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La cucina italiana tra rivoluzione, identità, patrimonio: intervista

La Cucina Italiana

In occasione della 18esima edizione di Identità Golose, di cui siamo media partner, abbiamo avuto la possibilità di parlare del nostro progetto di candidatura della cucina di casa italiana come Patrimonio Immateriale dell’Umanità all’Unesco. A dar voce al disegno lanciato ormai due anni fa, il nostro Direttore Maddalena Fossati Dondero, qui intervistata da Tgcom24.

Siete qui oggi per raccontare un progetto che va avanti da tempo e si propone di candidare la cucina italiana come patrimonio immateriale all’Unesco. A che punto è il progetto?

MFD: «Stiamo lavorando da due anni alla candidatura della cucina italiana all’Unesco. Sono sempre in difficoltà a dire la cucina italiana perché rappresento La Cucina Italiana! Siamo abbastanza avanti, il Ministero della Cultura sta esaminando il nostro dossier, abbiamo diversi sostenitori tra cui Casa Artusi, l’Accademia Italiana di Cucina, … Speriamo di arrivare presto a mandare questa candidatura a Parigi dove si deciderà effettivamente se diventerà o meno Patrimonio Unesco.»

Il tema al centro di questa edizione di Identità Golose è la rivoluzione. In che modo secondo Lei si può affrontare la rivoluzione che a causa del contesto internazionale, di quello che è successo negli ultimi anni, ha travolto il mondo dell’alta cucina?

«Ci sono diverse rivoluzioni. A mio avviso, la rivoluzione principale è quella sulla nostra identità, ovvero abbracciare definitivamente quello che siamo. Italiane e italiani, quindi, una volta per tutte emanciparci per esempio dalla cucina francese – non per mancanza di rispetto, ma per acquisizione di chi siamo davvero. La candidatura all’Unesco è parte di questo processo. La seconda è un’importantissima rivoluzione insieme alla prima, cioè quella di ritrovare una felicità culinaria nella nostra cucina, che non vuol dire soltanto fare dei piatti che fanno bene alla salute, ma anche far star bene gli animali, e tutti gli ingredienti che utilizziamo, ma anche e soprattutto le persone. Per cui, stare bene in cucina, produrre del buon cibo. La cucina italiana proprio perché nasce dal focolare domestico è l’esempio più giusto perché il focolare domestico è accoglienza, intimità, piacere di stare insieme – a prescindere da come siamo e da chi siamo.»

Lei faceva riferimento all’identità. Raccontando ogni giorno, ogni mese, da anni, la storia di prodotti e produttori, consumatori e chef, riuscite ancora a sorprendervi?

Golosi di identità, la rivoluzione dell’equilibrio come stile di vita

La Cucina Italiana

Nel confronto con le famiglie, con gli operatori della scuola, con i medici, con i ragazzi che fanno esperienza con i disturbi del comportamento alimentare emerge forte l’importanza di dare attenzione a ciò che non si vede, a ciò che non è facile vedere. La paura di non essere accettati, di non sentirsi all’altezza, l’ossessione di doversi riconoscere in un modello che diventa stereotipo, la presa di coscienza di sentirsi fallibili, non performanti. Allo stesso tempo, dalle storie di chi è stato male ed è riuscito rimettersi in cammino, dalle testimonianze dei genitori e dei professionisti che li hanno affiancati emerge la percezione che convivere con la nostra fragilità ci aiuta a dare senso alla nostra intuizione, alla nostra vocazione, alla nostra unicità. Una strada impegnativa, che rende tutti più consapevoli, a volte molto stanchi. Ma, finalmente, golosi di identità.

Perché, sì, i disturbi alimentari non riguardano il cibo in sé, bensì sono un mezzo per arrivare a un disagio più profondo; un mezzo per cercare la propria identità. È così che tra le tante attività che Fondazione Cotarella sta portando avanti ci sono i Laboratori di cucina, nati in collaborazione con l’associazione Animenta (Associazione per i disturbi alimentari), che vedono come protagonisti ragazzi che hanno oramai superato la malattia o che sono ancora in cura. «Sono qui per dare la mia testimonianza diretta di quello che è successo dalla prima volta che io e Dominga ne abbiamo parlato», ha affermato Paolo Vizzari, narratore gastronomico, «ma sono anche testimone del mio terrore a riguardo perché sono stato un adolescente obeso e so cosa significhi lottare ogni giorno con il proprio peso. In questo anno Dominga ha conquistato la mia fiducia poco alla volta e, anche grazie al mio vissuto, abbiamo cominciato ad approcciare la gastronomia in modo utile. Insieme ad Aurora Caporossi, fondatrice di Animenta, abbiamo avviato i primi laboratori con alcuni chef per far recuperare il senso di meraviglia attorno al cibo. La mia più grande sorpresa è stato l’incontro tra due anime, lo chef e la persona malata, che interagiscono e si scambiano le proprie esperienze: si è creato un gioco di squadra dove entrambi sono membri della stessa nazionale che ha un nemico comune: la malattia». 

I primi chef a supportare il progetto sono, come detto sopra, Alessandro Negrini e Fabio Pisani, chef del ristorante stellato Aimo e Nadia, dove a settembre 2022 c’è stato uno dei laboratori. Qui non sono gli chef a insegnare ai ragazzi, ma è apprendimento reciproco, in cui prospettive diverse si incontrano con un unico mezzo: il cibo usato per colorare la vita delle persone.

Viviana Varese: rivoluzione? Siamo ancora molto indietro

La Cucina Italiana

Un’intervista a Viviana Varese sul tema Rivoluzione, il concetto che guida l’edizione 2023 di Identità Golose, ci svela il punto di vista della chef stellata di ViVa su alcuni concetti di cui oggi si sente molto parlare, quando si affronta il concetto di rivoluzione nella ristorazione. Con la sua consueta onestà, Viviana Varese ha denunciato alcune criticità e ha ricondotto una certa “arretratezza” in cucina a una più estesa arretratezza sociale. Ecco che cosa ci ha detto

Intervista a Viviana Varese

Viviana, la rivoluzione in cucina punta sulla sostenibilità. Secondo lei alta cucina 
e sostenibilità vanno d’accordo?
«Possono andare d’accordo, ma solo se non si ha un ristorante in una grande città. Io, per esempio, ho un locale in Sicilia (Villadorata, a Noto, ndr), e là riesco a essere sostenibile, perché ho la terra, l’orto, le piante, ho il mare vicino. Ho un micro ambiente, insomma, che mi permette di essere davvero sostenibile. In alcuni casi questa cosa della sostenibilità è solo un argomento di moda, su cui si costruiscono dei meravigliosi storytelling, e poi bisogna capire se sono veri o no…». 

Quindi qual è la sua strategia, in tre mosse, per una vera sostenibilità?
«Avere territorio, avere l’orto, sfruttare il più possibile la natura che ti circonda. E questo lo puoi fare veramente quando ce l’hai la natura». 

Oggi il tema della brigata è super attuale…
«Appunto: la sostenibilità riguarda anche le persone, come lavori con loro e come le fai lavorare».

Ecco, secondo lei esiste un modello economico che possa comprendere anche il benessere della brigata? 
«No, oggi no, secondo me non esiste. È tutto lasciato all’iniziativa di noi imprenditori. Perché comunque, nonostante ci critichino continuamente, noi stiamo cercando in tutti i modi di dare spazio e condizioni ottimali ai ragazzi nelle brigate. Io, per esempio, nel mio piccolo… i miei ragazzi fanno 8 settimane di ferie all’anno e fanno 2,5 giorni di riposo». 

In cucina, nelle brigate, ci sono alcuni comportamenti discriminatori, di genere per esempio. Che cosa ne pensa? 
«Esistono, ci sono ancora, non solo nei confronti delle donne. Ci sono per l’omosessualità, anche maschile, e per il colore della pelle. Tendenzialmente diciamo che la cucina in Italia è una cucina bianca, etero, omofoba e machista. La maggior parte, intendiamoci, non tutte».

C’è l’intenzione o la tendenza a superare questi cliché o no? 
«No, secondo me no. È veramente un discorso sociologico molto grande, bisognerebbe invitare qualche bravo docente di sociologia per sentire che cosa ne pensa, e capire un po’ a che punto siamo. E comunque siamo ancora molto indietro… Più avanti di altri stati, tipo il Messico e in generale il Sud America, in alcuni casi anche degli Usa, della Russia, dell’Arabia, di tutta l’Africa. Ma in confronto alla Francia e al Nord Europa, alla Germania, siamo molto indietro. Molto più indietro dei nostri cugini spagnoli, anche, che sono ben più evoluti sulla questione gender e danno molte meno etichette». 

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