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Dove mangiare a Milano: i nuovi ristoranti da provare

Dove mangiare a Milano: i nuovi ristoranti da provare

Dove mangiare a Milano? Cominciamo dalle novità, perché la lista a Milano è sempre fitta. In qualunque periodo dell’anno, in qualsiasi angolo della città, c’è qualche inaugurazione. Del resto, se andare a bere e mangiare fuori resta una delle grandi passioni dei milanesi, è proprio perché c’è sempre qualche novità che invoglia a uscire. Forse con meno frequenza, dato che l’inflazione si sente e i prezzi (già alti) sono lievitati anche nei locali pubblici, ma proprio per questo – secondo noi – con più attenzione di prima.

Dove mangiare a Milano: le nuove aperture

Perciò abbiamo pensato di creare una nostra lista, con i nuovi ristoranti di Milano che secondo noi vale la pena provare. Troverete un po’ di tutto, perché è bello variare: dai ristoranti eleganti e romantici alle paninoteche, qualche nuovo etnico, qualche indirizzo che resta tenacemente attaccato alla tradizione, bar e cocktail bar e, non da ultime, le pizzerie. Ecco la lista di indirizzi che aggiorneremo man mano con le aperture interessanti.

4 Ristoranti: il miglior ristorante dell’Ogliastra, Sardegna

4 Ristoranti: il miglior ristorante dell’Ogliastra, Sardegna

È la terra del maialino allo spiedo, della carne di capra, dei malloreddus e dei culurgiones. È stata l’Ogliastra la quinta tappa di 4 Ristoranti di Alessandro Borghese. Questa volta, lo chef è andato alla scoperta della suggestiva Costa Orientale della Sardegna, per conoscere le ricche tradizioni culturali e gastronomiche di questo territorio custodito tra i rilievi del Gennargentu e le acque del Mar Tirreno (non a caso è chiamato anche l’«anfiteatro sul mare»).

Le regole del gioco sono sempre le stesse: quattro ristoratori si sfidano invitando a pranzo nel proprio locale gli altri tre concorrenti, accompagnati dallo chef Alessandro Borghese. I commensali assaggiano i piatti e assegnano un punteggio da zero a dieci a location, menù, servizio e conto. C’è anche una quinta categoria su cui ogni ristoratore viene valutato: è il piatto tipico, rappresentativo del territorio di riferimento. In questo caso si trattava dei culurgiones, pasta fresca ripiena – nata proprio in queste terre – dalla tipica chiusura a spiga di grano (sa spighitta). La ricetta cambia di paese in paese, e spesso presenta differenze per formato, impasto e ripieno.

A vincere la sfida (tutta al femminile), questa volta, è stato il ristorante Sa Cadrea di Emanuela, a Santa Maria Navarrese. Gli altri locali in gara erano il Ristorante Abba ‘E Murta di Carla, a Tortolì, Al Porticciolo di Francesca, nel porticciolo di Arbatax e Incontro di Vino di Carpe Diem di Teresa, a pochi passi dalla baia di Porto Frailis. Andremo a conoscerli tutti meglio nella gallery. Anche questa volta, il vincitore, oltre a conquistare il titolo di miglior ristorante, ha ricevuto anche un contributo economico da investire nella propria attività.

Dopo l’Ogliastra, il viaggio gastronomico di Alessandro Borghese 4 Ristoranti, che ha già esplorato le proposte gastronomiche della Costa Azzurra, dell’Oltrepò Pavese, di Lisbona e del centro storico di Ravenna, farà tappa lungo tutta la penisola e toccherà Gorizia, Lucca, Monza e Mantova.

Ciro Di Maio, non solo la pizza Mano de Dios per Maradona. Intervista

La Cucina Italiana

Lo raggiungiamo in una delle poche, pochissime, pause che si prende dal lavoro. «Entro in pizzeria alle 9 di mattina e esco all’una di notte. Non prendo un giorno da mesi e sono felice così», dice. E così è sempre stato: 33 anni di cui 19 trascorsi a impastare, Ciro Di Maio ha cominciato a fare pizze da piccolissimo, a 14 anni, perché già allora ha avuto bisogno di un’altra strada. Un’alternativa dopo un’infanzia complessa nelle palazzine popolari dei sobborghi di Napoli con un padre con un passato burrascoso. Un padre che poi però ha trovato a sua volta una nuova strada e gli ha dato l’esempio, mostrandogli che una vita migliore passa anche dall’aiutare chi ha bisogno. Ciro ora a suo modo fa lo stesso con i detenuti, con i ragazzi che vivono nei quartieri disagiati in cui è cresciuto lui, con chi bussa alla sua porta. Insegna un’arte che per tanti è ancora la via del riscatto, formando nuove generazioni di pizzaioli a cui spiega che la pizza può essere anche un modo per raccontare se stessi, le proprie origini. Come ha fatto lui con la Mano de Dios, in fondo. Ne abbiamo parlato in questa intervista:

L’intervista al pizzaiolo Ciro Di Maio

Oltre che su Instagram, la pizza Mano de Dios è piaciuta nella realtà?
«Sta andando molto bene, ai clienti piace, un po’ perché è scenica un po’ perché è buona. La chiedono tanti napoletani che abitano a Brescia, ma anche tanti bresciani».

La citazione calcistica è immediata per tutti?
«Certo, è impossibile non conoscere Maradona. È stato un idolo. Io sono cresciuto guardando Maradona. Ricordo ancora che quando andavo a scuola sul bus trasmettevano i video dei suoi gol. Maradona non è stato solo un calciatore. È stato amore per il calcio, per la vita, per la gente. Ha unito unito Napoli e l’Argentina. Una volta ho chiesto a un cliente argentino “perché voi siete così forti a calcio?”, e lui ha risposto “perché abbiamo sangue italiano”».

Hai altre pizze particolari come questa in menù?
«Noi facciamo la classica ruota di carro, in tutti i gusti classici e con i prodotti tipici campani. Questa Mano de Dios è unica nel suo genere non solo per la forma, ma anche per la cultura che racchiude. Per me è un modo per raccontare Napoli».

Cosa ha significato per te portare l’arte della pizza napoletana fuori da Napoli?
«Per me ha significato tante cose: non solo far conoscere la pizza verace, ma anche la vera cultura napoletana. Ci sono ancora tanti stereotipi, ingiustificati, su Napoli e chi ci abita, e che con il nostro lavoro possiamo contribuire a smontare. Napoli è bella e brutta allo stesso tempo, come le persone che possono essere buone e al contempo cattive. Di sicuro se non fossi nato a Napoli non sarei quello che sono. C’è un detto che dice che “O napulitan se fa sicc’ ma nun mor“, cioè “il napoletano può diventare pelle e ossa ma non morire”. Sappiamo resistere, anche nella povertà assoluta. Come tutti abbiamo da imparare, ma credo che l’unicità dei napoletani stia anche nella capacità di rialzarsi. Un po’ come ho fatto io».

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