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La zuppa di legumi di Gennaro Esposito è un invito in Umbria

La Cucina Italiana

«È un piatto che esprime perfettamente la concretezza di questo progetto, e il motivo per cui ho scelto di farne parte», dice Gennaro Esposito. «A Centumbrie abbiamo la fortuna di lavorare con prodotti autentici coltivati nei terreni dell’azienda, e con grandissima etica: grandi sapori che noi abbiamo il compito di accarezzare, per valorizzarli il più possibile», prosegue lo chef. «L’Umbria ha una cucina solida e importante, per il menù di Evo Bistrot l’ho interpretata in chiave moderna, più leggera, ricca di vegetali e anche di carni tipiche come l’oca o la faraona. E oltre a questo ci sono dei tocchi mediterranei», racconta ancora Esposito, che a Centumbrie ha affidato la cucina al suo giovanissimo pupillo Raffaele Iasevoli.

Tortelli all’oca

Alberto Blasetti

Cosa si mangia all’Evo Bistrot di Centrumbrie

Nel menù, infatti, ci sono anche tanti piatti di cucina del Sud, specie di pesce, in un inedito e appagante matrimonio gastronomico che racconta anche le radici di Esposito. Il risultato è una bella scelta di piatti che vanno dai crudi agli spaghetti al pomodoro dello chef che fanno capolino tra i primi insieme a tortelli di oca o linguine spezzate con brodo di cipolla e tartufo nero. Tra i secondi una ricca carta di carni fatte al Josper come Ribeye di bovino umbro; Faraona, e anche molto pesce, prima di un’altrettanto lunga lista di piatti vegetariani in cui, accanto a questa meravigliosa zuppa di erbe amare di cui Esposito ci ha dato la ricetta, ci sono tra gli altri parmigiana di verdure e carpaccio di petali di rapa rossa in agrodolce con pecorino e salsa verde. L’alternativa? La pizza, che all’Evo Bistrot è bassa, friabile, leggera («ma – ci tengono a precisare – non romana». Infine tapas da accompagnare ai cocktail di una drinklist in cui spiccano i signature fatti anche con il profumato olio evo di Centubrie, oppure ai vini dell’azienda o prodotti prevalentemente nel territorio che seguono la stessa filosofia abbracciata dalla famiglia Cinaglia e Menicucci: più locali e naturali possibile.

Strappatelle umbre: la ricetta antispreco da scoprire

La Cucina Italiana

Le strappatelle umbre sono uno dei tantissimi piatti che raccontano che la cucina italiana, oltre che di grandi materie prime, è fatta di creatività, sostenibilità, capacità di ottimizzare tempo e anche denaro. Una ricetta di recupero strepitosa, emblema della cucina contadina nella zona del ternano, che confina con il Lazio, dove le strappatelle sono altrettanto diffuse, ma con il nome di «pizzicotti».

Strappatelle umbre: un meraviglioso piatto contadino

Economiche, saporite, corroboranti, le strappatelle sono un tipo di pasta fatto con gli avanzi del pane. O meglio, un modo per ottimizzare l’impasto del pane. Le massaie le preparavano usando lo stesso impasto delle pagnotte: ne tenevano via un po’ e lo facevano a pezzetti con le mani, con degli strappetti (o pizzichi, ecco perché nel Lazio si chiamano si chiamano «pizzicotti»), e poi le facevano cuocere in acqua bollente salata. Le condivano con un sugo di pomodoro saporito – fatto con un soffritto di carote, sedano e cipolla, e il peperoncino – e alla fine aggiungevano una bella spolverata di pecorino (il formaggio dei pastori). Poi impacchettavano le strappatelle e le davano ai mariti che uscivano per lavorare nei campi e portare al pascolo il bestiame. 

Strappatelle umbre: come condirle

Oggi condire le strappatelle umbre con salsa di pomodoro e e pecorino è un’usanza molto diffusa, ma nel frattempo si sono fatti largo anche tanti altri sughi. Su tutti  accompagnamenti corposi con protagoniste le specialità locali: per esempio la salsiccia, regina di questa zona d’Italia del centro-sud celebre anche la norcineria, ma anche funghi e tarfufo (il nero in questa zona è un’eccellenza) o legumi come alternativa vegetariana. Poi ogni chef ha la sua versione, e per questo basta dare un’occhiata ai menù dei ristoranti, dove le strappatelle in genere non mancano. Anzi, proprio per la loro versatilità e facilità di preparazione, diventano un piacevole banco di prova per i tanti cuochi.

Volete preparare le strappatelle in casa? Basta un impasto per il pane o la pizza, e un bel sughetto. Ecco la nostra ricetta.

Ricetta delle strappatelle umbre

Ingredienti per l’impasto:

  • 500 g di farina bianca
  • 250 ml di acqua
  • 15 g di lievito di birra
  • 20 g di olio
  • 10 g di sale

Ingredienti per il sugo

  • 500 ml passata di pomodoro
  • 1 carota
  • mezza cipolla
  • 1 gambo di sedano
  • 1 peperoncino
  • 150 g di pecorino grattugiato
  • sale, pepe qb
  • Olio evo

Procedimento per l’impasto

  1. Fate sciogliere il lievito in un po’ di acqua a temperatura ambiente.
  2. Versate la farina in una ciotola, unite l’acqua poco alla volta, mescolando.
  3. Dopo che avrete versato la metà del liquido, aggiungete il sale.
  4. Versate anche l’ultima parte di acqua, sempre gradualmente, e impastate fino a ottenere un composto omogeneo.
  5. Aggiungete anche l’olio un po’ alla volta e lavorate ancora per qualche minuto, ripiegando la pasta su se stessa.
  6. Una volta ottenuto un panetto morbido e liscio, trasferitelo in un recipiente, copritelo con un canovaccio o con della pellicola e fatelo lievitare per circa un’ora e mezza.
  7. Dividete l’impasto in 8 pezzi uguali, arrotolateli per formare dei cilindri.
  8. “Pizzicate” dei pezzetti di impasto della stessa grandezza (devono essere molto piccoli perché in cottura si ingrandiscono) e metteteli su una spianatoia ricoperta di farina.
  9. Fate bollire l’acqua salata e versate le strappatelle. Quando arrivano in superficie sono pronte, ma fate la prova d’assaggio.

Procedimento per il sugo

  1. Tritate carota, cipolla e sedano e versateli in una pentola con dell’olio.
  2. Quando cominciano a dorarsi aggiungete la passata e il peperoncino.
  3. Lasciate cuocere circa venti minuti, aggiustate di sale

Condite le strappatelle cotte con il sugo, e servitele con una bella spolverata di pecorino.

Da sapere

Curiosità: “strappare” gli impasti è un’usanza diffusa in tante zone d’Italia, e in fondo anche questa è una tecnica antispreco. Pensate ad esempio ai “maltagliati”, che in Emilia si preparano con gli avanzi di sfoglia delle tagliatelle. Oppure agli “strapponi”, tipici toscani, che non sono altro che pezzi di pasta strappata con le mani dopo averla stesa. Si fanno all’agliata, e cioè con un sughetto di aglio, noci e pecorino. 

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Umbria. La mattinata è uggiosa, il cielo invernale grigio e fermo, ma quando arriviamo all’azienda agricola di Cinzia Lattanzi a Castel Ritaldi (Perugia) nel cuore della Valnerina, l’atmosfera viene animata da un gruppo di galline variopinto e piuttosto esuberante. Seguono, in ordine, i cani Nebbia e Luna, qualche oca razzolante, una faraona. In sottofondo, il belare di pecore e agnellini. Nitrire di cavalli. Poi, in questo agreste sottofondo musicale arriva la titolare, ventinove anni, con le mani arrossate per il lavoro nel suo microcaseificio con annessa bottega. Accanto a lei il padre Dante e la zia Rosanna. Siamo qui per scoprire la ricotta salata della Valnerina, un prodotto raro e antico, dal 2019 insignito del presidio della Fondazione Slow Food per la biodiversità alimentare, e di cui Cinzia è la più giovane produttrice. Stagionale, questa ricotta si prepara da novembre a luglio e matura dai quindici giorni ai cinque mesi. Nata da una delle attività in passato alla base dell’economia locale, ovvero la pastorizia, la ricotta salata della Valnerina si riconosce dall’assenza di buccia e dalla pasta bianca e compatta. Veniva conservata, durante la transumanza, in una sacca di tela stretta all’imbocco: dà lì la sua tipica forma a pera.

La tradizione la vuole coperta non solo con sale ma anche di crusca ed erbe spontanee, che ne favoriscono la conservazione. Si degusta fresca, con olio e pepe, oppure stagionata, grattugiata sull’acquacotta umbra, un piatto a base di pane casereccio raffermo, imbevuto in una zuppa di pomodori e cipolle, aromatizzato con qualche foglia di menta. Cinzia ci fa assaggiare la ricotta in versione fresca e una selezione dei suoi formaggi, un po’ di confettura e del miele, su rustici tavolini che in primavera e in estate ospitano gli «aperi-country», saporiti aperitivi con formaggi, vini e altri prodotti artigianali della zona. «Mi piace fare sistema. Abbiamo tante eccellenze qui», ci racconta la giovane casara la cui storia mette allegria. Sa di fatica, di resistenza, ma anche di leggerezza.

«Ho iniziato nel 2012. La spinta è stato il mio grande amore per gli animali e per l’attività di famiglia: mio padre Dante allevava agnelli da carne a uso familiare». A dare il via a questa estasi casearia in realtà è mamma Carla. «Avevamo latte in abbondanza, così si mise a produrre del formaggio. Si è sparsa la voce e hanno iniziato a chiedercelo in tanti. Dandole una mano capii che ero a una svolta e decisi di farmi coraggio. Acquistammo i primi duecento capi: pecore sarde e francesi di razza Lacaune, e iniziammo con pecorino e ricotta».
Intanto arriva Aurora, tre anni e mezzo. La bambina di Cinzia sta con lei dopo la scuola materna, in una fattoria didattica tutta per lei, fatta di agnellini e pony, «come me ama il contatto con gli animali, è sempre in prima fila ad accudirli». Tutto questo affetto si traduce in latte eccellente prodotto da seicento capi che pascolano, per dieci mesi l’anno, sotto olivi secolari e brucano erba fresca. «Ho stretto un patto con gli ovicoltori della zona. Integro la loro alimentazione con cereali prodotti da noi, nei vari ettari che teniamo in affitto per il seminativo. Un tempo in estate, sugli altipiani, arrivavano anche greggi di altre regioni. I locali invece, da settembre, spostavano gli animali verso le pianure e i pascoli laziali, dove il clima è più mite». Intanto arriva un paniere di latticini: è ricco, invitante, creativo e anche molto stagionale: oltre alla celebre ricotta ci sono il pecorino fresco, il Morbidello, un formaggio a pasta fondente condito con noci oppure con olive e peperoncino, un ottimo yogurt, «una cliente mi ha suggerito di aggiungerlo all’impasto per la piadina: è stata una scoperta», la mozzarella e la panna cotta. Non manca nemmeno lo stracchino di pecora, il cacio- ricotta, il primosale classico e quello aromatizzato. Infine c’è il cuore di robiola muffettato, delizia dalla romantica forma con crosta di muffa edibile, il Penicillium Candidum. Siete incuriositi? Le porte sono aperte. Cinzia ama l’accoglienza.
«A richiesta, organizziamo un laboratorio che ho intitolato “Impariamo a fare il formaggio”, un’iniziativa aperta a gruppi di famiglie interessati alla tradizione secolare dei pastori umbri». Si lavora tanto qui, ma anche ci si diverte. «Lo scorso Natale ho preso parte al Presepe vivente di Castel Ritaldi nei panni di una casara (ride, ndr). Preparavo la ricotta in diretta. Io non cambio mestiere neanche nei giorni di festa». La sveglia di Cinzia è all’alba, i tempi della campagna sono implaca- bili ma su di lei scivolano con brio. Merito anche del supporto del marito Alex. I progetti sono tanti, la voglia di sperimentare pure. «Ho preso una mucca. La speranza, quando partorirà, è di avviare una rivendita di latte fresco. Per la prossima Pasquetta invece, tempo permettendo, è in programma il Pranzo del Pastore: oltre ai formaggi anche salumi locali e fave. In zona, peraltro, c’è la fava cottòra, altro presidio Slow Food dalla buccia morbidissima». Volete prenotarvi? Trovate le informazioni su agricolacinzialattanzi.it ma, per raggiungere la nostra casara meglio i social. «La gente mi scrive lì, segue la vita della fattoria. Ci scambiamo consigli». E Cinzia, da buona millennial, si racconta, tra reel e post.

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