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Acqua e caffè: quale prima e quale dopo? Risponde l’esperto

La Cucina Italiana

Acqua e caffè: quale si beve prima e quale, invece, si beve dopo? E poi, bere acqua in questo caso è sempre necessario? Del resto, quando si va al bar non c’è una regola: c’è chi la serve (in genere al Sud) e chi non lo fa, o chi solo naturale o solo frizzante. Eppure una regola esiste. Anzi, esiste più di una regola. La prima già chiarisce molte cose: «Il bicchier d’acqua andrebbe bevuto sempre prima del caffè», dice Mauro Illiano, degustatore professonista, fondatore di “Napoli Coffee Experience”, membro del board of experts della Slow Food Coffee Coalition e, tra le altre cose, curatore della prima guida dei Caffè e delle torrefazioni d’Italia.

Quando si beve l’acqua con il caffè?

Prima acqua e poi caffè, dunque, e non è questione di gusti o preferenze. «L’acqua – spiega Mauro Illiano – pulisce il cavo orale. Salvo il primo caffè della mattina, sempre che si beva a stomaco vuoto, durante la giornata il caffè si beve spesso dopo aver mangiato o bevuto altro. Con un po’ d’acqua si elimina ogni possibile contaminazione che potrebbe inficiare l’esperienza gustativa: si riescono a percepire tutti i sentori del caffè, sia attraverso il gusto che attraverso l’olfatto».

A cosa serve l’acqua con il caffè?

La degustazione del caffè, infatti, non si limita al momento in cui lo beviamo: prosegue anche dopo, e anche attraverso il profumo della miscela oltre che attraverso il suo sapore. «Dopo aver bevuto il caffè, la sua parte lipidica – che è la stessa che rimane sulla tazzina o sulle pareti del cucchiaino – resta anche nel nostro cavo orale e i suoi sentori tornano poi per via retronasale, talvolta anche per un’ora. È uno dei tanti piaceri che regala il caffè. Berlo con la bocca pulita da un sorso d’acqua è un modo semplice per non privarsene», fa notare ancora Illiano.

Perché l’acqua non va bevuta dopo il caffè?

Al contrario, ovviamente, tutto questo non succede se l’acqua si beve dopo il caffè: «L’acqua favorisce la deglutizione e quindi se si beve dopo il caffè fa svanire questa piacevole sensazione», dice Illiano. Se però spesso viene naturale bere dopo aver bevuto la tazzina, c’è un motivo: «Succede quando il caffè non è buono: è bruciato o troppo amaro per esempio. In questi casi aver bisogno di bere è una reazione naturale e inconsapevole: serve proprio a ripulirsi la bocca da sapori e odori sgradevoli». È proprio per questa ragione che spesso si dice che bere acqua dopo il caffè, quando si sta al balcone del bar, è scortese nei confronti del barista: potrebbe interpretarlo come un modo per dirgli che non ci ha preparato la tazzina che avremmo voluto bere.

Naturale o frizzante: quale acqua bere con il caffè?

Tra le cose da sapere per una degustazione ottimale del caffè, c’è anche che a fare la differenza è l’acqua: quando si beve prima del caffè, deve essere naturale. «Un’acqua oligominerale o frizzante altera l’approccio al palato esaltando le durezze. Ovvero: fa sentire il caffè più amaro se è amaro, o più acido se già tende all’acidulo».

Il cioccolatino va mangiato prima o dopo il caffè?

Non solo acqua, però: non di rado, specie al bar, il caffè viene servito con cioccolatini o biscotti. Cosa fare in questi casi? «Salvo particolari esperienze di pairing tra cibo e caffè, non andrebbero mangiati né prima né dopo perché alternano la percezione del gusto del caffè: un cioccolatino molto amaro può far percepire il caffè meno amaro di quanto sia in realtà, e viceversa. Un biscotto è anche peggio perché in genere è molto dolce: lo shock di sapori che può derivare rischia di rovinare l’esperienza».

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La Cucina Italiana

Non bisogna per forza essere di Napoli per comprendere il senso profondo di un piatto come la Genovese. Certo il suo odore per un napoletano sarà sempre legato a infinite domeniche in famiglia; ma in realtà quel profumo resta impregnato addosso anche a chi è solo di passaggio, anche solo una volta. Perché in un’era dove gli imperativi restano la velocità e l’efficienza, per fare la Genovese ci vogliono ore e ore, passate a pelare chili di cipolle con le lacrime agli occhi; lacrime che non si arrestano nemmeno tra i fumi dei suoi lunghi tempi di cottura; lacrime che basta un respiro. Per questo nella Genovese c’è Napoli e quella sua intrinseca abilità di trovare sempre soluzioni, nella vita così come davanti a resti, scarti o sovrabbondanze di cibi; quella stessa genialità che da sempre caratterizza le cucine cosiddette povere, che poi in realtà di povero non hanno proprio nulla e si rivelano sempre la quintessenza della creatività, come ci dimostra la storia. Perché è quando non si ha niente che si riesce a fare tutto, mo, ambress ambress, in un eterno presente: “il futuro non ci appartiene, e se domani non mi sveglio? Allora meglio che la Genovese me la faccio oggi”. È questa la filosofia di Patrizia, per tutti zia, una delle tante donne che la prepara da una vita, perché gliel’ha insegnata sua mamma, Angela, e prima ancora sua nonna, Fortuna, secondo una tradizione tramandata con il semplice saper fare. Negli anni l’ha preparata in tutta Italia per diverse occasioni e ovunque ha sempre riscosso un gran successo. Ma resta un dubbio: perché una delle ricette più napoletane che ci sia, si chiama proprio così?

Perché “la Genovese” si chiama così visto che è di Napoli?

Ci sono varie ipotesi, dal periodo aragonese in cui pare che il porto di Napoli fosse pieno di cuochi genovesi, a un cuoco napoletano che la cucinava ed era soprannominato “o genoves”, fino a chi pensa che il nome derivi da Ginevra in Svizzera e non dalla città ligure…

Ma la realtà è più semplice: la Genovese appartiene al Mediterraneo e risale a quell’epoca in cui gli scambi tra i porti erano talmente comuni che la condivisione di un piatto era un’abitudine. A maggior ragione se ad averlo poi fatto suo è stata una città come Napoli, incapace a non dare confidenza, con quella sua indole innata predisposta all’incontro senza preconcetti e alla contaminazione senza indugi.

Dunque, poco importa l’origine o l’appartenenza di qualcosa che alla fine affonda le sue radici in mezzo al mare, intriso di un antico e profondo senso di condivisione; quello stesso che oggi non fa mancare nessuno a tavola quando lei è finalmente pronta.

Come si prepara la Genovese

Per la preparazione delle Genovese, è fondamentale scegliere bene la carne, che deve essere sempre il più tenera possibile: zia Patrizia predilige la gallinella di maiale, tra i tagli meno noti, ma ugualmente validi, vicino allo stinco, nella parte inferiore della gamba, dove le masse muscolari abbracciano la faccia posteriore della tibia.

Ingredienti per 4/5 persone

  • 500 g di penne grandi (o ziti e candele)
  • 1 kg di gallinella di maiale (o girello di manzo tenero)
  • 2 kg di cipolle
  • 2 carote
  • 1 sedano
  • 1 bicchiere di vino bianco
  • 5 pomodorini
  • basilico – sale – prezzemolo – Parmigiano – olio evo

Procedimento

  1. Pelate le cipolle e tagliatele a pezzettini.
  2. Poi pulite carote e sedano e tagliate anch’essi a pezzetti; in una pentola mettete l’olio extravergine d’oliva e fate rosolare la carne precedentemente tagliata.
  3. Dopo circa un quarto d’ora, togliete la carne e nella stessa pentola aggiungete ancora un po’ d’olio con cipolle, carote e sedano e fate cuocere con il coperchio chiuso per qualche minuto.
  4. In seguito mettete un bicchiere di vino bianco, poi riaggiungete la carne con cinque pomodorini schiacciati; aggiustate di sale, aggiungete ancora un po’ di vino bianco e lasciate cuocere a fuoco basso per almeno un’ora, anche se il tempo dipende dalla cottura della carne.
  5. Una volta che la carne è quasi pronta, fate bollire l’acqua, buttate la pasta e infine condite direttamente nel piatto, senza mai dimenticare una spolverata di parmigiano ‘ncoppa.

Ciro Di Maio, non solo la pizza Mano de Dios per Maradona. Intervista

La Cucina Italiana

Lo raggiungiamo in una delle poche, pochissime, pause che si prende dal lavoro. «Entro in pizzeria alle 9 di mattina e esco all’una di notte. Non prendo un giorno da mesi e sono felice così», dice. E così è sempre stato: 33 anni di cui 19 trascorsi a impastare, Ciro Di Maio ha cominciato a fare pizze da piccolissimo, a 14 anni, perché già allora ha avuto bisogno di un’altra strada. Un’alternativa dopo un’infanzia complessa nelle palazzine popolari dei sobborghi di Napoli con un padre con un passato burrascoso. Un padre che poi però ha trovato a sua volta una nuova strada e gli ha dato l’esempio, mostrandogli che una vita migliore passa anche dall’aiutare chi ha bisogno. Ciro ora a suo modo fa lo stesso con i detenuti, con i ragazzi che vivono nei quartieri disagiati in cui è cresciuto lui, con chi bussa alla sua porta. Insegna un’arte che per tanti è ancora la via del riscatto, formando nuove generazioni di pizzaioli a cui spiega che la pizza può essere anche un modo per raccontare se stessi, le proprie origini. Come ha fatto lui con la Mano de Dios, in fondo. Ne abbiamo parlato in questa intervista:

L’intervista al pizzaiolo Ciro Di Maio

Oltre che su Instagram, la pizza Mano de Dios è piaciuta nella realtà?
«Sta andando molto bene, ai clienti piace, un po’ perché è scenica un po’ perché è buona. La chiedono tanti napoletani che abitano a Brescia, ma anche tanti bresciani».

La citazione calcistica è immediata per tutti?
«Certo, è impossibile non conoscere Maradona. È stato un idolo. Io sono cresciuto guardando Maradona. Ricordo ancora che quando andavo a scuola sul bus trasmettevano i video dei suoi gol. Maradona non è stato solo un calciatore. È stato amore per il calcio, per la vita, per la gente. Ha unito unito Napoli e l’Argentina. Una volta ho chiesto a un cliente argentino “perché voi siete così forti a calcio?”, e lui ha risposto “perché abbiamo sangue italiano”».

Hai altre pizze particolari come questa in menù?
«Noi facciamo la classica ruota di carro, in tutti i gusti classici e con i prodotti tipici campani. Questa Mano de Dios è unica nel suo genere non solo per la forma, ma anche per la cultura che racchiude. Per me è un modo per raccontare Napoli».

Cosa ha significato per te portare l’arte della pizza napoletana fuori da Napoli?
«Per me ha significato tante cose: non solo far conoscere la pizza verace, ma anche la vera cultura napoletana. Ci sono ancora tanti stereotipi, ingiustificati, su Napoli e chi ci abita, e che con il nostro lavoro possiamo contribuire a smontare. Napoli è bella e brutta allo stesso tempo, come le persone che possono essere buone e al contempo cattive. Di sicuro se non fossi nato a Napoli non sarei quello che sono. C’è un detto che dice che “O napulitan se fa sicc’ ma nun mor“, cioè “il napoletano può diventare pelle e ossa ma non morire”. Sappiamo resistere, anche nella povertà assoluta. Come tutti abbiamo da imparare, ma credo che l’unicità dei napoletani stia anche nella capacità di rialzarsi. Un po’ come ho fatto io».

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