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MasterChef: chi è Chiara Pavan e cos’è la cucina ambientale?

La Cucina Italiana

Scopriamo insieme chi è l’ospite chef a MasterChef, la cuoca Chiara Pavan, che spesso avrete ritrovato nei nostri articoli online e tra le pagine del ricettario della nostra rivista.

Il futuro è green, anche in cucina, e MasterChef, nella puntata di questa sera, esplorerà proprio le nuove frontiere della sostenibilità. Nell’ultimo skill test della stagione, dedicato a una cucina che si prende cura del territorio attraverso la valorizzazione dei suoi ingredienti, i giudici Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli accoglieranno un’ospite speciale, Chiara Pavan del ristorante Venissa (una stella verde Michelin), che si trova sull’isola di Mazzorbo a Venezia. La chef racconterà ai concorrenti la sua cucina ambientale, che descrive il territorio circostante e, allo stesso tempo, riflette sull’impronta che vi lascia.

Veronese, 39 anni, Chiara Pavan è laureata in Filosofia con una tesi in Filosofia della Scienza a Pisa. Da sempre appassionata di cucina, dopo aver conseguito il diploma ad Alma, la scuola di alta cucina in provincia di Parma, ha fatto esperienza da Caino a Montemerano, a fianco della chef Valeria Piccini, ed è approdata al Venissa con Francesco Brutto (che adesso è anche il suo compagno di vita).

Solo i prodotti del proprio microcosmo

Insieme curano i menù del ristorante, e i loro piatti sono soprattutto a base dei frutti del loro orto, per trasmettere il forte legame con il territorio. «L’orto di Venissa ci permette di lavorare con prodotti sempre freschi, non trattati in alcun modo, unici perché crescono in un terreno ricco di sale, e soprattutto che hanno un’impronta carbonica decisamente più bassa, non avendo bisogno di trasporto per arrivare fino al ristorante», spiega la chef su Instagram. Certo, il progetto è molto ambizioso, e spesso complesso: «Talvolta è davvero difficile cucinare con prodotti provenienti solo dal proprio microcosmo, seguendo stagionalità che sono sempre più incerte. Eppure l’idea di cucina ambientale si basa principalmente su questo. In quest’ultimo anno, vedendo la laguna così in sofferenza ci siamo datə un sacco di limiti: verdure provenienti dal nostro giardino sull’isola o da orti di prossimità; solo quattro-cinque specie invasive; farine localissime più complicate da lavorare. Ma quanto è difficile?! Quanto sarebbe più facile usare pesci più comuni (oramai sempre meno presenti nei nostri mari), carne, cioccolato, prodotti esotici squisiti (e pensare che noi non usiamo nemmeno il limone…dando acidità con l’uva acerba di recupero del diradamento della vigna)».

Meno proteine animali

Molte delle proposte del Venissa sono a base vegetale: Chiara Pavan spiegherà ai concorrenti di MasterChef che «uno dei compiti principali di noi chef/fe oggi è dimostrare che le pietanze a base vegetale sono soddisfacenti tanto quanto quelle a base di proteina animale. Essendo i sistemi alimentari e il modo in cui mangiamo responsabili di un’alta percentuale di emissioni gassose e inquinamento, negli ultimi anni ho ripensato molto a cosa significhi davvero applicare principi di sostenibilità in cucina. Sembra scontato ma non lo è: la cosa più importante è promuovere una dieta povera di proteina animale e ricca invece di vegetali legumi e cereali. É fondamentale inoltre approvvigionarsi da coltivatori e produttori che condividono con noi gli stessi valori di cura dell’ambiente e dell’ecosistema».

Fra le verdure che, da buona veneta, preferisce, c’è il radicchio. «In Veneto il gusto amaro fa parte della cultura culinaria ed è particolarmente apprezzato. L’amaro è un’abitudine, ci riporta ai sapori del campo, dell’inverno con i radicchi, ma anche della primavera (con il tarassaco, le erbe spontanee e, in particolare, le cicorie)».

Trasformare i problemi in opportunità

Ma Chiara Pavan va oltre: cerca di sfruttare la flora e la fauna invasive per trasformare i problemi in opportunità. Prendiamo, ad esempio, la salicornia. «Negli ultimi due anni la presenza di piante alofite in laguna è molto aumentata. La causa è direttamente legata al cambiamento climatico: la risalita del cuneo salino, inasprita dalle siccità di questi anni, che ha portato ad un aumento della percentuale di sale nel suolo. La situazione nell’Italia nord orientale è piuttosto grave e non se ne parla ancora abbastanza. L’anno scorso a Venissa abbiamo perso vari alberi da frutto e una parte di vigneto. Le vittime di questo aumento della salinità del suolo sono proprio le produzioni agricole e la biodiversità. Solo le piante che tollerano un’alta percentuale di sale riescono a sopravvivere e a diffondersi dando forma a vere e proprie distese di salicornia e “sue sorelle”. A mio avviso, come per la situazione dei granchi blu, l’emergenza climatica va affrontata prima che sia troppo tardi ma anche con uno sguardo creativo: le piante alofite si possono usare in cucina, sono buonissime e hanno interessanti proprietà nutritive».

Le proteine alternative alla carne

Fra le proteine alternative al consumo della carne, la chef, da un paio di anni, ha introdotto in menu anche la rapana venosa, un gasteropode originario del mare del Giappone, già da qualche decennio arrivato nell’alto Adriatico, probabilmente – come il granchio blu – attraverso le zavorre delle navi. Si presta per cotture sia lunghe, che molto veloci. Un’altra specie aliena servita nel menu è l’anadara inaequivalvis, detta anche scrigno di Venere: è un mollusco bivalve estremamente invasivo che, come la rapana, si nutre di molluschi locali, contribuendo alla perdita di biodiversità e alla trasformazione degli ecosistemi marini. Esteriormente è simile alla vongola, ma ha un gusto singolare e tanta emoglobina quanto (in percentuale) il manzo. Chiara Pavan e Francesco Brutto ne hanno ricavato una sorta di «panna cotta» e la servono anche cruda, condita con olio all’aglio, allo zenzero, rapa lattofermentata, finocchio di mare, potentilla ed erba ostrica. «Nuove specie invasive, cereali tolleranti alla siccità, insetti e carne coltivata», promette la chef, «saranno ingredienti che accoglieremo con curiosità».

Zucca ripiena al forno – Ricetta di Misya

Zucca ripiena al forno

Innanzitutto lavate bene l’esterno della zucca, quindi tagliatela a metà per il lungo ed eliminate semi e filamenti dalla parte centrale, poi con uno scavino o un cucchiaio scavate via parte della polpa, lasciandone 1 guscio di almeno 1 cm lungo tutti i bordi, e mettetela da parte.

Salate e pepate l’interno del guscio di zucca, ungetelo con un filo d’olio e cuocete in forno ventilato preriscaldato a 200°C per circa 30-35 minuti o finché non risulterà ben cotta (potete controllare la cottura con i rebbi di una forchetta: se la buccia risulta morbida, è pronta).
Nel frattempo tritate grossolanamente la cipolla, spezzettate la salvia e fatele appassire in un’ampia padella antiaderente con dell’olio, poi aggiungete la salsiccia sbriciolata e lasciatela rosolare, infine unite anche la polpa di zucca a pezzetti e 100 ml di acqua e lasciate stufare a fiamma medio-bassa per almeno 15 minuti.

Tagliate il formaggio a cubetti e tritate grossolanamente le nocciole.

Prendete il guscio di zucca cotto e riempitelo con la farcitura.

Completate con formaggio e nocciole, quindi cuocete ancora per 15 minuti a 190°C.

La zucca ripiena al forno è pronta, non vi resta che decorarla con un po’ di salvia fresca e servirla.

Ciro Di Maio, non solo la pizza Mano de Dios per Maradona. Intervista

La Cucina Italiana

Lo raggiungiamo in una delle poche, pochissime, pause che si prende dal lavoro. «Entro in pizzeria alle 9 di mattina e esco all’una di notte. Non prendo un giorno da mesi e sono felice così», dice. E così è sempre stato: 33 anni di cui 19 trascorsi a impastare, Ciro Di Maio ha cominciato a fare pizze da piccolissimo, a 14 anni, perché già allora ha avuto bisogno di un’altra strada. Un’alternativa dopo un’infanzia complessa nelle palazzine popolari dei sobborghi di Napoli con un padre con un passato burrascoso. Un padre che poi però ha trovato a sua volta una nuova strada e gli ha dato l’esempio, mostrandogli che una vita migliore passa anche dall’aiutare chi ha bisogno. Ciro ora a suo modo fa lo stesso con i detenuti, con i ragazzi che vivono nei quartieri disagiati in cui è cresciuto lui, con chi bussa alla sua porta. Insegna un’arte che per tanti è ancora la via del riscatto, formando nuove generazioni di pizzaioli a cui spiega che la pizza può essere anche un modo per raccontare se stessi, le proprie origini. Come ha fatto lui con la Mano de Dios, in fondo. Ne abbiamo parlato in questa intervista:

L’intervista al pizzaiolo Ciro Di Maio

Oltre che su Instagram, la pizza Mano de Dios è piaciuta nella realtà?
«Sta andando molto bene, ai clienti piace, un po’ perché è scenica un po’ perché è buona. La chiedono tanti napoletani che abitano a Brescia, ma anche tanti bresciani».

La citazione calcistica è immediata per tutti?
«Certo, è impossibile non conoscere Maradona. È stato un idolo. Io sono cresciuto guardando Maradona. Ricordo ancora che quando andavo a scuola sul bus trasmettevano i video dei suoi gol. Maradona non è stato solo un calciatore. È stato amore per il calcio, per la vita, per la gente. Ha unito unito Napoli e l’Argentina. Una volta ho chiesto a un cliente argentino “perché voi siete così forti a calcio?”, e lui ha risposto “perché abbiamo sangue italiano”».

Hai altre pizze particolari come questa in menù?
«Noi facciamo la classica ruota di carro, in tutti i gusti classici e con i prodotti tipici campani. Questa Mano de Dios è unica nel suo genere non solo per la forma, ma anche per la cultura che racchiude. Per me è un modo per raccontare Napoli».

Cosa ha significato per te portare l’arte della pizza napoletana fuori da Napoli?
«Per me ha significato tante cose: non solo far conoscere la pizza verace, ma anche la vera cultura napoletana. Ci sono ancora tanti stereotipi, ingiustificati, su Napoli e chi ci abita, e che con il nostro lavoro possiamo contribuire a smontare. Napoli è bella e brutta allo stesso tempo, come le persone che possono essere buone e al contempo cattive. Di sicuro se non fossi nato a Napoli non sarei quello che sono. C’è un detto che dice che “O napulitan se fa sicc’ ma nun mor“, cioè “il napoletano può diventare pelle e ossa ma non morire”. Sappiamo resistere, anche nella povertà assoluta. Come tutti abbiamo da imparare, ma credo che l’unicità dei napoletani stia anche nella capacità di rialzarsi. Un po’ come ho fatto io».

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