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Come tagliare una cipolla senza piangere

La Cucina Italiana

Vi sarà sicuramente successo: iniziate a fare il soffritto e al taglio della cipolla iniziate a lacrimare. Piuttosto fastidioso. Sapete che si può tagliare una cipolla senza piangere? E senza strani stratagemmi. Come? Ce lo spiega lo chef Davide Negri. Ma prima, vi siete mai chiesti perché le cipolle fanno piangere?

Perché le cipolle fanno piangere?

Ogni varietà di piante sulla Terra ha sviluppato le proprie tattiche di difesa contro predatori e malattie. Per una pianta, danni a tessuti cruciali come radici o foglie possono portare alla morte.

Poiché le piante non hanno la capacità di sfuggire ai predatori hanno sviluppato la loro strategia difensiva, che si basa sulla produzione e l’accumulo di sostanze tossiche, irritanti o sgradevoli per migliorare le probabilità di sopravvivenza.

In particolare, le cipolle assorbono zolfo dal terreno e lo utilizzano per sintetizzare acido solfenico, che si accumula nei bulbi sotterranei. Quando il bulbo viene tagliato, le cellule si rompono, e gli enzimi entrano in azione rilasciando propantial-S-ossido, un gas irritante.

Il propantial-S-ossido, a contatto con il liquido che protegge i nostri occhi, si trasforma in acido solforico, una sostanza più pericolosa. A nostra volta, come le piante, anche noi mettiamo in atto il nostro meccanismo di difesa, che consiste nel lacrimare per diluire l’acido solforico, sostanza irritante.

Come tagliare una cipolla senza piangere?

Eccoci arrivati al dunque: dovete tagliare una cipolla, ma volete evitare quella fastidiosa lacrimazione. La soluzione è in questo video in cui lo chef Davide Negri ci insegna come usare un coltello su una cipolla senza “piangere“. Innanzitutto si deve impugnare il coltello sull’elsa, tenere le punta delle dita all’interno e le nocche ad angolo retto. Una volta sbucciata, la cipolla si taglia a metà, poi in verticale, poi in orizzontale a ventaglio e infine in tanti piccoli cubetti.  E il gioco è fatto… senza lacrime!

Come tagliare una cipolla senza piangere

Zuppa all’aglio – Ricetta di Misya

Zuppa all’aglio

Innanzitutto sciogliete zucchero e lievito nell’acqua, quindi unite anche l’olio.

Mettete le farine, il sale e la semola in una ciotola e mescolate, quindi incorporate anche il composto di acqua e lavorate fino ad ottenere un panetto liscio e omogeneo.

Dividete in 2 panetti uguali, mettete in 2 ciotole leggermente unte d’olio, coprite con pellicola per alimenti e lasciate lievitare in un posto caldo per almeno 2 ore o fino al raddoppio.

Riprendete 1 panetto per volta, schiacciatelo con le mani, separate un piccolo pezzo di impasto e formatene un cordoncino.
Con il resto del panetto formate nuovamente una palla, strozzatene una piccola parte verso l’alta formando una specie di forma a caciocavallo, quindi arrotolate il cordoncino intorno alla strozzatura.
Procedete nello stesso modo anche con il secondo panetto, quindi incidete dei piccoli tagli non troppo profondi, perpendicolari al cordoncino.

Schiacciate o tagliate a pezzettini piccoli l’aglio e mettetelo in una ciotolina con un po’ di olio.
Cuocete in forno ventilato preriscaldato a 180°C per circa 15 minuti; poi alzate la temperatura a 220°C e cuocete per altri 15 minuti; infine sfornate temporaneamente, abbassate la temperatura a 200°C, spennellate con l’olio all’aglio e cuocete ancora per 5 minuti, quindi spegnete, sfornate e lasciate raffreddare.

Iniziate a preparare la zuppa all’aglio: pelate le patate, lavatele e tagliatele a dadini.

Mettete a scaldare il brodo.
Mondate gli spicchi di aglio e schiacciateli con uno schiaccia-aglio o con il dorso di un coltello.

Fate sciogliere il burro in una casseruola, unite l’aglio e lasciatelo rosolare per un paio di minuti, quindi aggiungete la farina continuando a mescolare per non far formare grumi.

Incorporate il brodo caldo amalgamando bene con una frusta o un cucchiaio di legno, poi unite anche patate e prezzemolo, coprite con coperchio e lasciate stufare per 25-30 minuti o fin quando le patate non risulteranno molto morbide.
Se volete potete frullare con un minipimer (per bene o anche solo grossolanamente) per una consistenza ancora più liscia e cremosa.

Riprendete le pagnottine, tagliate via la calotta e svuotatele della mollica, creando come delle ciotole.

Mondate il formaggio e tagliatelo a cubettini.

Versate un mestolo di zuppa nelle ciotole di pane e completate con formaggio, prezzemolo e paprica.

La zuppa all’aglio è pronta, non vi resta che aggiungere il coperchio e servire.

Farina bòna: tutto sull’ingrediente “difficile” di MasterChef 13

La Cucina Italiana

Che cos’è la farina bòna? Come si usa? Ieri sera, a MasterChef, i concorrenti, nella Golden Mystery Box, hanno trovato un assortimento di ingredienti di colore giallo: oltre a formaggio cheddar, finferli, senape, mela gialla, curcuma, maracuja e petit pâtisson (o zucchina patissone), c’era anche la farina bòna. Dal momento che è ancora poco conosciuta, però, gli aspiranti chef in gara non sapevano bene come poterla utilizzare.

Che cos’è la farina bòna?

In effetti, la farina bona – un prodotto tradizionale della Valle Onsernone, una delle più impervie del Canton Ticino, a pochi chilometri da Locarno – per qualche decennio è rimasta nel dimenticatoio. Fino a quando Ilario Garbani Marcantini, maestro di scuola elementare a Intragna, insieme al Museo Onsernonese, ha riscoperto e valorizzato questa preziosa farina di granoturco, che si ottiene macinando molto finemente la granella tostata.

La sua storia

Si racconta che la prima a produrla fu una mugnaia di Vergeletto di nome Annunziata Terribilini, detta Nunzia, che faceva con il mais (lo stesso che viene utilizzato per la produzione di polenta, proveniente dal Piano di Magadino) quello che, tradizionalmente, si faceva con la segale: una bella tostatura in una padella fino a fare scoppiare i chicchi, che poi macinava finemente per ottenere una farina dal gusto unico. La farina bona si caratterizza anche per il tipo di macinatura, molto fine, grazie all’impiego di macine speciali, lisce, come quelle dei mulini, ormai in rovina, di Vergeletto.

Un tempo, la farina bòna faceva parte dell’alimentazione degli onsernonesi, che la consumavano accompagnata a latte, freddo o caldo, acqua o vino, o sotto forma di minestra, la poltina. Ma il cambiamento delle abitudini alimentari del secondo Dopoguerra ha ridotto progressivamente la presenza di questo ingrediente. Alla fine degli anni ’60, anche l’ultimo mugnaio onsernonese ha lasciato il suo lavoro, e della farina bona non si è più parlato per tanto tempo. Solo nel 1991 e nel 2013 sono stati riavviati i mulini di Loco e Vergeletto, che hanno ripreso a macinarla.

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