Tag: ricette di cucina italiana

Come fare la polenta perfetta: 5 errori da evitare

Come fare la polenta perfetta: 5 errori da evitare

E’ uno dei piatti più tradizionali dell’Italia del nord ed è perfetta abbinata a pesci, formaggi o carni. Prepararla a regola d’arte è una questione di proporzioni e di tempi, di farina, di pentola e di sale. Scoprite come fare senza commettere questi 5 errori

La polenta (dal latino puls, farinata di farro) è un alimento la cui storia si perde nella notte dei tempi. Nel Medioevo era una crema a base di fave sminuzzate cotte con olio, cipolle e a volte con l’aggiunta di cereali come il grano saraceno e il farro. E’ sempre stato un cibo per poveri, anche quando alle fave si sostituì la farina di granoturco, e a partire dal 1700 divenne un piatto tipico nelle regioni del nord Italia. Da sempre la polenta è stata servita come sostituto del pane, come contorno, accompagnata da altri alimenti, o tagliata a fette e abbrustolita o fritta. Per lunghissimo tempo è stata un cibo di sussistenza, tanto che a causa del suo consumo continuato, senza aggiunta di altri nutrienti, ha contribuito alla diffusione di una malattia chiamata pellagra, dovuta a una insufficienza di vitamine. Attualmente la polenta, al pari di molti altri cibi poveri, sta vivendo un periodo di riscoperta come piatto gastronomico e di tradizione. E come tutti i piatti tradizionali, si può preparare a casa, a patto di non cadere in questi comuni errori. Vediamoli insieme.

Polenta: 5 errori da non fare

Non darle tempo
La polenta è un piatto che ha bisogno di pazienza, per cuocere bene, per diventare quel composto morbido e liscio, perfetto per accompagnare uno stufato di carne, un pesce sapido o un formaggio cremoso. Dopo aver versato a filo la farina nella pentola con acqua e sale, il segreto per ottenere un composto omogeneo, senza grumi, è quello di mescolare la farina, lentamente, a lungo, con una frusta, mentre piano piano si addensa e cuoce. Resistete per almeno un’ora. Se la costanza non vi appartiene, cambiate menu.

Scegliere una farina qualunque
La polenta si prepara da circa 400 anni con la farina di mais bramata (a grani grossi). Potete sceglierne una integrale, se vi piace un aroma più intenso. Anche la farina di grano saraceno è perfetta, e si usa soprattutto nelle valli intorno a Sondrio, in Lombardia: ha un colore più scuro di quella di  mais, una consistenza più ruvida, adatta ai formaggi stagionati del luogo. Se non siete così temerari, potete provare una miscela fatta da farina di grano saraceno e farina di mais, per ottenere quella che viene chiamata polenta taragna. In Veneto si usa invece il mais bianco, per una polenta accompagnata da seppie o da baccalà. A sud, tra Napoli e Foggia la polenta viene invece fatta con farina di mais ben macinata: viene fritta, tagliata a fette e diventa cibo di strada.

Usare un tegame qualsiasi
Da sempre la polenta va cotta nel paiolo, quella pentola dai bordi alti e dal fondo convesso, fatta di rame (o di ghisa), capace di diffondere il calore in modo uniforme e far cuocere così il mais in maniera perfetta. Tutte le altre non consideratele nemmeno. Il paiolo ha un solo manico ribaltabile, perché nei tempi passati la polenta si cuoceva nel camino. Le mode sono cambiate, ma la buona abitudine di cuocere la polenta nella pentola di rame rimane.

Sbagliare le dosi di farina e acqua
Concedersi il lusso di andare a occhio è consentito soltanto ai veterani della polenta. Per tutti gli altri, le dosi da considerare sono: 4 litri di acqua per ogni kg di farina. Tenendo presente che più la farina è grezza, più assorbirà acqua. Quindi, nel caso ne usiate una di grano saraceno, aggiungete pure liquido a discrezione. Indicativamente poi, 500 g di farina sono sufficienti per 4 persone, a meno che non abbiate invitato a cena il più grande estimatore di polenta.

Abbondare di sale
La mano che prepara la polenta deve essere lieve. Non esiste una dose esatta del sale che deve essere messo nell’acqua mentre si scalda, ma mangiare una polenta troppo sapida è davvero spiacevole. Tenete conto che spesso i cibi a cui si accompagna sono molto sapidi (vedi i formaggi): per questo meglio stare leggeri, per non rovinare un così tale lavoro. Il sale si può aggiungere anche una volta che la polenta sarà cotta.

Come abbinare la polenta

Scoprite nel tutorial i nostri consigli per un piatto a base di polenta.

Carciofi alla giudia o carciofi alla romana?

Carciofi alla giudia o carciofi alla romana?

Da “re dell’orto” a “re della tavola”. A Roma il carciofo, comunque lo si cucini, è una cosa seria. Lo dimostrano due ricette della tradizione gastronomica capitolina, in cui quest’ortaggio è protagonista assoluto

A Roma il carciofo è una cosa seria, un ingrediente basilare della gastronomia tradizionale che viene elevato da “re dell’orto” a “re della tavola”. Ma è più buono cucinato alla giudia o alla romana? A questa domanda potrebbe seguire un dibattito di quelli che non si esauriscono mai, anche perché i gusti sono soggettivi e sulla soggettività del gusto c’è poco da discutere. Meglio, allora, assaggiarli e lasciar decidere il palato.

Fried young artichokes -Carciofi alla Giudia - Roman Jewish Artichoke

Carciofi alla giudia

Una scorza croccante, il cuore morbido, una punta di amarognolo che evolve in dolcezza. Il tutto aggiustato con un pizzico di sale. L’essenza di questo piatto è racchiusa in tornanti di piccole contraddizioni che lo rendono unico. Carciofi – romaneschi ovviamente, detti anche mammole o cimaroli – olio, acqua, limone, sale e pepe nero. Bastano questi pochi ingredienti per trasformare un ortaggio in una leccornia. Per iniziare a prepararli bisogna eliminare le foglie esterne fino ad arrivare a quelle più tenere. Quindi incidere con un coltellino, procedendo a spirale, fino a dare al carciofo una forma arrotondata, simile a una rosa. Togliere la parte più coriacea del gambo e la barbetta al centro del fiore. Terminata la pulizia, occorre immergere i carciofi, per una decina di minuti, in acqua e limone per evitare che si anneriscano. Una volta scolati bisogna sbatterli a testa in giù sul tavolo per far sì che si che si aprano il più possibile. Dopo aver fatto scaldare l’olio (non deve essere bollente ma a una temperatura di 140°/150°) immergeteli per 10/15 minuti, facendo attenzione a non farli diventare troppo molli. Toglieteli dall’olio e disponeteli capovolti su un vassoio finché non avranno perso l’olio in eccesso. Dopo aver aperto ulteriormente il fiore con una forchetta e averli salati, fateli passare nuovamente nell’olio, un po’ più caldo di prima, per friggerli definitivamente. Il trucco per renderli croccanti? Una spruzzata d’acqua durante la cottura, ma attenzione a non scottarsi. Serviti bollenti sono irresistibili.

Carciofi alla romana

I carciofi alla romana sono tutt’altro che contraddittori, ma spiazzanti, in quanto contengono una piacevole sorpresa. Agli ingredienti della ricetta precedente si vanno ad aggiungere solamente aglio, prezzemolo e mentuccia (ma andranno stufati, anzichè fritti). Il procedimento di pulitura è il medesimo di prima. Tritate la mentuccia, l’aglio e il prezzemolo, mettete il composto in un recipiente, salatelo, pepatelo e aggiungete due o tre cucchiai di olio. Aprite un poco i carciofi con un cucchiaino e riempiteli del trito di sapori, richiudeteli bene e sistemateli, capovolti, in un tegame dai bordi alti, facendo in modo che i carciofi siano ben vicini l’un l’altro e non avanzi spazio. Versate una bicchiere d’acqua e mezzo di olio, ricopriteli con un coperchio o con la carta da forno e lasciate stufare a fuoco basso per 45 minuti. Quando la forchetta affonderà dolcemente nel carciofo, vorrà dire che potrete servirli in tavola.

E qui per voi le ricette preparate nella nostra redazione

Iyo Aalto, il migliore sushi (e non solo) sopra Milano

Iyo Aalto, il migliore sushi (e non solo) sopra Milano

Nella Torre Solaria, a Porta Nuova, ora c’è un locale all’altezza dei migliori giapponesi di Londra o New York per location, cucina, servizio, cantina. Con un banco sushi e un ristorante dove si celebra l’omakase e la fusion. Ve lo raccontiamo

Il primo pensiero che ci è venuto in mente entrando a Iyo Aalto, il nuovo locale di Claudio Liu è che sono passati dodici anni da quando – 24enne insieme ai fratelli Giulia e Marco, poi diventati patron a loro volta – aprì Iyo Taste Experience. Un ristorante che stagione dopo stagione è cresciuto al punto di entrare nella piccola grande storia della cucina: nel 2015 divenne il primo locale di cucina etnica a conquistare una Stella Michelin, che mantiene tuttora. Da anni, Liu – italiano di origine cinese – sentiva l’esigenza di alzare ulteriormenente il livello e da innamorato della cucina giapponese, ha deciso di mettere a fuoco il tema con Iyo Aalto, insegna che nel nome unisce quella storica alla location in piazza Alvar Aalto, al primo piano della Torre Solaria, il grattacielo residenziale più alto d’Italia, con i suoi 143 metri e 34 piani. «Se mi avessero chiesto di decidere dove aprire il mio secondo locale, avrei scelto proprio quest’angolo di Milano» dice Claudio. Ed è difficile dargli torto, considerando che la piazza dedicata al designer finlandese è già alta rispetto al livello stradale e quindi dalle vetrate del nuovo ristorante, la vista è suggestiva.

Grande locale, grande cantina

Il locale – come tutti quella della famiglia Liu – è molto bello, progettato dall’architetto Maurizio Lai. Un layout che si articola in 320 mq suddivisi tra banco sushi, sala, dehors, cucina e la grande cantina a parete, che può ospitare fino a 1.600 bottiglie  da tutto il mondo – con sei diverse zone di temperatura – comprese quelle di distillati e whisky giapponesi. A curarla c’è Savio Bina, uno dei più bravi ed esperti sommelier italiani.I richiami alla tradizione millenaria della ristorazione giapponese si alternano a elementi contemporanei e design inediti. Dominano il porfido grigio verde e il legno di noce canaletto. Le lastre di porfido con finitura a spacco, provenienti dall’unica cava al mondo del Trentino, compongono il setto che separa la sala del ristorante dal banco sushi, distinguendo visivamente le due proposte. Il legno riveste le boiserie e i soffitti creano un’atmosfera calda e sofisticata. I dettagli in vetro, ottone e cuoio naturale caratterizzano e movimentano gli ambienti. Particolare attenzione è stata dedicata al progetto di illuminazione – dove la luce diviene un elemento importante del racconto – per valorizzare le superfici in legno, pietra e vetro e creare differenti scenari di luce per ogni tavolo.

Vige l’edomae zushi

Il banco sushi è la realizzazione di un desiderio coltivato a lungo dal patron: dare vita, in un luogo simbolo della Nuova Milano, a un rito che si trova solo in Giappone: per pochi intimi (otto, solo su prenotazione) si celebra lo spirito dell’edomae zushi, che affonda le radici nell’epoca Bunsei (1818-30) ossia la fase finale del periodo Edo (che in giapponese significa appunto Tokyo). Nell’omakase edomae, i nigiri sono preparati davanti all’ospite e serviti uno alla volta secondo una sequenza progressiva di grassezze e umami. È un percorso ricco, che alterna sushi espresso a intervalli di ‘cucina cucinata’ giapponese autentica, sia essa al vapore o alla griglia robatayaki, che fuma silenziosamente alle spalle dei sushi master Masashi Suzuki e di Luciano Yamashita. Un rito rigoroso, che obbedisce a fattori fondamentali come la stagionalità, la selezione quotidiana del pesce più pregiato, l’attenzione spasmodica al riso – che non può essere relegato a semplice complemento – le intolleranze e le idiosincrasie di ogni ospite. Ci siamo seduti al banco: per qualità del cibo, cura nella preparazione e creatività – dopo poche settimane di lavoro – siamo vicini alla perfezione. E le tre ore volano tra un boccone e l’altro.

Lo chef è pugliese (ma del mondo)

Il secondo ambiente è un vero e proprio ristorante gourmet, con 38 coperti, in cui lo smisurato patrimonio della cucina giapponese viene filtrato dallo chef  pugliese Domenico Zizzi, un talento che il patron ha riportato in Italia dopo cinque anni trascorsi in Giappone. Il punto di partenza sono i prodotti e i ‘modi’ del Sol Levante, interpretati liberamente, attraverso l’esperienza maturata al fianco di grandi nomi della cucina come Joël Robuchon, Carme Ruscalleda e Heinz Beck, per creare una cucina senza confini. C’è un grande lavoro di tecnica e ricerca sulla materia prima che affianca prodotti nipponici come mentaiko, nagaimo, yuzukosho e wagyu a cibi da tutto il mondo come i peperoni spagnoli ñoras, l’amaranto messicano o l’anguilla di Comacchio.

Cucina cosmopolita

I tre degustazione – Hitotoki (otto portate a 120 euro), Yasuragi (dieci a 135 euro), Ukiyo (tredici a 150 euro) – esprimono una sintesi lineare e armoniosa, vero una cucina sempre più cosmopolita e interconnessa, che dal cuore del Giappone muove verso l’Europa. E anche qui è poesia: Scampi, mele e amaranto; Wagyu, melanzane, aglio nero e yuzukosho; Dashi, 12 cereali e tsukemono di cetriolo; Anguilla, nagaimo e sansho; Yogurt azotato, crumble di noci e meringa. Bravi tutti, bravissimo Claudio Liu: impegno, passione, classe. Con Iyo Aalto non è solo lui a fare l’ennesimo salto di qualità in una carriera già notevole, ma Milano che può vantare un giapponese all’altezza di Londra o New York.

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