. E la lepre richiede tanto lavoro, ma qui nessuno si spaventa. Ci stiamo per sedere a tavola, tutti insieme, come usa fare nel nostro bel Paese, giovani e meno giovani, con la ritualità che caratterizza il pasto all’italiana. La lepre è buonissima, con la giusta punta di acidità, la polenta morbida come si richiede a un piatto della tradizione che non cambierà mai. La signora Annapaola è felice di avere tutti riuniti intorno a sé. Grazie, signora, di avermi fatto sentire parte della famiglia.

Lepre della bisnonna Fanny, come si prepara

«Seziono una lepre perfettamente pulita in tocchetti da mezzo etto ciascuno. Li raccolgo in una capiente terrina, li copro a filo con acqua e un bicchiere di aceto e aggiungo una manciata di sale, qualche rametto di rosmarino e di salvia, grani di pepe e un po’ di cannella in stecca. Lascio marinare al fresco per dodici ore; alla fine sciacquo molto bene la lepre. Trito un etto di salame artigianale a grana grossa e un etto di lardo e li rosolo in un grande tegame di coccio con un filo di olio; quando il soffritto è pronto, unisco i tocchetti di lepre, li lascio insaporire e, non appena cominciano ad asciugarsi, aggiungo grani di pepe, pezzetti di cannella, qualche chiodo di garofano, noce moscata, una manciata di mandorle a pezzetti e una di uvetta. Bagno con un paio di bicchieri di brodo, copro con il coperchio e lascio cuocere dolcemente per un paio di ore, aggiungendo via via, se occorre, un po’ di brodo. Alla fine della cottura, quando la carne si staccherà facilmente dagli ossi, spolpo con molta cura la lepre, sfilaccio la carne e la rimetto nel tegame di coccio facendo attenzione che nel sugo rimasto non vi siano pezzettini di ossi; sfumo con un bicchiere di vino bianco; quando il vino è evaporato mescolo tutto con una spolverata di grana grattugiato. La lepre è pronta e la porto in tavola con la polenta gialla».

Ricetta Tajarin di nonna Carla

Ricetta Tajarin di nonna Carla

Step 1

Per la ricetta dei tajarin di nonna Carla, versate la farina sulla spianatoia ricavando un buco al centro; raccoglietevi le uova, i tuorli, 2 cucchiai di olio e 1 cucchiaino di sale. Impastate con le mani, fino a ottenere un impasto omogeneo. Raccoglietelo a palla, ponetelo in un piatto e coprite con un foglio di pellicola per alimenti. Fate riposare nel frigo per 20‑30 minuti.

Step 2

Spolverate la spianatoia con la farina di mais, ponete al centro l’impasto e spolveratelo con altra farina di mais. Stendetelo con il matterello ricavando una sfoglia spessa 2-3 mm. Tagliatela in rettangoli lunghi 12-14 cm; arrotolate ogni rettangolo e con un coltello a lama liscia tagliatelo per ricavare sottili tajarin. Spolverateli di farina di mais e distribuiteli in un vassoio cercando di non sovrapporli troppo.

Step 3

Mettete i funghi secchi a bagno in acqua calda. Nel frattempo tritate il sedano, la carota e la cipolla e soffriggeteli in un tegame in un velo di olio. Scolate i funghi reidratati, tritateli al coltello e aggiungeteli al soffritto, fate insaporire e unite la passata di pomodoro; completate il ragù con alloro e rosmarino e cuocetelo per 30-40 minuti, regolando di sale.

Step 4

Lessate i tajarin in acqua bollente salata. Se il ragù risulta troppo denso, aggiungete un po’ di acqua di cottura. Scolate la pasta, unitela al sugo e mantecate con un po’ di burro.

Ricetta: nonna Carla di Benedetta Parodi, Testi: Sara Tieni, Foto: Claudio Tajoli

Ravioli del plin, storia e ricetta di nonna Metilde | La Cucina Italiana

Ravioli del plin, storia e ricetta di nonna Metilde
| La Cucina Italiana

Metilde Cigliutti vive da sempre tra le colline delle Langhe, insieme ai suoi ravioli del plin. E da sempre sa bene che sono un patrimonio di tutta l’umanità, come pochi anni fa ha riconosciuto anche l’Unesco. «I miei genitori» racconta, «erano contadini. Avevano un po’ di vigneti, ma anche alberi da frutta, perché mio padre amava le pesche e coltivava le varietà più rare e originali che trovava. In passato tutto era molto diverso. D’inverno faceva davvero freddo, la neve scendeva in abbondanza e il ghiaccio restava fino alla primavera. Oggi tutto intorno vediamo filari di viti, ma allora c’erano anche tanti campi di grano e granoturco. In queste zone la mietitura è stata fatta a mano fino agli anni Sessanta». Anche la cucina, nel corso degli anni, è cambiata: «La vita in campagna era durissima. Si mangiava di più e le portate dovevano essere molto nutrienti per sostenere la fatica del lavoro. Oggi alcuni piatti sono complicatissimi, ma allora le pietanze erano semplici, preparate con gli ingredienti disponibili in quel momento».

Se vivi nelle Langhe, non puoi fare a meno di tajarin e ravioli e Metilde era una bambina quando ha imparato a fare la pasta fresca da mamma Clementina. «La cucina era il luogo più importante della casa, era l’unico spazio riscaldato, il centro della vita della famiglia. Durante la giornata, il potagé (la stufa a legna) era costantemente acceso, con il contenitore dell’acqua calda pronto per l’uso. Il fuoco era sempre utilizzato, con il sugo che cuoceva lentamente, le minestre che bollivano nel loro brodo denso per tutta la giornata e i piatti che venivano tenuti in caldo per chi arrivava in ritardo».

Metilde ha festeggiato pochi mesi fa il suo cinquantesimo anniversario di matrimonio. Ha conosciuto suo marito Giuseppe andando a lavorare come cameriera per il ristorante Savona di Giacomo Morra, il padre fondatore della famosa Fiera del tartufo di Alba. Durante una festa organizzata dal ristorante al Castello di Racconigi, i due si sono incontrati e da allora sono stati sempre insieme. «Quando ci siamo sposati, abbiamo fatto una grande festa nel cortile di casa e a cucinare per tutti noi è venuto un cugino. Era autunno e avevamo un cesto enorme di tartufi. Ma allora costavano molto meno di oggi».
E così, da Barbaresco si è trasferita qualche chilometro più in là, ad Alba, nella frazione Madonna di Como, dove vive ancora oggi con il marito, il figlio Mario e il cognato Osvaldo. A pochi passi di distanza c’è il suo piccolo agriturismo, Villa Bricco Paglieri, un’unica casa in affitto con dieci stanze. «Quanto sono cambiati i tempi. In passato gli unici stranieri arrivati in zona», conclude Metilde, «erano stati gli americani verso la fine della guerra. Ora arrivano turisti da tutto il mondo per conoscere la nostra terra, le nostre tradizioni e la nostra storia. E quando vengono a trovarci, c’è sempre un bicchiere di vino e qualche fetta di salame ad aspettarli».

I ravioli del plin, la ricetta di Metilde Cigliutti

«Iniziate cucinando l’arrosto di vitello; come una volta, io aggiungo alla carne anche un po’ di acqua e vi cuocio il riso. A parte, sbollento le erbette (spinaci e coste) e poi le salto in padella con il burro. Quando l’arrosto è pronto, trito insieme carne, verdure e riso e amalgamo con formaggio grattugiato, un uovo e un pizzico di noce moscata. La pasta è simile a quella dei tajarin: dieci uova per un chilo di farina. Dovete tirarla con la macchina finché non diventa molto sottile. Si taglia con la rotella in lunghe strisce larghe circa 5 centimetri; si posa il ripieno in piccole quantità a distanza regolare di poco più di un centimetro e più vicino a uno dei due bordi. Dopo aver ripiegato la pasta, in modo da coprire completamente i mucchietti, arriva il momento del plin, il pizzicotto che chiude per bene il ripieno all’interno della pasta fresca sigillandone le estremità, prima di dividere i raviolini con la rotella. Il condimento? Io preferisco burro e salvia, perché lascia apprezzare tutto il sapore del ripieno. E non preoccupatevi per quelli che si rompono durante la preparazione: saranno ottimi alla sera, da gustare col brodo».

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