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Cacio e pepe alla brace: la ricetta di chef Errico Recanati

La Cucina Italiana

Mai provata la cacio e pepe alla brace? La cacio e pepe è un classico della cucina italiana, e la sua difficoltà è tutta nel mantecare alla perfezione il formaggio con la pasta a fine cottura. Non nella cucina di Andreina, il ristorante 1 stella Michelin di Errico Recanati, a Loreto. Nelle Marche, all’ombra della cupola del celebre santuario infatti, la cacio e pepe viene (letteralmente) cotta sulla brace viva. E il risultato è da manuale di alta cucina.

Gli ingredienti sono i soliti, pasta, cacio, pepe, più quello preferito dallo chef: il fumo. La Cacio e 7 pepi del ristorante Andreina – come viene chiamata nel menù – infatti è la perfetta sintesi fra grande tradizione italiana, tecniche arcaiche, ricerca gastronomica e ingredienti esotici. Se il formaggio è quello di fossa o il parmigiano reggiano, la pasta una localissima Benedetto Cavalieri di grano Senatore Cappelli, i pepi solo frutto di una selezione meticolosa fra Cina, Malesia, Indonesia, Nepal e Vietnam. Sarebbe una grande cacio e pepe, con la brace diventa unica.

Se il gusto affumicato e la tendenza al “ritorno al fuoco” attraversa la cucina internazionale in lungo e in largo, qui è nel Dna da più di 60 anni, da quando Andreina arrostiva maialino nello stesso camino che ora usa il nipote. L’affumicatura non arriva dalla salsa, dall’uso di pancetta o guanciale, da un’affumicatura scenografica sotto una cloche al momento del servizio o da qualche escamotage creativo. Qui sulla brace ci cuociono tutto.  Pure la pasta.

Cacio e pepe alla brace: cottura in 4 fasi

La cottura avviene in quattro fasi: classica, in acqua salata, alla brace e in padella. «La pasta è uno spaghettone Benedetto Cavalieri che cuoce 18 minuti, l’unica pasta che tiene questa cottura», mi dice. «Bolle 4 minuti in acqua, poi viene immersa per 6 minuti in acqua a 60°: se usassimo acqua fredda perderebbe tutto l’amido. Dopo la freddiamo ancora per bloccare definitivamente la cottura. Quindi la asciughiamo sui canovacci. Servono 200 o 210 grammi a porzione per servirne 150 o 120 a fine procedimento». Con la triplice cottura molti spaghetti si spezzano o risultano troppo grigliati e quindi vengono messi da parte.

«Se vi state chiedendo come sia possibile realizzare una pasta alla brace, sappiate che Errico Recanati utilizza delle piccole grigliettine di vari spessori da porre sopra la griglia classica, su cui è possibile cuocere anche le erbe di campo: data la fitta maglia della rete della grigliettina tutto cuoce in maniera omogenea senza mai cadere, cosa che sarebbe impossibile cuocendo direttamente sulla griglia classica», scrive Allan Bay nella prefazione del libro Cuocere alla brace di Errico Recanati (Italian Gourmet edizioni).

Il cappello che convoglia i fumi

La pasta viene fatta cuocere per 9 minuti sulla brace viva, sotto a un cappello: uno speciale arnese inventato da Errico Recanati e autocostruito con delle teglie da cucina e dei manici di coperchio. Il cappello trattiene il fumo dolce della sua carbonella speciale composta di sette legni dell’Appennino, aromatici, ma non invasivi. A quel momento mantecato sul fornello con acqua di cottura, formaggio, burro e sette pepi. «Un solo pepe bloccherebbe il gusto della brace, invece questi pepi sono aromatici, allungano il gusto della brace senza coprirlo». E il risultato è esattamente quello. Una pasta ancora perfettamente callosa, al dente, croccante in alcuni punti, che profuma di fumo e che ha il sapore del fumo, non del bruciato, che perdura in bocca grazie all’azione aromatica e non piccante del pepe. «Abbiamo mangiato pasta scotta per mesi», mi racconta, e dal 2017 non è mai uscita dal menù.

«La cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale» Patrimonio Unesco: parte la raccolta firme

La Cucina Italiana

Tra loro ora Jimmy Ghione, storico inviato di Striscia la Notizia, amato dal grande pubblico anche per l’impegno dimostrato negli anni per la tutela e la valorizzazione della cucina italiana e dei suoi prodotti. Ha raccontato l’importanza della raccolta firme per il sostegno della candidatura della cucina italiana durante la puntata dell’amato programma di Antonio Ricci andata in onda il 27 gennaio. Lo ha fatto in un modo simbolico, accompagnato dal presidente Pecoraro Scanio e Enrico Derflingher, presidente dell’associazione Euro-Toques Italia ed International, e per anni cuoco personale della regina Elisabetta II. Insieme hanno preparato un risotto con tartufo nero: un piatto che racconta la cucina del grande chef e un esempio dell’armonia dei prodotti italiani, Dop e Igp, che caratterizzano con i loro profumi e i loro sapori ciascun territorio del nostro Paese.

L’unicità della candidatura della cucina italiana

«La candidatura della cucina italiana italiana a patrimonio Unesco è anche questo: una campagna per valorizzare i prodotti e le tradizioni dei singoli territori. Perché la sua unicità sta anche in questo: nel fatto che è diversa da paese a paese, da provincia a provincia», racconta Alfonso Pecoraro Scanio, annunciando che ci saranno ancora altri esempi che racconteranno questa diversità, e biodiversità. «Sarà la pasta il prossimo filo conduttore: è la più identificativa della nostra cucina nell’immaginario comune e tra gli ingredienti che meglio si prestano a fare da trait d’union ai nostri prodotti, a rappresentarli e quindi a condividerli».

Una candidatura inclusiva

Condivisione, del resto, è la parola chiave alla base di ogni candidatura, fatta per promuovere un’arte, una tradizione, una cultura, perché venga conosciuta, apprezzata, e ancora una volta condivisa. «Le candidature Unesco sono esattamente l’opposto di una rivendicazione protezionistica. Se abbiamo candidato la pizza o il canto lirico non era per tenerceli stretti, per rivendicarne l’italianità, ma perché sono cose belle con una valore globale», spiega Alfonso Pecoraro Scanio. «Lo stesso è per la candidatura della cucina italiana, che vorremmo fosse valorizzata anche dall’Unesco per la sua sostenibiltà e biodiversità, per essere la base di una dieta – quella mediterranea – assurta a modello alimentare in tutto il mondo», dice ancora il presidente Univerde. E prosegue: «Per questo è importante firmare: questa candidatura riguarda tutti, è un percorso inclusivo, e io spero che coinvolga le persone proprio come è stato per la pizza».

Cosa succederebbe se la cucina italiana diventasse patrimonio dell’Umanità

Del resto, se effettivamente l’Unesco dovesse accettare la nostra proposta, ne guadagneremmo tutti, proprio come è già successo per la pizza. «In seguito all’ingresso dell’arte dei pizzaiolo napoletani tra i patrimoni si sono moltiplicate nel mondo le richieste di pizzaioli di scuola napoletana: non napoletani di origine, ma persone che nel mondo hanno imparato a fare la pizza seguendo le regole e le tradizioni dell’arte napoletana. Questo varrebbe anche per la cucina italiana: si tratterebbe di diffondere conoscenza, non mettere un recinto. Condividere un patrimonio». Un patrimonio di storia, storie, saperi, tradizioni, che coinvolge ciascuno di noi.
Per firmare cliccate su www.change.org.

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