Il panino col cavallo pesto è una tradizione radicata della città emiliana, che vale la pena provare. Se non si hanno tabù
Aggregatore contenente tutte le ricette andate in onda di Benedetta Parodi da Cotto e Mangiato
Filippo Polidori non ha scelto il mondo del food, ma come dice lui “c’è caduto dentro!”. Food guru di Jovanotti tra le altre mille attività, conosciamolo meglio.
Filippo Polidori è cresciuto a Sasso Corvaro, paesino nell’entroterra marchigiano, dove i genitori Giuliano ed Eva hanno aperto a fine anni ’60 la prima balera delle Marche: il mitico Dancing 2000, oggi diventato il Ristorante 2000.
Filippo cresce in braccio alla mamma alla cassa del bar, poi da ragazzino aiuta a servire ai tavoli e a 16 anni inizia a fare il dj e mettere musica in balera e in giro.
Un giorno a 18 anni Filippo stava leggendo la Gazzetta dello Sport, dove il giornalista e gastronomo Luigi Veronelli scriveva dei territori in cui stava passando in quei giorni il Giro d’Italia, raccontando dei vini e dei piatti locali.
Il modo di Veronelli di parlare di cibo, così contaminato da arte, storia e ricordi, colpì Filippo in modo profondo. Fu catturato da quelle parole così diverse dal mondo che fino ad allora aveva conosciuto: dove il vino era solo di due tipi (bianco o rosso) e si mangiava per lo più per sfamarsi.
Con la sana ingenuità di un adolescente e spinto da un moto di estrema ammirazione, scrisse di getto una lettera a Veronelli.
In quella lettera ringraziava il giornalista per aver dato dignità a ciò che faceva la sua famiglia, e a tutti quelli che facevano della ristorazione la loro vita. Firmò la lettera, lasciando anche il nome e numero di telefono del Ristorante 2000.
Dopo qualche giorno suonò il telefono: era Veronelli, che invitò Filippo a Bergamo per conoscerlo. Il giovane, intuendo la grande occasione, non si fece attendere e l’indomani partì subito per il nord, lui, ragazzo che fino a quel giorno “conosceva l’Italia solo fino a Bologna”.
Fu l’inizio della sua amicizia e collaborazione lavorativa con il giornalista, e da quel giorno lo seguì sempre, accompagnandolo nei suoi viaggi in giro per l’Italia e il mondo, fino alla sua scomparsa, nel 2004.
In quegli anni, accanto all’illlustre gastronomo, Filippo impara ad assaggiare, scrivere, e registra con la sua telecamera le lunghe chiacchierate che facevano durante i loro spostamenti. Inizia poi a pubblicarli su uno dei primi social… My Space. Sente l’urgenza di raccontare quello che vede e le storie delle persone che incontra.
Feste e sagre dell’estate arricchiscono di profumi e sapori le piazze e le strade. È il cibo di strada che noi italiani abbiamo inventato ed esportato nel mondo, e ci parla di identità profonda, di continuità della storia personale e comunitaria; ci riporta ingredienti, cotture e gusti non standardizzati o omologati, ma distinti, individuati e individuabili, e legati alle singole realtà locali.
In vacanza sull’isola non possiamo fare a meno di assaggiare un’arancina (o arancino), la specialità di riso con salsa di pomodoro, carne o altro, che si fa risalire ai tempi della dominazione araba, che però compare in modo documentato solo in età moderna. Ma, appunto, arancina, rotonda, o arancino, rotondo o a punta, forma quest’ultima che potrebbe anche richiamare il profilo dell’Etna? Il nome viene certamente dall’analogia col frutto dell’arancio e col suo colore, ma la Sicilia si divide, e davvero non si accorda, fra il genere femminile (nella parte occidentale) e il genere maschile (nella parte orientale, con qualche eccezione intorno a Ragusa e Siracusa); quest’ultimo è stato adottato nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali Italiani (arancini di riso), ed è la forma che il Commissario Montalbano ha portato nei libri e in televisione, ossia alla cono- scenza di tutti. Ci porta nelle strade di Palermo il pani câ meusa («panino con la milza», la parte per il tutto, visto che la farcitura comprende anche polmone e scannarozzato, cioè la trachea); l’origine questa volta è legata all’attività di macellazione a cui erano addetti gli ebrei, che venivano pagati in natura con le parti meno nobili degli animali macellati.
A Roma non mancano le sorprese, o meglio i supplì, le crocchette di riso ripiene di carne e altri variabili ingredienti, fra cui la mozzarella filante: una parola che potrebbe essere un’alterazione del termine francese surprise, a indicare proprio la «sorpresa» che si cela dentro l’involucro croccante. A Firenze, come a Palermo, piace la c: il cibo di strada è il panino col lampredotto, l’abomaso bovino, così chiamato per la somiglianza con la lampreda, un pesce simile all’anguilla. Chioschi e chioschetti che vendono pani ripieni sono presenti in tante parti d’Italia; e qui si cita la piadina, di origine romagnola, la focaccia di farina impastata con acqua e sale, senza lievito, rotonda e schiacciata, più o meno sottile, con o senza strutto, a seconda delle zone. La parola piada (di cui piadina è il diminutivo) potrebbe risalire fino a una forma del greco-bizantino che indicava l’«asse per il pane» oppure la «scodella»: a testimonianza di quanto siano avventurose le vie delle parole, e in specie di quelle che riguardano la farina e i suoi derivati (si pensi a pizza).
Sono nati come cibo di strada anche i maccheroni napoletani, cucinati all’aperto, e conditi, per chi se lo poteva permettere, col formaggio, che nel Seicento salvarono un popolo dalla fame e dalle carestie. E per finire in dolcezza, ricordiamo che le monache del convento di Santa Brigida a Lamporecchio (la patria del Masetto di una celebre novella di Boccaccio) ci hanno regalato i brigidini, cialde sottili al profumo meraviglioso di anice, che ancora si vendono nelle feste e nelle fiere della Toscana.
Testo di Giovanna Frosini
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