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I migliori cocktail bar italiani nel mondo per il 2023 sono…

La Cucina Italiana

I migliori cocktail bar italiani? Sono moltissimi quelli che compaiono nella lista dei World’s 50 Best Bars 2023 che ogni anno incorona il gotha del bartending mondiale. Incluso il primo in assoluto, in fondo: si tratta del Sips di Barcellona aperto nel 2021 dallo spagnolo Marc Álvarez e dal comasco Simone Caporale, bartender pluripremiato, con un passato da icone della mixologist come l’Artesian di Londra che, nel suo locale della città catalana, ha portato tutta la sua eleganza e la sua creatività. E non è l’unico bartender italiano ad aver contribuito al successo di grandi bar all’estero. Altro esempio? Il leggendario Connaught Bar di Londra, al numero 5 della classifica di quest’anno (dopo il Double Chicken Please di New York, Handshake Speakeasy di Mexico City e Paradiso) è nelle mani di Agostino Perrone, Giorgio Bargiani e Maura Milia.

I migliori cocktail bar italiani della World’s 50 Best Bars

Stando al giudizio dei giudici esperti di tutto il mondo – scelti tra bartender, consulenti, giornalisti, cocktail specialist  – che votano in assoluto anonimato per compilare la World’s Best Bars, il primo cocktail bar completamente italiano è al posto 21 della classifica: si tratta del Drink Kong di Roma, bar concettuale con luci soffuse, atmosfera elegante con neon che raccontano il mondo dei manga giapponesi, cocktail minimalisti nell’aspetto quanto eclettici all’assaggio. Romano anche un altro indirizzo italiano in lista, Freni e Frizioni di Roma (posto 33): culto di Trastevere, più semplice nell’approccio e nell’atmosfera e altrettanto ricercato per la proposta di drink. Così come il 1930 di Milano (posto 42): speakeasy del gruppo Farmily Group di Flavio Angiolillo, che è un’altra presenza fissa nei World’s 50 Best Bars, da ben cinque anni. Secret bar ispirato all’era del proibizionismo, il 1930 è un ritrovo ricercato dove assaggiare cocktail d’avanguardia: la nuova una drink list si chiama “Europa” ed è ispirata alla nascita della stampa. 

Aperitivo: cosa ordinare per non sembrare un boomer?

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Avete presente quando al bancone del bar, ora dell’aperitivo, siete accanto a un altro cliente mentre ordina un cocktail dall’aspetto meraviglioso e dal nome intrigante? Un cocktail che vorreste assaggiare, ma avete paura di fare la figura del boomer chiedendo «lo stesso» senza sapere nemmeno come è fatto? Ecco, a chi scrive è capitato, e questo nonostante anni di pratica ai banconi di diversi bar, per piacere o per lavoro. Questione di abitudine, forse, e per molti è così: i miei genitori, boomer all’anagrafe, per l’aperitivo continuano a ordinare solo acqua tonica o il mitico Martini nelle occasioni speciali. Ma perché?

Può darsi che sotto sotto ci sia una spiegazione anche storica, insieme alla confortevole pigrizia: d’altronde per secoli l’aperitivo è stato uguale a se stesso. Lo ha inventato Ippocrate per solleticare l’appetito di pazienti inappetenti: un vino dolce aromatizzato con fiori e assenzio. Come lui hanno fatto gli antichi Romani, limitandosi ad aggiungere alla sua ricetta salvia e rosmarino, e poi i farmacologi medioevali hanno creato nuovi infusi. Un principio che è stato alla base della creazione di alcuni tra i più grandi liquori italiani dell’aperitivo,  il vermut su tutti, inventato a Torino a fine Settecento, e che ha scandito un rito appannaggio dell’alta società almeno per tutto l’Ottocento e inizio Novecento. Perché l’aperitivo, come lo conosciamo noi, cocktail e stuzzichini, è nato molto dopo: intorno agli Ottanta, dopo la nascita dei bitter, dei nuovi spirit iconici come il Campari e dall’esplosione della miscelazione sulla scia di un trend scoppiato con il Proibizionismo negli Usa. Il punto è che, come è successo per la cucina, anche i cocktail da allora sono cambiati, ed è cambiato completamente l’aperitivo. Tornando al punto, allora, cosa ordinare all’aperitivo per non sembrare un boomer?

Perché il “solito” è démodé (ma non siate timidi)

Primo consiglio: «No pestati, mojito, caipiroska, drink dall’indiscusso successo anni Novanta e primi anni del nuovo millennio. Sono i tipici casi che fanno risultare abbastanza boomer chi li chiede» dice Desirè Verdecchia, bar director dei Bulgari Hotels & Resorts. Il motivo è che, semplicemente, ora c’è molto altro: «Ormai l’offerta è così ampia che pensare di bere “il solito” è limitante. Vuol dire che non si ha voglia di leggere il menù o non si sa da dove cominciare» osserva Martina Bonci, bar manager del Giardino 25, il caffè e cocktail bar di Gucci a Firenze. «La nostra bravura come bartender sta anche in questo: far sentire ogni ospite a proprio agio, capire cosa gli piace, e così costruirgli un drink come un abito sartoriale. In questo modo raggiungi due risultati: aiuti chi ti sta davanti a comprendere meglio i propri gusti, e gli fai conoscere un nuovo sapore». Primo punto, allora: non rimuginate su “cosa bere”, piuttosto non fate i timidi e chiedete cosa bere.

Quanto ghiaccio si mette in un drink? Risponde il bartender

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Quanto ghiaccio si mette in un drink? Ce lo siamo domandati guardando il video su TikTok in cui l’influencer Giulia Salemi chiede al cameriere di portare via il suo cocktail e farne un altro «con più drink e meno ghiaccio». Un video virale, che ha scatenato centinaia di commenti, pro e contro, come sempre. La questione in effetti è spinosa: qual è la differenza tra un cocktail annacquato e un cocktail freddo al punto giusto? Ne abbiamo parlato con Giorgio Facchinetti, flair bartender (cioè specializzato in cocktail preparati con tecniche acrobatiche), consulente di diverse grandi aziende nel settore degli spirit e non solo, che ha anche lavorato con Giulia Salemi in tv.

Quanto ghiaccio si mette in un drink?

«Dipende: ci sono cocktail che vanno serviti caldi, altri freddi ma senza ghiaccio e altri full of ice, con un quantitativo di ghiaccio tale da riempire tutto il bicchiere. Per esempio nel Margarita il ghiaccio si usa solo nella preparazione ma non si mette nel bicchiere. Il Martini cocktail, invece, se preparato secondo la procedura classica, va servito in un bicchiere ghiacciato con gin e vodka ghiacciati. Il Negroni, per fare l’ultimo esempio, va stirrato (cioè mixato e mescolato ndr)  e poi servito in un bicchiere pieno di ghiaccio per la cosiddetta «diluizione secondaria»: in sostanza il ghiaccio assorbe il calore del cocktail e rilascia acqua in modo da raffreddarlo. Due cubetti non basterebbero: impiegherebbero troppo tempo. Perciò ne serve di più. A mio parere è anche il caso del cocktail protagonista del video in questione: senza tutto quel ghiaccio il drink non si sarebbe raffreddato e non sarebbe stato altrettanto buono. Era necessario».

Qual è la differenza tra ghiaccio in cubetti e grandi cubi messi al centro del bicchiere?

«Questi cubi si chiamano «chunk», e hanno diversi vantaggi. Anzitutto mantengono la temperatura del drink costante, perché si sciolgono più lentamente e la superficie di contatto è una sola. Oltre a questo rendono il cocktail esteticamente più invitante, anche perché si possono personalizzare con loghi e disegni. Dal punto di vista organolettico, non cambia nulla: che si usi un chunk o dei cubetti, la ricetta del drink – e quindi anche le quantità – resta la stessa»

Come si riconosce un cocktail «annacquato»?

«Basta guardare i cubetti di ghiaccio: se galleggiano è un cocktail annacquato. Vuol dire che il ghiaccio non è adatto. Quando non è uniforme, si scioglie molto velocemente, e «annacqua» appunto: così ne va della qualità del cocktail. Per questa ragione il primo segreto di un ottimo drink è avere un ottimo ghiaccio. Per noi bartender il ghiaccio è come il fuoco per uno chef».

Come si prepara il ghiaccio per i cocktail in casa?

«Il mio consiglio è farlo con acqua demineralizzata (o comunque con un residuo fisso molto basso, ndr), in forme un po’ più grandi dei cubetti standard da freezer. Quando sono piccoli si diluiscono subito, non hanno la forza di raffreddare». 

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