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Cristina D’Avena sulla copertina di Vanity Fair Italia

Cristina D'Avena sulla copertina di Vanity Fair Italia

Nel momento in cui molto ci viene proibito, Vanity Fair celebra il desiderio con un numero speciale dedicato all’amore. Protagonista di copertina, Cristina D’Avena come non l’avete mai vista

Vanity Fair celebra il desiderio, l’amore e la vita oltre questo momento difficile e lo fa mettendo in copertina un personaggio che ha scelto di smettere i panni consueti per vestire quelli di chi non ha alcuna intenzione di rassegnarsi alle asperità: una Cristina D’Avena splendente, fiera, padrona del proprio potenziale erotico, umano, affettivo.

La cantante e attrice – che ha esordito a 3 anni allo Zecchino d’oro e poi ha cantato le sigle di tutti i cartoni più amati da svariate generazioni – svela infatti il suo lato sexy (e inedito) nel numero di Vanity Fair in edicola da mercoledì 4 novembre. Nei panni di Dita Von Teese posa per questo numero speciale perché, come dice «In questi tempi incerti, l’unico modo per esorcizzare la paura è coltivare e praticare il desiderio».

«Il vero problema è che abbiamo perso l’innocenza: a marzo, quando è iniziato il primo lockdown, in fondo al tunnel c’era la speranza, l’andrà tutto bene, le canzoni sui balconi, le infornate di torte, le dirette Instagram. Tutti confinati, alcuni soli, altri in compagnia, comunque tutti convinti che si dovesse sacrificare qualcosa per riavere indietro tutto», scrive nel suo editoriale il direttore Simone Marchetti. «E invece eccoci qui: più delusi, più arrabbiati, forse persino più impauriti di prima. Perché a spaventarci non ci sono solo il virus e la prospettiva di un ennesimo crollo del lavoro, dell’economia e delle sicurezze: ci mette ansia non vedere la luce in fondo al tunnel, la fine di questo anno così terribilmente memorabile. E qui arriva questo nuovo, provocatorio numero di Vanity Fair: abbiamo pensato un giornale per celebrare il desiderio, l’amore, la vita, il corpo nostro e quello degli altri, la sessualità nostra, quella di chi amiamo e di chi desideriamo, oltre questo momento difficile».

Nelle pagine del numero Cristina D’Avena intervistata da Marchetti racconta che per lei valgono solo due cose in questo momento: la tolleranza e la speranza. «La tolleranza che si sta perdendo per via della faziosità dei social e di tanta politica contemporanea è fondamentale per capire tutto: gli altri, cosa non funziona, cosa funziona, come adattarsi. E la speranza è una sua conseguenza: la speranza è la virtù di chi riesce a vedere la luce in fondo al tunnel. È un esercizio di forza».

Come riesce a esorcizzare la paura? Vivendo il potere dei momenti che ancora abbiamo. «Bisogna amare, abbracciare chi possiamo, fare l’amore quando possiamo, approfittare di ogni singolo secondo come fosse un regalo. Non mi ritenga superficiale. Io penso che la mia vita e la mia carriera mi abbiano insegnato a coltivare una sana dose di fanciullezza. E tornare a essere bambini non significa essere superficiali. Vuol dire, invece, essere più positivi perché i bambini sanno essere leggeri, grande dote, e sanno convivere meglio con i momenti difficili perché posseggono la spensieratezza del reinventarsi».

Il suo ruolo di bimba donna e di donna bambina la fa amare indistintamente da uomini e donne perché incarna la spensieratezza dell’infanzia e i chiaroscuri sensuali dell’età adulta, perché è rassicurante e sembra di conoscerla da sempre. Cristina D’Avena ammette che le piace risvegliare il desiderio, essere fonte di attrazione e quando il direttore le chiede com’è stato cambiare così tanto la sua immagine per questa cover risponde: «È una provocazione, un invito a sciogliersi, a tollerare, ad amare di più, a sperare. Io penso davvero che questo sia da vivere come un momento di prova. E nei momenti di prova bisogna fare soprattutto una cosa: resistere. E non perdere mai la fiducia. Nel mentre, consiglio di chiudere le porte di casa, spegnere i social, tagliare fuori tutto e tutti. E amare. Noi stessi, chi ci è vicino, chi ci ama. Perché se ci si dimentica di amare, ci si dimentica di tutto».

Completano il numero degli approfondimenti dedicati al tema del desiderio: il sesso over 60 raccontato dalla scrittrice Lidia Ravera; l’eros secondo Barbara Alberti; le testimonianze dei figli delle stelle del cinema hard ovvero Leonardo Tano (figlio di Rocco Siffredi) e Mercédesz Henger (figlia di Éva Henger e Riccardo Schicchi); protagonista anche la designer Betony Vernon considerata la regina del gioiello erotico e Violeta Benini la «divulvatrice» che su Instagram conta oltre centomila seguaci; si esplorano anche il cybersex ai tempi del lockdown e del distanziamento sociale e Tinder, l’app di incontri che in tempo di Covid è diventata uno dei pochi posti dove conoscersi. Infine la redazione di Vanity Fair è andata a trovare Fabrizio Corona ai domiciliari.

Questa settimana il sito di Vanity Fair e il profilo Instagram si tingeranno di rosso con una serie di dirette, interviste e speciali per ragionare insieme sul desiderio, sulla sessualità e sul corpo oltre il momento difficile e oltre gli stereotipi.

Giorgio Panariello in copertina su Vanity Fair

Giorgio Panariello in copertina su Vanity Fair

Amore, perdono, memoria e speranza. Giorgio Panariello racconta a Vanity Fair una storia di dolore e riscatto

Amore, perdono, memoria, speranza: nel numero di Vanity Fair in edicola dal 28 ottobre il comico toscano Giorgio Panariello ricorda una storia di dolore e riscatto, quella di suo fratello Franco trovato morto nel 2011.

“Oggi, purtroppo, la situazione del virus ci rimette al punto di partenza, in un rewind che ha il sapore amaro della sconfitta. Forse anche per questo, in questo numero di Vanity Fair abbiamo scelto di raccontarvi una storia eccezionale, quella di Giorgio Panariello e di suo fratello Franco”, scrive nel suo editoriale il direttore Simone Marchetti. “Nell’intervista che ci ha rilasciato in esclusiva, Giorgio Panariello, sostiene che nei momenti difficili «la differenza tra il precipitare dalla scarpata o fermarsi sulla soglia del burrone è minima». Ecco, noi pensiamo che in quella minima differenza, in quella crepa che si disegna tra la speranza e la sconfitta stia l’unico modo di leggere questo periodo così duro.”

«Volevo rendere giustizia a Franco e assumermi le mie responsabilità» dice il comico toscano in merito al libro pubblicato da Mondadori Io sono mio fratello in libreria dal 3 novembre. Pagine che raccontano la vita e la morte del fratello Franco e di come, a volte, a salvarti dall’abisso siano solo piccoli istanti di fortuna.

Panariello ricorda che ritrovarono suo fratello in una notte d’inverno «buttato come fosse un materasso usato, tra i cespugli davanti al mare di Viareggio» e giura che il giorno del funerale a Montignoso «piangevano tutti quelli che Franco aveva derubato, insultato, deluso e tradito. Persone che non avevano mai smesso di volergli bene perché, a esclusione di se stesso, Franco non aveva mai fatto del male a nessuno».

Si disse che nel 2011 Franco fosse morto per overdose e si scoprì invece, dopo un penoso processo, che la vera causa era stato l’abbandono di un uomo «per vigliaccheria». Tre persone con le quali si era sentito male mentre era con loro a cena lo avevano scaricato da una macchina e il suo cuore aveva smesso di battere per ipotermia.

«Tra me e Franco la differenza l’ha fatta la fortuna», dice Giorgio. «Ho avuto soltanto più culo di lui, ma Franco avrei potuto essere io. Nessuno dei due aveva mai saputo chi fosse nostro padre e mia madre, che ci aveva messi al mondo troppo in fretta, non era stata in grado di assolvere alla sua funzione. Io, nato un anno prima di lui, venni affidato ai nonni. Lui finì presto in collegio senza incontrare affetto e attenzioni. A Franco, nella vita, è mancato soprattutto l’amore».
In merito al fatto che Franco avrebbe potuto essere lui, dice: «Ci andai vicino, davvero vicino perché nel tentativo di stargli accanto mi stavo trasformando proprio in Franco. La realtà mi pesava. Stavo bene solo con il vino e la canna in bocca. Le cose stavano andando molto male. Una sera mi misero davanti l’eroina. Avrei dovuto sniffarla e l’avrei sicuramente fatto, forse per sfida idiota o forse per dimostrargli che tra il diventare dipendenti o il non esserlo la differenza era soltanto nella forza di volontà. A un certo punto vidi spuntare un accendino, poi un cucchiaio, infine un cristallo e capii a cosa stavo andando incontro. Uscii di corsa da quella casa e probabilmente mi salvai la vita».

Con grande onestà ammette che il fratello per lui è stata anche un peso «Lui aveva la sensazione di avere un fratello ingombrante e la stessa sensazione abbracciava anche me, ma è chiaro che un fratello in quelle condizioni era anche una zavorra: per fare il mio mestiere devi avere la testa libera». Aggiunge poi: «Quando non vedevo Franco l’ansia diminuiva, ma poi subentravano i sensi di colpa».

E quando il vice direttore di Vanity Fair Malcom Pagani gli chiede se ha scritto questo libro per espiarli risponde: «Non c’è niente che ti freghi come il senso di colpa: ho fatto molti sbagli nei confronti di Franco, anche e soprattutto per il senso di colpa. Chiunque abbia in casa una persona che fa uso di stupefacenti ha un senso di colpa perenne. Mi sentivo in colpa quando foraggiavo i suoi vizi, quando gli negavo il denaro e anche quando le malelingue sussurravano: “Ma come, con un fratello così quello pensa a far ridere?”.

Ora Franco non c’è più. «E non riesco a crederci. Dopo essere uscito da San Patrignano, ci ricascò. Andammo allora nella comunità di Don Mazzi e, dopo tre anni lì, Franco ne uscì totalmente pulito. Aveva avuto l’ultima possibilità della sua vita e l’aveva colta. Non so se fosse veramente felice, ma stava bene. Aveva voglia di vivere e aveva compreso quanto fosse meraviglioso volare con i piedi per terra. Si era trasferito a Pietrasanta, aveva trovato un lavoro stabile e mi venne a trovare alla vigilia di Natale. Passammo una serata bellissima, a ricordare le follie fatte insieme e poi ci abbracciammo. Si sistemò la sciarpa, fece un’ultima risata delle sue, con la voce roca mi salutò e lo guardai sparire con la sua andatura sempre in pencolo sistemandosi il ciuffo. Fu l’ultima volta che lo vidi».

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