Tag: assaggi

Soave, assaggi di storia per l’ora dell’aperitivo

La Cucina Italiana

È il turno del Soave. Non c’è Paese al mondo con tanta ricchezza e varietà di prodotti, naturali come li regala il territorio o lavorati da mani esperte in modi semplici, che sono antichi e insieme i più contemporanei. Prosegue il viaggio alla scoperta delle nostre bontà, da quelle più conosciute a quelle meno note lontano dalla zona di produzione. Per il vino la stagione chiama la mineralità del Soave.

Il Soave

Il Soave è tra i più importanti bianchi del nostro Paese per la sua storia e per i particolari terreni in cui nasce (in parte vulcanici), tanto che già nel 1816 il Catasto napoleonico ne elenca per la prima volta ufficialmente i vigneti e, nel 1931, con Regio Decreto, il Soave diventa zona vinicola riconosciuta e primo «Vino bianco tipico italiano». Occorre aspettare il 1968 per la Doc, mentre nel 1998 il Recioto ottiene la Docg: è la prima della regione Veneto. L’area di produzione si estende per 6300 ettari, in 13 Comuni a est della città di Verona, e l’area storica, nota come Soave Classico, si caratterizza per le sue particolari colline e valli, formatesi oltre 90 milioni di anni fa. Elementi caratteristici del paesaggio sono la forma di allevamento a pergola veronese, che protegge le uve in caso di siccità e di grandine, i muretti a secco e i terrazzamenti, dove la coltura della vite è affiancata a quella dell’olivo, e le tante aree boschive, che garantiscono un’importante biodiversità. Queste peculiarità hanno fatto sì che, nel 2016, il Soave sia stato il primo comprensorio vitivinicolo italiano a essere inserito nel Registro nazionale dei Paesaggi rurali di interesse storico e nel 2018 l’area sia stata riconosciuta come Patrimonio agricolo di rilevanza mondiale. La produzione oggi si attesta su circa 50 milioni di bottiglie all’anno, suddivise tra i bianchi secchi Soave, Soave Colli Scaligeri, Soave Classico, Soave Superiore e Soave Superiore Classico, e i passiti, Recioto di Soave e Recioto di Soave Classico. 

Carta d’Identità del Soave

VITIGNI – Almeno il 70% di garganega, cui si può aggiungere fino al 30% di trebbiano di Soave o di chardonnay.

CARATTERISTICHE – È un bianco delicato, elegante, con un finale minerale in grado di sfidare molto bene il tempo.

TEMPERATURA DI SERVIZIO – Sugli 8 °C per i vini più giovani, sui 10‐12 °C per quelli invecchiati o più importanti. Servite il Recioto di Soave a 12‐14 °C.

ABBINAMENTI – Le bottiglie giovani sono perfette come aperitivo, con formaggi freschi e preparazioni vegetariane; a tavola accompagnano le zuppe e i risotti con verdure. Le tipologie Superiore o i vini con qualche anno di affinamento sposano le ricette di pesce, anche di lago, le carni bianche con condimenti delicati e il sushi. La tradizione li vuole in abbinamento con la sopressa. Il Recioto accompagna la pasticceria secca, le crostate, i lievitati, i formaggi erborinati.

Amarone: assaggi di storia | La Cucina Italiana

La Cucina Italiana

È il turno dell’Amarone. Non c’è Paese al mondo con tanta ricchezza e varietà di prodotti, naturali come li regala il territorio o lavorati da mani esperte in modi semplici, che sono antichi e insieme i più contemporanei. Prosegue il viaggio alla scoperta delle nostre bontà, da quelle più conosciute a quelle meno note lontano dalla zona di produzione.

Amarone

Come spesso capita con le invenzioni di successo, la storia del vino Amarone comincia con un errore. In Veneto, in Valpolicella, c’è da secoli l’usanza di appassire le uve rosse locali (soprattutto corvina, corvinone, rondinella e molinara) per ottenere un vino rosso, dolce e concentrato, il Recioto. Nella primavera del 1936, il cantiniere della cantina sociale Valpolicella Negrar scoprì una botte dimenticata; ne assaggiò il contenuto ed esclamò: «Questo vino non è amaro, è amarone!». Che cosa era successo? Il Recioto aveva continuato a fermentare e aveva perso la sua caratteristica dolcezza, diventando, così, secco. L’epiteto piacque e presto sostituì la dicitura «Recioto tipo secco», che già si produceva, in modo più o meno casuale. Nel 1953 la cantina Bolla organizzò una grande festa a Milano e fece assaggiare agli invitati l’annata 1950 di Amarone. Da quel momento, la storia di questo rosso veneto ha conosciuto solo successi. La Doc arriva nel 1968, la Docg nel 2010 e oggi «la tecnica di appassimento delle uve della Valpolicella» è candidata a diventare Patrimonio immateriale dell’Umanità dell’Unesco. Attualmente, la denominazione prevede tre diciture: Amarone Classico, se è prodotto nei comuni di Fumane, San Pietro in Cariano, Sant’Ambrogio di Valpolicella, Marano di Valpolicella e Negrar; Amarone Valpantena, se prodotto nella omonima sottozona dei Monti Lessini; Amarone Riserva, se invecchiato per almeno quattro anni. Le bottiglie prodotte sono poco meno di 20 milioni, contese tra molti Paesi del mondo.

Sorbetto di Amarone

MASSIMO BIANCHI

Carta d’Identità dell’Amarone

DOVE NASCE – In Valpolicella, zona collinare nel Veneto occidentale.

METODI DI PRODUZIONE – Dopo l’appassimento delle uve (3-4 mesi), che permette di concentrare zuccheri e aromi, avviene una lenta macerazione, che si protrae per 30-40 giorni. L’invecchiamento avviene in botti di legno, per almeno due anni.

CARATTERISTICHE – È un rosso corposo e strutturato, poco tannico, molto alcolico e,
a dispetto del nome, con un sapore morbido e aromi che ricordano i frutti di bosco, la frutta passita, le spezie, il cioccolato, il tabacco e il caffè.

SERVIZIO – Va degustato sui 18 °C, in calici ampi, che ne favoriscano l’ossigenazione.

ABBINAMENTI – Con piatti di pari sapore e struttura: formaggi stagionati, grandi arrosti, brasati, stracotti, spezzatino, bollito misto, carni alla griglia e selvaggina. Ottimo anche da solo, dopo cena, come vino da meditazione.

assaggi di cibo | La Cucina Italiana

La Cucina Italiana

Naturale vs artificiale. Dalle culture dell’alimentazione al culto degli alimenti. Così si intitola un volume appena pubblicato dall’Università di Coimbra (Portogallo) che raccoglie contributi di vari studiosi. Titolo suggestivo, da cui prendo spunto per una piccola riflessione: il «culto degli alimenti», ovvero l’importanza assegnata ai prodotti, ai singoli ingredienti di una preparazione culinaria, è un’ossessione tipica del nostro tempo. Non che sia mai mancata l’attenzione alla qualità, alle proprietà, all’origine dei prodotti: per quanto riguarda la tradizione italiana basta pensare all’umanista Platina (XV secolo) che nel trattato Sul piacere onesto e la buona salute prende in esame i prodotti a uno a uno, descrivendone le caratteristiche e le virtù secondo i consolidati schemi della precettistica medico-dietetica, però soffermandosi anche sulle particolari qualità di ciascuno a seconda dei luoghi di provenienza e dei metodi di trattamento; o a Bartolomeo Scappi, il cuoco più celebre dell’Italia rinascimentale, che precisa in modo dettagliato, piatto per piatto, l’identità dei prodotti serviti in ogni evento conviviale.

Naturale vs artificiale

Tuttavia, nella cultura medievale e rinascimentale – e così nei secoli successivi – quello che potremmo chiamare «elogio dell’ingrediente» cede sempre più il passo all’attività di trasformazione, a un lavoro di cucina che tende decisamente a imporsi sulla «naturalità» degli ingredienti. Ciò che prevale, nella cultura gastronomica d’antan, è l’idea dell’artificio, capace di migliorare la natura inventando nuove forme e consistenze, nuovi colori e sapori. Nelle cronache medievali e rinascimentali il termine artificio – con gli aggettivi e gli avverbi che ne derivano: artificioso, artificiale, artificiosamente… – è sempre usato in senso positivo. Non è il prodotto a richiamare l’attenzione, ma il lavoro che si fa su di esso per piegarlo a fini creativi, non sempre rispettosi della sua «personalità». Questi procedimenti invasivi si riconoscono non solo nella cucina creativa dei cuochi di corte o di palazzo, ma anche nella cucina popolare che dà la preferenza a minestre e zuppe di lunga e lunghissima cottura, dove il singolo ingrediente tende a scomparire in un tutto omogeneo, diventando spesso irriconoscibile. In un modo o nell’altro, ciò che si valorizza non sono le caratteristiche naturali dei prodotti, ma l’attività di cucina e di trasformazione.

Il successo di quella che oggi siamo soliti chiamare «cucina di prodotto», basata sul rispetto di ciò che la «natura» offre, sul piano storico è un’assoluta novità, figlia di un pensiero che si affaccia con la rivoluzione illuminista del Settecento (leggi Jean-Jacques Rousseau) rovesciando criteri di giudizio consolidati da secoli. È sulla scia di quel pensiero che a poco a poco ci siamo abituati a pensare che «naturale» è sinonimo di buono, mentre delle cose «artificiali» è meglio diffidare. Fino a non molto tempo fa, si pensava piuttosto il contrario.

Proudly powered by WordPress