Tag: antipasti veloci

Tavola di Natale: ispirazioni nei toni del rosso e dell’oro

La Cucina Italiana

Rosso e oro, due sfumature che danno immediatamente calore alla tavola di Natale: sono i colori delle feste, in grado di evocare l’atmosfera natalizia di gioia e vivacità. Avete mai apparecchiato la tavola con questi colori? Lasciatevi ispirare dai nostri suggerimenti.

Perché si usa il rosso a Natale?

Non è un caso che venga utilizzato spesso il rosso per i decori natalizi. Ma come mai il rosso è legato al Natale? Passione, dinamismo, vitalità: questo è il colore della vita, simbolo di forza e slancio vitale, in grado di ricordare il fuoco. Il calore della fiamma viva porta con sé anche il palpito di luce, il giallo acceso che ricorda il colore dell’oro e l’abbraccio vivificante del sole. Un tempo la foglia oro veniva utilizzata per decorare oggetti e materiali di pregio come i libri: un procedimento celebre dell’arte medievale.

Rosso e oro per la tavola di Natale

Utilizza questi due colori, così pieni di simboli, per decorare la tua tavola di Natale. Illumina la tavola con le candele e aggiungi tante decorazioni tono su tono: le palline di Natale sono perfette anche come addobbo per la tavola, da aggiungere su ogni piatto insieme ai nomi degli invitati. Cosa ne dici di acquistare tante perline? Puoi infilarle e creare segnaposto d’effetto a forma di bracciale. Scegli la tua tonalità del cuore e punta su bicchieri e sottopiatti della stessa tinta: è vero, probabilmente non li utilizzerai tutto l’anno, ma il bello del Natale è concedersi un dono speciale.

Sfogliate la gallery e lasciatevi ispirare per la vostra tavola di Natale

Siete pronti a decorare la vostra tavola di Natale nei toni del rosso e dell’oro? Prima, però, date un’occhiata qui: tra candele, segnaposto, piatti, posate, piccoli trucchetti e decorazioni troverete molte idee per rendere la tavola delle feste davvero speciale.

Ispirazioni per una tavola di Natale nei toni del rosso e oro

No alla carbonara modificata: da Londra a Roma, i commenti degli chef

La Cucina Italiana

È successo ancora: l’ennesima carbonara modificata ha scatenato una polemica, stavolta di dimensioni internazionali. Conferma quanto (poco) siamo disposti ad accettare variazioni di questo piatto così amato, e la dice lunga sul modo in cui gli stranieri concepiscono la cucina italiana, seppur votata come la migliore al mondo.

La questione riguarda “Bottega Prelibato”, ristorante dell’elegante quartiere di Shoreditch, a Londra, dove Gianfillippo Mattioli, romano doc, ha preso una decisione radicale. Ha scelto di eliminare la carbonara dal menù perché, dopo averla proposta nella sua versione canonica – uova, pecorino, guanciale e pepe -, si è ritrovato a dover fare i conti con così tanti feedback negativi e così tante richieste di carbonara modificata, da non poterne più.

«Tanti clienti non gradivano la ricetta originale, e in molti chiedevano aggiunte tipo pollo, funghi, o di togliere il guanciale. Abbiamo preferito non servirla», ha detto Mattioli al Tg1. Sì, se ne è occupato perfino il principale telegiornale italiano, a ruota dopo quasi tutti i quotidiani britannici, e qualche italiano, attratti da un post del ristorante su Instagram. Un post intitolato “Carbonara Gate” in cui Mattioli sostanzialmente ha raccontato la storia, sentenziando: «Sia chiaro che rispettiamo le preferenze dei nostri clienti, ma non vogliamo compromettere la nostra qualità e autenticità».

Perché la carbonara ci infiamma?

Non un caso isolato, appunto. I carbonara – gate scoppiano periodicamente. Talvolta sono divertenti, altri meno, e puntualmente scatenano un mai sopito integralismo gastronomico. Ma perché casi come questo capitano con la carbonara e non con altri piatti? «Secondo me perché la carbonara è uno dei piatti popolari per eccellenza. Tutti la fanno e tutti pensano di saperla fare meglio degli altri, quindi si sentono titolati a dire la propria», dice Luciano Monosilio, tra i più giovani chef ad ottenere la stella Michelin, che è davvero tra i più titolati a parlare di carbonara, dato che a Roma ne è considerato il «re». Per la sua carbonara si è meritato lodi del New York Times e la sua ricetta è uno dei motivi per cui prenotare un tavolo nei suoi ristoranti: Luciano Cucina Italiana e Follie, nella storica Villa Agrippina Gran Meliá, che dirige da due anni.

Come Monosilio la pensa un altro pilastro della cucina romana, cioè Simone Panella, che con il fratello Francesco ha in mano le cucine dell’Antica Pesa di Roma, tra i ristoranti che hanno fatto la storia della cucina capitolina (hanno anche celebrato il centenario), e – da 12 anni – dell’Antica Pesa a New York: «La carbonara non smetterà mai di far discutere perché è un piatto molto conosciuto in tutto il mondo. Lo fanno un po’ ovunque, e proprio per questo ognuno ha applicato la sua idea. Aggiungo: purtroppo. Perché la ricetta resta una sola».

Quanto si può cambiare la carbonara secondo Luciano Monosilio e Simone Panella

«La carbonara è quella fatta con uova, guanciale, pepe e pecorino. È tenacemente romana anche negli ingredienti. Non esiste una sola ricetta codificata proprio perché è un piatto del popolo: possono variare le preparazioni ma non le materie prime, perché di sicuro non prevede pollo, funghi, panna», continua Monosilio. Per questo, e non solo, nei suoi ristoranti non cede a variazioni sul tema: «Non è successo quasi mai che mi abbiano chiesto variazioni della carbonara. Io comunque non transigo: non cambierei nemmeno il formato di pasta, figurarsi se aggiungerei ingredienti a piacere dei clienti. Se vai in una boutique a comprare un paio di scarpe, chiedi di cambiarle a piacimento?».

«Sono piuttosto integralista anche io, soprattutto sui primi piatti», prosegue dalla sua Simone Panella. «A me capita spesso di ricevere richieste singolari, e quando è possibile cerco una via di mezzo senza mai snaturare la ricetta. Magari per la pasta cambio il formato, cercandone però uno adatto e spiegando comunque al cliente che non è il migliore per quel condimento, ma non aggiungo ingredienti che non siano previsti. Piuttosto consiglio di modificare l’ordine: se chiedono una carbonara con il pollo, propongo di scegliere un piatto completamente diverso. Oppure, se proprio non riescono a farne a meno, di prendere una carbonara e un pollo arrosto da mangiare a piacimento, anche contemporaneamente, perché dalla mia cucina non uscirà mai una carbonara che non sia una vera carbonara». «Nemmeno dalla mia», aggiunge Monosilio. «E di sicuro non toglierei la carbonara dal menù se non dovesse piacere ad alcuni clienti così com’è: è un’espressione della mia cucina, della cucina del ristorante che la propone. Il cliente è sempre libero di scegliere».

La carbonara e la cucina italiana all’estero

Può darsi che a tratti faccia sorridere pensarci, ma dover rispondere alla richiesta di una carbonara con il pollo o i funghi (o di un qualsiasi altro piatto italiano completamente stravolto) per un professionista della ristorazione è molto meno semplice di quanto si pensi, specie se si interfaccia con clienti stranieri. «A Roma capita meno spesso, forse perché i clienti stranieri arrivano da noi con consapevolezza. Ma a New York è frequente ricevere richieste di variazioni. Gli stranieri all’estero sono i clienti più difficili, specie per piatti dai sapori forti, come può essere una carbonara con il pepe e il pecorino. Loro sono normalmente abituati a variazioni nate per inseguire il loro gusto, in ristoranti italo-americani o italo-tedeschi a seconda della provenienza, perciò fanno fatica ad apprezzare gli originali», dice Panella.

«Il fatto, però, è che la carbonara è solo la punta di un iceberg», fa notare Panella. In effetti la questione per i ristoratori è più ampia: si tratta di essere disposti o meno scendere a patti, decidere se fare lo stesso (errore) che per tanti anni hanno commesso i ristoranti italiani all’estero. Due le vie, insomma: assecondare palati poco allenati alla nostra cucina, oppure andare dritti per la propria strada consapevoli del fatto di essere anche ambasciatori di una cultura culinaria, la nostra. «I bisogni dei clienti vanno assecondati, ma c’è un limite: se so che chiamare “lasagna” della pasta fresca ripiena di pesce per loro fuorviante, la chiamerò “pasta fresca” e continuerò a chiamare “lasagna” solo quella con ragù e besciamella. Ma non oltre», dice Panella. «E poi – conclude Monosilio – non dimentichiamo una cosa: magari tutti hanno una loro versione di carbonara, ma lasciamo agli chef la possibilità di fare gli chef». Altrimenti – aggiungiamo noi – che gusto ci sarebbe ad andare al ristorante?

Vino, cosa metto in cantina? 9 scelte di Cristina Mercuri

Vino, cosa metto in cantina? 9 scelte di Cristina Mercuri

Parliamo di vino e della prima donna italiana che sarà Master of Wine. Ha lasciato la carriera di avvocato per dedicarsi alla sua più grande passione: il vino. E da “secchiona”, come lei stessa si definisce, Cristina Mercuri ha puntato al titolo più ambizioso del mondo, quello di Master of Wine, e a breve sarà la prima donna italiana a potersene fregiare. Fondatrice di Wine Club, accademia innovativa nella didattica del vino, tiene corsi e masterclass nei più importanti eventi a tema, come il Vinitaly e la Milano Wine Week.

Modi di dire: darla a bere

Diciamoci la verità: la maggior parte di noi, pur non capendoci un tubo di vino, non resiste alla tentazione di fare il furbo e di imbonire i commensali con competenze di cui ha appena sentito parlare. Ma anche il raggiro e la truffa hanno le proprie regole: per cui, se vogliamo fare finta di essere degli esperti internazionali di vino anche se l’unica osservazione corretta che siamo in grado di fare è distinguere il rosso dal bianco, dobbiamo seguire determinati criteri. Non più parole, quindi, ma gesti: gesti semplici, misurati ed esperti, così da poter buggerare anche i più diffidenti. Se la vostra cerchia di amici, quindi, ha fatto l’errore di credervi esperto (maschile, perché i maschi sono molto più propensi a millantare), arriverà il momento in cui, a cena fuori, il sommelier arriverà con la bottiglia e chiederà: chi assaggia? «Lui» lascerete che tutti dicano con fiducia indicando voi. Questo è il primo scoglio da superare. Quando si assaggia il vino al ristorante si fa una cosa sola: si annusa. Non si guarda, non si porta alla bocca, non si fanno gargarismi come se il sommelier fosse lì per estrarci un molare. Semplicemente, si prende il bicchiere per la base e lo si porta al naso, senza agitare e roteare il vino come se fosse una muleta davanti a un toro: quello che stiamo facendo è valutare se il tappo ha fatto dei danni, e in questo caso l’odore che ci arriverà è netto, non c’è bisogno di un sommelier, il tanfo di muffa è uno di quelli che l’evoluzione ci ha addestrato a distinguere meglio. Roteando potremmo aiutare il vino a sprigionare gli aromi volatili più grati, che magari ci confonderebbero. Il vino potrebbe avere altri difetti, non dovuti al tappo, ma questo lo sentirete solo dopo, alla degustazione, quando ormai quella bottiglia l’avete accettata; e quindi vi tocca pagarla, sennò sì che passate per cafoni, hai voglia a saper annusare.

Marco Malvaldi

Proudly powered by WordPress