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Come cucinare le puntarelle? Tutti i consigli e 20 ricette

La Cucina Italiana

Non sapete come cucinare le puntarelle e quindi rinunciate a priori a prepararle? Non fatevi scoraggiare, perché è facilissimo cucinare i germogli della cicoria catalogna.

Cosa sono le puntarelle

È una verdura a foglia, piuttosto amara, che appartiene alla famiglia delle cicorie. Quella spigata, più piccola e tenera, si trova soprattutto da novembre a marzo. Ortaggio poco utilizzato al Nord, è invece diffusissimo nel centro-sud d’Italia, soprattutto nel Lazio, dove è considerato un piatto tipico. All’aspetto le puntarelle si presentano come un cespo di foglie con tante cimette, dal colore verde, più chiaro verso la base, più intenso verso le punte delle foglie. Dal sapore lievemente amarognolo, sono spesso servite in insalata e accompagnate da una emulsione di olio e acciughe. Facili da preparare, richiedono soltanto un po’ di tempo per la pulitura.

Come si puliscono le puntarelle

Per pulirle è necessario tagliare alla base il cespo, liberare ogni cimetta dalle foglie e togliere la parte più dura dello stelo. A questo punto le puntarelle vanno tagliate a metà per il lungo e poi via via in striscioline più sottili. Le foglie non vanno buttate perché possono essere consumate cotte, come contorno o come ripieno per una torta salata.

Le puntarelle vanno lasciate a bagno nell’acqua fredda per un’ora prima di essere condite. Così diventeranno ricce e saranno più belle da servire.

Come si condiscono le puntarelle?

Le puntarelle a crudo si condiscono con olio, uno spicchio di aglio schiacciato, un cucchiaio di aceto e dei filetti d’acciuga: mettete tutti gli ingredienti in una ciotola e con una forchetta amalgamate tutto, in modo da ottenere una salsa omogenea. Poi condite le puntarelle con la salsina ottenuta.

Puntarelle: proprietà e benefici

Le puntarelle sono un alimento dalle innumerevoli facoltà benefiche. Sono ricche di vitamina A, fosforo e calcio. Hanno un effetto depurativo e diuretico e sono indicate per una dieta disintossicante. Come molte verdure, se consumate crude mantengono inalterate tutte le loro proprietà nutritive. Il loro sapore amarognolo aiuta la digestione e contribuisce a stimolare la circolazione sanguigna.

Come si conservano le puntarelle

Le puntarelle si conservano in frigo, tagliate e pulite, per due o tre giorni. L’ideale sarebbe consumarle subito dopo l’acquisto per non far loro perdere la croccantezza tipica di questa verdura. Una volta condite meglio non conservarle: si ammorbidiscono e assumono tutto l’olio di condimento.

Come cucinare le puntarelle?

Non solo crude, condite con olio, aglio, aceto e acciughe. Le puntarelle si possono cucinare con notevoli risultati di gusto. Sfogliate la gallery per vedere le nostre ricette con le puntarelle.

Caci del centro Italia: riscoperta delle tradizioni casearie

La Cucina Italiana

Parliamo di caci e quindi del Centro Italia, che è una regione ricca di tradizioni casearie, dove la produzione di formaggi è legata a secoli di storia e pratica pastorale. Questa regione, che comprende le Marche, l’Abruzzo, l’Umbria e il Lazio, è rinomata per una varietà di formaggi pecorini, o caci, unici nel loro genere. Ecco tre di questi prelibati tesori caseari, ognuno con una storia e una tradizione distinte.

Pecorino di Farindola: il formaggio del Gran Sasso

Il pecorino di Farindola è un formaggio pecorino originale preparato utilizzando il caglio di maiale, conferendogli aromi e sapori particolari. Questa antica tradizione di utilizzare il caglio suino risale all’epoca romana, quando era noto come “formaggio dei Vestini”. La produzione di questo formaggio era una volta diffusa in questa regione, con il paese di Farindola che aveva una notevole tradizione ovina grazie ai suoi vasti pascoli pubblici. Il formaggio era oggetto di scambi commerciali nei mercati di Penne e Loreto Aprutino.

Oggi, il pecorino di Farindola viene prodotto in quantità limitate in una ristretta area del versante orientale del massiccio del Gran Sasso, principalmente all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. La sua produzione è prerogativa delle donne, che tramandano la ricetta di generazione in generazione. Il latte è munto a mano da ovini che pascolano allo stato brado per gran parte dell’anno. La lavorazione prevede la cagliatura del latte a 35°C, seguita dalla salatura a secco entro 48 ore. Le forme sono poi poste a stagionare in vecchie madie di legno da un minimo di 40 giorni fino a oltre un anno. La pasta granulosa e leggermente umida conferisce al formaggio profumi muschiati e un grande equilibrio tra sensazioni piccanti e il sapore del latte ovino.

Con lo spopolamento dovuto alle emigrazioni del dopoguerra, la produzione di pecorino di Farindola si era ridotta drasticamente. Tuttavia, grazie all’impegno del Presidio, sette produttori hanno contribuito a preservare e rilanciare questa tradizione unica.

Cacio di Genazzano: il formaggio storico dei Monti Prenestini

Il cacio di Genazzano è un pecorino storico della prima cinta dell’area metropolitana di Roma, tra i Monti Prenestini e la Valle del Sacco, in particolare dei comuni di Cave e Genazzano. Questo formaggio pecorino è prodotto utilizzando il latte di diverse razze ovine come comisana, sarda, massese e loro incroci. Le pecore pascolano su terreni caratterizzati da tufo vulcanico e numerose sorgenti, conferendo al formaggio un profilo aromatico ricco e complesso.

Gianfranco Pascucci: un giardino di mare nei piatti

Gianfranco Pascucci: un giardino di mare nei piatti

Gianfranco Pascucci. Se Fellini avesse fatto un film su quel pezzo di litorale che amava moltissimo, lo avrebbe scelto come interprete. Occhi verdi come il suo mare, la statura e la muscolatura di un pescatore, i modi riservati e pacati di chi è abituato a dialogare con la natura. Gianfranco Pascucci ha tutto quello che serve per rappresentare il territorio magico e selvatico che dalle coste basse e sabbiose del litorale di Fiumicino si addentra nell’Oasi di Macchiagrande, 280 ettari coperti da pini marittimi, caprifogli, corbezzoli, eriche, lentischi, oggi custoditi dal WWF. Di cui Pascucci è ambasciatore. Una vocazione annunciata da quando, negli anni Ottanta, era un ragazzino che andava a raccogliere le telline sulla spiaggia e a trovare il nonno Pompeo nella storica trattoria Al Porticciolo a Fiumicino; poi era un viaggiatore goloso; poi un professionista bravo a far sentire a proprio agio i turisti in vacanza. E sempre c’era di mezzo il mare fino al colpo di fortuna dell’acquisto della locanda del nonno, che ha segnato il ritorno definitivo su quel litorale amatissimo, tra il canale, le reti e il porto. E l’inizio da orgoglioso autodidatta di uno stile inedito di cucina di pesce originale e indipendente. Adesso, accomodata nel luminoso ristorante punteggiato di citazioni azzurre, sono qui per assaggiarla.

Intervista a Gianfranco Pascucci

«Non la chiami cucina di pesce, la mia è cucina di mare».

Cioè?
«Il sapore del mare inizia dalla macchia, con le pigne cadute sul terreno salso, i germogli di rovo, il mirto, l’alloro. Man mano che ci si avvicina alla riva il colore e il sapore delle erbe cambiano: il rosmarino diventa più pungente, le bacche del lentisco più pepate, l’alloro più speziato. Spesso i miei piatti sono il risultato di una passeggiata nell’Oasi in compagnia del suo direttore Andrea Rinelli».

Però al limite della passeggiata arriva l’azzurro delle onde.
«Sì, ma il verde continua con le alghe, questo enorme forziere a nostra disposizione che non contrasta il gusto del pesce con note estranee acide o piccanti, ma lo esalta con una nota intensa di mare puro. I giapponesi lo chiamano umami. Perché usare il dado quando puoi mettere un’alga? Perché addensare con la farina quando puoi farlo con l’alga Mastocarpus che sa di scoglio? Oggi c’è un’ottima scelta di alghe disidratate. L’alga fagiolino, abbondante sulle coste bretoni, è ottima sciacquata e condita con olio e limone. E poi c’è il plancton, microalghe coltivate e liofilizzate, la mia scoperta più recente e affascinante. Un sapore intensissimo tra terra e mare».

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