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La cucina italiana all’UNESCO: il significato di un importante percorso

La Cucina Italiana

Qual è, per il nostro Paese e per il mondo, l’importanza della candidatura della cucina italiana al Patrimonio dell’Umanità? 

«L’UNESCO ha la grande forza di accendere i riflettori del mondo su quello che iscrive nel Patrimonio dell’Umanità. Un esempio semplicissimo: quando si viaggia, tutte le guide, dalle più commerciali alle più raffinate, dicono che i luoghi da non perdere sono quelli che hanno il riconoscimento dell’UNESCO. Quindi è ovvio che essere parte di questo patrimonio significa in primo luogo poter accedere a una lista di superlativi.

E quando poi una tradizione o un bene materiale diventa Patrimonio dell’Umanità vuol dire che la responsabilità di salvaguardarlo, di valorizzarlo e di trasmetterlo non è più solo del Paese o della comunità in cui esso si esso trova, ma diventa globale, cioè di tutti i 183 Stati che aderiscono a questo sistema.

In terzo luogo, quando lo Stato candida un elemento al Patrimonio dell’Umanità è perché ritiene questo elemento rappresentativo della sua storia e si impegna concretamente nella sua valorizzazione, attraverso le scuole, per esempio, o sostenendo le associazioni, grandi e piccole, che ne tramandano le conoscenze. Questo elemento, la cucina italiana nel nostro caso, deve essere consegnato alle nuove generazioni, e perciò lo Stato dovrà promuoverne i valori e le pratiche fondanti, dallo spreco zero all’arte del riuso, dalla creatività gastronomica al dialogo con le altre culture che da secoli caratterizza il nostro Paese».

Questa candidatura è nata da un’intuizione del mensile La Cucina Italiana. Tuttavia, se siamo arrivati fino a qui, il merito va alla comunità delle associazioni che si occupano di questo tema. Qual è stato il loro ruolo nella promozione dell’iniziativa e nell’elaborazione del dossier? 

«La Cucina Italiana ha saputo con molta generosità aggregare soggetti diversi, da Casa Artusi, all’Accademia Italiana della Cucina, al Collegio Culinario, realtà con storie differenti, ma tutte unite nella missione di salvaguardare e valorizzare la pratica della cucina italiana.

Per l’UNESCO è cruciale che la candidatura sia promossa e porti il nome di una comunità che raggruppa associazioni così emblematiche.

Sarà poi una sfida dimostrare all’UNESCO che anche una rivista può essere una comunità. E le basi ci sono: La Cucina Italiana esiste dal 1929, da quasi cent’anni, ed è probabilmente una delle prime riviste al mondo dedicate a questo tema, e ancora oggi riveste un ruolo essenziale nel raccontare l’evoluzione della cucina, delle sue pratiche, dei ricettari tradizionali».

Papa Francesco: i calamari ripieni e altre curiosità a tavola

La Cucina Italiana

Papa Francesco è forse il papa più intervistato della storia, ma nessuno gli ha ancora chiesto la ricetta dei calamari ripieni. «Jorge cucina benissimo, fa dei calamari ripieni da urlo», confidò in una intervista la sorella del pontefice, Maria Elena Bergoglio, pochi giorni dopo l’elezione a pontefice del fratello. Da quel 13 marzo 2013, Bergoglio non ha più avuto occasione di mettersi ai fornelli e la ricetta di quella pietanza «da urlo» rimane un segreto ben custodito.

Il merito delle abilità culinarie del papa è della mamma Regina Maria, la quale a sua volta aveva imparato i segreti di cucina da Rosa, la nonna paterna di Bergoglio, emigrata in Argentina dall’Italia. Erano abbondanti e lunghi i pranzi in casa Bergoglio, soprattutto la domenica, quando le donne di casa ci davano dentro con i piatti della tradizione: risotti, pasta fatta in casa, pollo al forno, dolci.

Il giovane Jorge Mario gettava un occhio in cucina, memorizzando i gesti sapienti della mamma e della nonna. «Mia madre», ha raccontato Bergoglio nel libro intervista El Jesuita, pubblicato in Argentina nel 2010, «rimase paralitica dopo aver partorito l’ultimo figlio, il quinto. Quando tornavamo da scuola, la trovavamo seduta a pelare patate, con tutti gli altri ingredienti per il pranzo già disposti. Ci diceva come dovevamo mescolarli e cucinarli».

Così Bergoglio, anche da semplice prete e poi da vescovo, si è sempre trovato a suo agio fra pentole e fornelli. Quando era professore al Collegio Massimo, il futuro papa cucinava per i suoi studenti la domenica, giorno di riposo per i cuochi. «Ci ha sempre preparato una fantastica paella», ha ricordato il suo confratello gesuita, padre Angel Rossi. A chi gli ha chiesto se sia davvero un buon cuoco, Bergoglio ha risposto: «Beh, non ho mai ammazzato nessuno col mio cibo».

Eletto papa, Jorge Mario Bergoglio, non ha voluto occupare l’appartamento pontificio. Per lui, quindi, niente servizio di cucina personale. Nessun cuoco privato e neanche, come spesso accade per gli ecclesiastici, suore cuciniere. Papa Francesco dorme in un piccolo appartamento della Domus Santa Marta e consuma i pranzi e le cene nella mensa comune.

Il papa viene servito a un tavolo defilato. La cucina è semplice e non diversa da quella di molte altre mense: primi di pasta o di riso, zuppe, secondi di carne e di pesce, verdure, insalata, frutta. Si beve vino bianco e rosso, in genere piemontese. Sulla tavola del papa arrivano anche i prodotti delle fattorie delle Ville Pontificie di Castel Gandolfo: latte, ricotta, yogurt, formaggi, carne, verdure e un ottimo miele. Probabilmente il papa ha gustato anche i regali che gli ha portato la regina Elisabetta d’Inghilterra in occasione della sua visita in Vaticano nell’aprile del 2014, tutti prodotti delle tenute reali, anzi, «del mio giardino», come disse la regina al momento dello scambio dei doni: miele, dodici uova, costate di manzo, succo di mela, sidro, chutney, marmellate, shortbread, tè e anche una bottiglia di whisky.

15 voci | La Cucina Italiana

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La rivoluzione in cucina e il piatto rivoluzionario sono due domande che abbiamo posto ai grandi cuochi che sono venuti a trovarci al nostro stand all’ultima edizione di Identità Golose. Domande perfettamente allineate con il tema del congresso e, soprattutto, con la nostra mission di voler scandagliare il fondo di questo mondo culinario così ampio, ma anche così stretto.

Ed è così che incontriamo chi si ribella alla parola rivoluzione come Massimo Bottura che preferisce sostituirla con evoluzione, chi invece si appella alla cucina rinascimentale come Davide Rampello o chi invece si sofferma sull’etica come Niko Romito.

I piatti rivoluzionari sono diversi come diverse sono le motivazioni: per Carlo Cracco è il piatto di Nino Bergese così difficile da ricreare, per Ruben Bondi è l’arrabbiata della nonna che gli ha aperto nuovi mondi, e così via.

E voi, cosa ne pensate? Scriveteci!

Le 15 testimonianze, in rigoroso ordine alfabetico:

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