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Cuore di pasta: l’Italia raccontata in Cile

Cuore di pasta: l'Italia raccontata in Cile

Come si ritrova in Cile un giovane cuoco di origine milanese? Semplice, per amore. È stato seguendo la moglie Paola, ricercatrice di matematica pura, che è arrivato in questa fetta di Sud America lunga e stretta (oltre 4000 chilometri da nord a sud), nel 2014, lui, classe 1985, una formazione da cuoco autodidatta, in un Paese totalmente digiuno di sapori italiani.

Nicolò Giacometti con il figlio Filippo mentre prepara i garganelli a mano

«Parmigiano e mozzarella erano un miraggio: li facevo spedire dall’Italia, il mascarpone lo producevo da me». Nicolò Giacometti ha archiviato subito l’idea di lavorare in qualche ristorante e ha scelto invece di divulgare il meglio della nostra tradizione  regionale. È nata così la sua impresa gastronomica La buona forchetta, corsi di cucina, chef a domicilio, banqueting e catering a spasso per tutto il Paese.

Garganelli con ragù di prosciutto

«Avevo voglia di raccontare l’Italia oltre la pizza e le lasagne: insegno a preparare i mondeghili lombardi e i culurgiones sardi, i tortelli di zucca e la pasta alla gricia, la mia preferita. La prima volta che i cileni la assaggiano rimangono perplessi. «E il sugo dov’è?», mi chiedono. Però poi apprezzano il guanciale e il pecorino e molti non mettono più il formaggio cheddar sulla pizza. Mascarpone e parmigiano si trovano in quasi tutti i supermercati», confida con orgoglio.

Capesante gratinate

In Cile, racconta, dopo un duro lockdown, ora è estate, i locali sono in gran parte aperti e si gustano ricci e mitili, grande orgoglio locale, esportati in tutto il mondo insieme a mirtilli, kiwi e ciliegie. «Il livello e il numero dei ristoranti che fanno cucina italiana si è notevolmente alzato e sono comparse buone pizzerie. Il sogno? Tornare a viaggiare. E un ristorante tutto mio».

L’Italia siamo noi: il nuovo numero di Vanity Fair a sostegno delle imprese italiane

In edicola da domani, 8 aprile, il terzo atto nella trilogia di Vanity Fair dedicata all’emergenza Covid-19: nel primo un messaggio da Milano all’Italia e al mondo; nel secondo una celebrazione degli “eroi” impegnati in prima linea in questa lotta globale; in quest’ultimo un manifesto a sostegno delle imprese italiane, con le visioni su cosa servirebbe per superare la crisi causata dal virus e gli interrogativi sui mercati di domani.

La copertina è un’opera creata in esclusiva per Vanity Fair dall’artista Francesco Vezzoli, in omaggio a Lucio Fontana: ritrae una tela tricolore con un taglio che rappresenta una ferita ma anche uno spiraglio. L’opera verrà messa all’asta e il ricavato sarà devoluto in beneficenza a sostegno delle imprese.

Il titolo scelto è #L’Italiasiamonoi, hashtag che vuole celebrare quell’unità e quella creatività italiane che hanno da sempre permesso a questo paese di trarre il meglio dalle peggiori situazioni che ha storicamente dovuto affrontare.

 

All’interno del numero, invece, Vanity Fair ha chiamato all’appello la voce autorevole di Premi Nobel, filosofi, amministratori delegati, presidenti delle filiere italiane più importanti insieme a poeti, artisti e designer per interrogarsi sul mondo che ci aspetta dopo il virus e su come affrontare l’emergenza economica che segue quella sanitaria.

Tra i tanti i personaggi: il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz che descrive la sua nuova visione dello stato nel mercato globale post virus; l’economista ed ex ministro Enrico Giovannini che analizza la situazione economica italiana; il filosofo Silvano Petrosino che parla del nuovo senso del tempo; i designer Mariagrazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli che scrivono due lettere di riflessione sullo stato e sul futuro della moda; l’esperta Li Edelkoort che descrive le tendenze a venire nella creazione e produzione di beni; il Presidente del Salone del Mobile, Claudio Luti, che parla direttamente al Governo; il regista Luca Guadagnino che analizza il mondo del cinema e il futuro dell’intrattenimento; il cantautore Tommaso Paradiso che scrive dell’importanza di conoscere il passato per comprendere il domani.

Nel numero speciale, ci sono anche interviste a personaggi chiave nel mondo dell’automobilismo, dell’hotellerie, del food, del beauty e delle tecnologie per capire come gli investimenti nel digitale potranno essere, tra gli altri fattori, la chiave per il futuro.

Il dado Knorr lascia l’Italia

Il dado Knorr lascia l’Italia

La multinazionale Unilever, proprietaria del marchio storico, sposterà la produzione, che da 54 anni è nello stabilimento di Sanguinetto, in Portogallo: ha aperto la procedura di licenziamento di 76 dipendenti

Il dado Knorr, utilizzato per decenni dalle famiglie per la preparazione del brodo e per insaporire le pietanze, lascia l’Italia. La multinazionale olandese Unilever, dal 2000 proprietaria del marchio storico, ha annunciato lo spostamento dalla produzione in Portogallo e, quindi, l’apertura della procedura di licenziamento collettivo di 76 dipendenti dello storico stabilimento di Sanguinetto, in provincia di Verona. I lavoratori stanno scioperando da questa mattina davanti all’impianto, dove lavorano in tutto 161 persone e si producono anche confetture e risotti. La razionalizzazione, però, riguarda solo l’area dello stabilimento dedicata ai dadi da brodo tradizionali e non quella riservata alle altre produzioni alimentari.

Solo un anno fa Unilever Manifacturing Italia aveva chiuso una vertenza per 28 esuberi. I sindacati Cisl, Cgil e Uil accusano la politica industriale della multinazionale che «nonostante la riorganizzazione dello scorso anno e il forte aumento dei carichi di lavoro, ha deciso senza alcun preavviso la delocalizzazione in Portogallo della produzione del dado Knorr e il licenziamento di 76 persone».

Ma il motivo alla base della decisione di bloccare la produzione in uno stabilimento che funzionava da ormai 54 anni è chiaro: il dado tradizionale non fa più gola, come ha spiegato da Gianfranco Chimirri, direttore comunicazione di Unilever Italia. In Portogallo, il costo del lavoro è inferiore: la delocalizzazione sarebbe l’unica possibile risposta alle «rilevanti difficoltà riscontrate a livello europeo e italiano nel settore dei dadi da brodo tradizionali, che hanno portato ad una diminuzione del fatturato di più del 10% in due anni, e dall’esigenza di rispondere alle mutate esigenze del mercato».

L’intervento, secondo la multinazionale, è necessario per garantire la sostenibilità futura dello stabilimento, tutelare le altre produzioni e mettere il sito nelle condizioni di poter cogliere eventuali opportunità. «Sanguinetto mantiene delle importanti carte da giocare», fa sapere Unilever, «come la produzione dei dadi in gel, di cui è unico produttore al mondo, che si aggiunge alle produzioni di risotteria, brodo granulare e marmellate. Nel lungo termine la strategia del sito sarà quella di spingere verso una ulteriore diversificazione del portafoglio verso prodotti food più in linea con i trend di mercato e verso un legame sempre più stretto con il mercato italiano».

 

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