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Cracco in Galleria: elogio dell’imperfezione nella cucina italiana

Cracco in Galleria: elogio dell’imperfezione nella cucina italiana

L’Italia è una Repubblica basata sull’imperfezione, ma non stiamo parlando di politica, bensì di cucina. Parliamo del Dna della cucina italiana, della sua essenza e dei suoi tanti punti in comune, al di là delle sue ricette e delle sue diversità regionali. La cucina italiana infatti è una cucina fatta di gesti, di sapere, di tradizioni tramandate e di gusti. Non di perfezione. Sembra sovversiva, ma è la teoria di Luca Sacchi, storico sous chef di Carlo Cracco, che rivendica l’imperfezione dell’atto di cucinare come essenza della cucina italiana.

Tanta ricerca, ma non verso la perfezione

Coniglio in bianco è il nuovo piatto del menù di Cracco in Galleria ed è stato mostrato in anteprima alla platea del congresso gastronomico Identità Golose 2023. Un piatto che ben esplicita il lavoro fatto attualmente nelle cucine dello chef più famoso d’Italia. È una ricetta casalinga di quelle complesse che richiede molte applicazioni di tecniche tradizionali, dal disosso dell’animale intero alla cottura del torcione da cucina, che vengono eseguite una dopo l’altra, senza scorciatoie e senza tecnologie moderne, ma grazie allo studio della materia prima, dei procedimenti e a tante, tante prove, con l’obiettivo di fare quello che qualunque cuoca a casa avrebbe voluto: una carne tenera, un ripieno saporito, ma non troppo per non coprire la delicatezza del coniglio, un rollè compatto al taglio in modo da non sfaldarsi. Il punto di partenza è una ricetta antica, longobarda, il coniglio arrosto che veniva spennellato e farcito di mascarpone per ammorbidirlo, che si trasforma in un rotolo di coniglio farcito servito con una salsa bianca di latte di mandorla, pinoli e olio di lentisco. Per arrivare al piatto è servito un processo creativo lungo e tortuoso, raccontato da Luca Sacchi, e scandito dai «buono… sì… ma….» del mentore Cracco che con gentilezza spinge la brigata a provare ancora, alla ricerca di un ingrediente o di una nota di sapore che può davvero rendere un piatto speciale. Verso la ricerca della perfezione? No. La cucina è fatta di materie prime vive, sempre diverse. Conigli, verdure o frutta non saranno mai tutti uguali, perché cercare di farli assomigliare a un’idea preconfezionata? Perché lavorare affinché tutti i piatti siano esattamente uno uguale all’altro?

Il significato di made in Italy

«L’Italia è un paese di osti e trattorie», diceva Gualtiero Marchesi con rassegnazione, ma fotografando benissimo la storia della cucina italiana, fatta di cucina casalinga e osterie e molto diversa da quella francese. Oltralpe infatti si sono inventati i ristoranti, la codifica della gastronomia, l’alta pasticceria e l’alta cucina. In Italia la storia ci ha portato altrove, verso una cucina intuitiva, popolare, diversa di casa in casa, basata su un sapere tramandato nei gesti, di madre in figlia. Mentre nelle corti francesi gli chef elaboravano buffet scenografici e scrivevano ricette, noi abbiamo imparato a rendere speciali anche gli ingredienti più poveri e fatto della tavola il centro della socialità nazionale – ossia quello che oggi il mondo chiama made in Italy e che è uno stile di vita e un saper fare, ancor prima del prodotto finito.

«L’imperfezione non è uno sbaglio ma è il prodotto della manualità, delle emozioni, dell’amore e del momento. È un valore che caratterizza e differenzia la cucina italiana», Luca Sacchi

Fissare un patrimonio culturale

Dal tuorlo d’uovo marinato a una cucina di avanguardia tecnica, in questo periodo storico il menù del ristorante Cracco in Galleria è concentrato proprio sul senso della cucina italiana. Non cerca di stupire, non cerca tecniche innovative o futuristiche, ma di elevare i gesti della cucina italiana, perfezionarli. «Quello che cerchiamo di fare», spiega Luca Sacchi, «è fissare un patrimonio, codificarlo in modo che venga tramandato, perché sia da base alle prossime generazioni e a una nuova evoluzione». Sacchi rivendica quindi l’importanza della cucina cucinata che oggi sembra andare così poco di moda. Da Cracco invece si torna a praticare l’atto di cucinare, durante il servizio e non solo prima, per assemblare poi. «A ogni servizio si cucina, espresso come si diceva una volta, si rischia, è tutta prestazione. Prima c’è la creatività, le basi, ma è sul momento che scaturiscono l’energia e l’emotività che arrivano nel piatto. La “cucina espressa” è il far da mangiare, rappresenta un ristorante, definisce una persona che fa il ristoratore. È più difficile» e senza riferimenti a fatti, cose o persone, indica un periodo in cui dominava la cucina di assemblaggio che dà risultati esteticamente ineccepibili, programmabili, liberi dall’imprevisto. Ma privi dell’emotività del momento .

Contro la perfezione estetica

La perfezione non va più di moda. Non è un valore estetico, individuale e sociale. Essere perfetti, quindi perfettamente aderenti a un canone di bellezza è decisamente lontano dal pensiero contemporaneo che promuove invece l’inclusività e la body positivity. E anche in cucina qualcosa sta cambiando. «L’imperfezione non è uno sbaglio ma è figlia della nostra cucina, della manualità, delle emozioni, dell’amore e del momento. È un valore che ci caratterizza e ci differenzia, e che dobbiamo difendere», mi spiega Luca che alla ristorazione fatta di menù imposti e preparazioni precedenti, solo da assemblare alla ricerca della perfezione, preferisce invece l’imprevisto della richiesta del cliente, del fuori menù, della prestazione del momento, fatta per quel cliente, unica e irripetibile. Che rischia, dove la sfida è fare bene ogni giorno, andando contro gli imprevisti per fare bene. Perché l’imperfezione è una cosa, l’errore è un’altra.

Da Cracco a Cipriani, lo stile a tavola inizia dalla mise en place

La Cucina Italiana

Se “il diavolo è nei dettagli”, come diceva il grande architetto Ludwig Mies van der Rohe, un’apparecchiatura impeccabile può cambiare la nostra percezione dello stare a tavola. Lo sanno bene i grandi cuochi che vestono quelle dei loro ristoranti con veri e propri capolavori sartoriali, spesso commissionati appositamente. Dietro queste mise en place esclusive, in ben 90 Pesi al mondo c’è una storica azienda familiare italiana, Rivolta Carmignani, oggi alla sesta generazione. Una storia che parte da da Macherio, a pochi chilometri da Milano, nel 1867, e prosegue fino ad oggi, come ci racconta Matteo Rivolta, Art Director dell’Azienda. Tra i loro clienti molti grandi cuochi ma anche molte famiglie italiane che ancora oggi si fanno realizzare corredi personalizzati. 

Come si apparecchia una tavola perfetta, partendo dalla tovaglia?
«Distinguerei tra la tovaglia di tutti i giorni e quella per gli ospiti e le situazioni celebrative, come Natale e Pasqua. Quella quotidiana può essere resa bellissima  anche solo da dei sottopiatti di stoffa, magari coordinati ai tovaglioli da un piccolo ricamo, un orlo colorato. Quella formale segue certe regole: deve essere perfettamente stirata ad esempio, lunga il giusto e, se preziosa abbinata a piatti altrettanto preziosi».

A cena da Carlo al Naviglio, il nuovo bistrot di Carlo Cracco

A cena da Carlo al Naviglio, il nuovo bistrot di Carlo Cracco

La prima cena fuori dopo mesi di lockdown dev’essere speciale. La nostra Laura Magnago della Scuola de La Cucina Italiana racconta la sua esperienza culinaria al nuovo bistrot di Chef Cracco, appena aperto a Milano.

Come amante della buona ristorazione, non vedevo l’ora di tornare ad andare fuori a cena. Pronta la lista delle nuove aperture da testare, ho provato una delle ultimissime sulla piazza milanese: Carlo al Naviglio.

Lo spazio è curato ma informale, perfetto per godere al meglio della stagione in totale tranquillità. Grazie al dehors e al giardino, il ristorante è in grado di ospitare 80 coperti all’aperto nel pieno rispetto delle norme sanitarie. Non mancano però salette più riservate, per chi preferisse qualcosa di più intimo, e ampie sale per eventi per chi come noi già immagina di organizzare innumerevoli aperitivi in compagnia per provare l’intrigante e inedita drink list.

Ho scelto di provare il menù degustazione da quattro portate (65 euro, bevande escluse) che è in carta accanto ad uno da sei (85 euro). Oltre a questi, la carta potrebbe sembrare limitata (tre piatti per ogni portata) ma si sposa alla perfezione con l’anima del bistrot: più accessibile, contemporanea e sempre attenta alla stagionalità. A mio giudizio è ben studiata e comunque capace di regalare spunti interessanti. Sulla scia del menù, la cantina non è estesa, ma alla portata di tutti e conta una ventina di referenze tra bollicine, bianchi e rossi.

Quello che noto immediatamente è che tutti i piatti, inclusi gli stuzzichini di benvenuto, sono realizzati con ingredienti selezionati con cura e trattati con tecnica impeccabile. La degustazione mi ha consentito di provare 4 dei 12 piatti in carta, ma prima di parlare dei piatti principali vorrei soffermarmi su una delle entrée, la Focaccia all’acqua di patate con Prosciutto di Parma 36 mesi. Solo a leggere la descrizione, chiunque avrebbe già l’acquolina. Avete mai provato il prosciutto ammorbidito in olio? Forse no, e quando si assaggia poi se ne vorrebbe mangiare una teglia intera! 

Ma veniamo al dunque, il menù. Uovo o provola? ossia l’antipasto, perché l’uovo non poteva certo mancare trattandosi di in uno dei ristoranti di Carlo Cracco, e questo era davvero ottimo! Un uovo trattato con la tecnica di “affumicazione” della provola su crema di cannellini accompagnato da patate, cipolla rossa di Tropea, taccole e insalata osmotizzata. Pazzesco.

Come primo piatto, ho assaggiato i Manfredi tonno, caglio e papaccelle. Caglio e tonno delicati al palato per lasciar spazio alle caratteristiche note dolci del peperone. Pazzesco, ancora.

Un consiglio: cercate di trattenervi dal finire l’ottimo pane ai semi di lino lievitato 60 ore (magari con l’olio di cui sopra) prima del primo, altrimenti vi sentirete già pieni! Ma il campo di battaglia non si abbandona per cui ho proseguito con la Pancetta di maialino, asparagi e fragoline: viene cotta a bassa temperatura per non far irrancidire il grasso, potendola servire croccante e morbida al punto giusto, promossa. A chiudere in bellezza, il dolce, Banana, caramello e arachidi che per capirci meglio era composto da una base di morbido pan di spagna, gelato alla banana, croccanti arachidi glassati e una leggerissima spuma di mou, equilibrio perfetto senza eccedere con gli zuccheri. Pazzesco, l’ho già detto?

Un percorso da poco più di un’ora e mezza, accompagnato dalla gentile presenza di Enrico Ottaviano, in sala, che ha saputo coinvolgere con informale cura durante il percorso. Altra nota non trascurabile è stata l’atmosfera, una vera coccola regalata dalle rilassanti note del jazz di sottofondo (forse ispirato dalla vicinanza storica del jazz club Capolinea) e dalla mise en place dal gusto retrò, perfetta per uno scatto da veri instagrammers.

Sicuramente è stato tutto un po’ ovattato dall’emozione di ritrovarsi seduti a cena, al tavolo di un ristorante, dopo mesi di pentole e delivery ma da Carlo al Naviglio si sta un gran bene. Posso confidarvi un segreto? Ho teso l’orecchio durante gli ordini dei vicini commensali per spiare i loro ordini, segnandomi i piatti da assaggiare per la prossima volta! Certamente è il posto da mettere in lista per la prossima cena all’aperto, e poi c’è un altro dettaglio da non trascurare. Il ristorante si affaccia sul Naviglio Grande, nella parte del naviglio meno caotica restando facilmente raggiungibile senza la scusa del “non troverò parcheggio”. Dotato di un posteggio dedicato risolverà alla perfezione il problema lasciandovi un unico gustoso cruccio: la scelta dei piatti da ordinare.

Dove: Via Lodovico Il Moro 117, Milano
Quando: Lun – dom per pranzo, cena e aperitivo. 

Testo spontaneo e foto di Laura Magnago

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