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Caffè: etimologia e storia della magica bevanda

La Cucina Italiana

La parola caffè deriva dal turco qahve che a sua volta proviene dall’arabo qahwa. Quest’ultima in origine significava «vino» o in genere «bevanda eccitante» finché, verso la fine del XIV secolo, fu estesa anche alla preparazione ottenuta con i chicchi del caffè. La bevanda, realizzata quasi esclusivamente sotto forma di infuso secondo la tradizione araba, sarebbe stata introdotta nello Yemen verso la fine del Trecento da un santo della città di Mokha e utilizzata per prolungare le veglie di preghiera dei mistici sufi. Si diffuse poi in Turchia, in altre regioni asiatiche e nell’Africa settentrionale, finché nel XVI e XVII secolo furono i veneziani a introdurla in Occidente; allora si prendeva, come in Oriente, senza zucchero.

Caffè: il bene per l’intelletto

Le prime attestazioni della parola caffè in italiano sono documentate tra Cinquecento e Seicento: col significato di «pianta arbustiva tropicale e seme di questa pianta» il sostantivo caffè viene già usato nella Relazione degli ambasciatori veneti al Senato di Morosini, nel 1585 («un’acqua negra bollente quanto possono sofferire, che si cava d’una semente che chiaman cavèe»), mentre col significato di «bevanda aromatica che si ricava per infuso dalla polvere dei chicchi di caffè tostati e macinati» la prima attestazione registrata dai vocabolari è del 1666, nelle Lettere di Francesco Redi: «Se vi fosse costì in Livorno qualche ebreo, il quale avesse veramente notizia di che sorte sia la pianta che produce il caffè, prego V. S. ad interrogarnelo».

La diffusione in Italia è inarrestabile, tanto che nell’Ottocento la parola caffèormai ampiamente attestata nei testi di cucina, come si può notare dalla documentazione offerta dall’Atlante della lingua e dei testi della cultura gastronomica italiana dall’età medievale all’Unità (AtLiTeG). Tra i più entusiasti sostenitori del caffè troviamo anche Pellegrino Artusi: nella sua Scienza in cucina ricorda che «questa preziosa bibita che diffonde per tutto il corpo un giocondo eccitamento, fu chiamata la bevanda intellettuale, l’amica dei letterati, degli scienziati e dei poeti perché, scuotendo i nervi, rischiara le idee, fa l’immaginazione più viva e più rapido il pensiero».

Galassia caffeina

Caffè è oggi una delle parole italiane più diffuse nel mondo e rappresenta il punto centrale di una costellazione di voci a esso collegate: caffè espresso (che indica il caffè preparato sul momento con una speciale macchina elettrica a pressione), caffellatte (che nasce dall’unione del caffè col latte) e cappuccino, bevanda calda a base di caffè e latte reso schiumoso dal vapore prodotto dalla macchina del caffè espresso. La sua straordinaria diffusione ha dato vita anche alla creazione di «pseudoitalianismi», cioè parole inesistenti in italiano e create all’estero per associare al prodotto il prestigio dell’italianità: si pensi agli ormai celebri frappuccino e mokaccino.

Sicilia: alla Rocca delle Tre Contrade, la magica cucina di Dora

Sicilia: alla Rocca delle Tre Contrade, la magica cucina di Dora

Ha l’entusiasmo di una bambina la signora Isidora Maugeri, detta Dora, cuoca siciliana di Rocca delle Tre Contrade, magnifica villa-relais di dodici camere a Santa Venerina, nel Catanese. La dimora domina, dalla sua collina, la costa orientale della Sicilia. Dalla Rocca delle Tre Contrade la vista spazia dal mar Ionio alle fertili pendici dell’Etna. C’è una piscina a sfioro lunga 25 metri con vista mozzafiato su agrumeti e natura selvaggia, resa tale dal nero terreno lavico. Ma la vera attrazione è lei, Dora, classe 1953, nata a Giarre, che crea i menù per chi soggiorna in questa ex tenuta nobiliare dai fasti mai dimenticati. E sempre lei introduce gli ospiti, spesso internazionali, alle delizie della cucina autentica siciliana, quella di casa, tramandata da generazioni.

Qui gli ingredienti si dosano «con le mani e con l’esperienza», racconta, e cambiano «come le nuvole», perché «le galline non fanno sempre le stesse uova, dipende da che cosa mangiano. E così la farina non sarà mai uguale a se stessa, come le verdure del nostro orto e la frutta del nostro frutteto». Proprio quelle che arrivano, arrostite, sulla tavola imbandita sotto le volte secolari, splendidamente arredate dai padroni di casa, lo scandinavo Jon Moslet e l’italiano Marco Scirè, che hanno contribuito, con le proprie tradizioni, al ricettario della villa. Il menù, stagionale, racconta prima di tutto di questa signora che ha appreso i segreti della cucina dalla madre, «una donna intelligentissima e con il senso per gli affari, rimasta vedova con sei figli ed emigrata in Australia quando io avevo otto anni. A Giarre, al ritorno dall’Australia, aveva aperto un rinomato ristorante in cui lavorai fino ai 35 anni, apprendendone ogni segreto. Ma fu mia nonna», prosegue Dora, «con cui ho vissuto dai tre mesi, a insegnarmi molte cose; mia madre ritornò dall’Australia quando io avevo già diciassette anni».

Ecco i manicaretti tratti dal ricettario di famiglia di Dora, ciascuno con un abbinamento che lo rende speciale. Come le salsicce al Marsala e arancia, che «vanno a braccetto con la stagione invernale e si cucinano fino a marzo. Sono un piatto dal sapore cangiante: il Marsala esalta e stempera la sapidità delle salsicce. Gli agrumi rendono i sapori sontuosi». Gli arancini qui sono piccoli come il palmo della mano di Dora e gustosissimi, «merito del riso, cotto a poco a poco, col brodo buono». Infine i cannoli, anche questi di dimensioni minute, irresistibili: «La pasta è resa croccante dallo strutto e dall’aceto. Vanno farciti rigorosamente con la ricotta di pecora». Nel mix di ortaggi e pesce «tra mare e montagna» c’è invece il tocco di Marco Scirè, che scambia con Dora pareri e memorie e ha suggerito di aggiungere i gamberi a questa insalata tiepida e opulenta, dove la carnosità dei porcini e dei calamari si confondono. Un’armonia di opposti che qui abbraccia ogni cosa.

Ricerche frequenti:

Enrico Crippa e la “pentola magica”

Enrico Crippa e la “pentola magica”

Esperienza unica dal 20 al 26 agosto a Piazza Duomo, Alba: lo chef pluristellato ha creato un menù ad hoc con un contenitore davvero speciale venuto dall’Oriente, ANAORI Kakugama. Intervista

Dal 20 al 26 agosto Enrico Crippa del ristorante Piazza Duomo ad Alba propone un menù limited edition concepito per dimostrare la versatilità di una nuova pentola realizzata in grafite di carbonio, ANAORI Kakugama. Uno strumento di cottura davvero unico, con il quale lo chef si è confrontato, realizzando tre ricette nelle quali la tradizione e i prodotti piemontesi dialogano a stretto contatto con la tradizione culinaria asiatica.

La pentola “magica”

La pentola Kakugama, realizzata in due diversi formati, è un prodotto realizzato con un materiale di origine minerale con proprietà che ogni grande chef e appassionato di cucina trova irresistibili: la resistenza all’usura, al calore e agli acidi, un’ottima conduttività termica ed elettrica. La pentola inoltre è accessoriata con un pregiato coperchio realizzato con essenza di cipresso hinoki. Il contenitore unisce così la massima performance culinaria (si può impiegare sulla griglia, per cuocere a fuoco lento, bollire, friggere e cuocere a vapore e al forno) a un design innovativo. Mentre il suo coperchio contribuisce a trattenere l’aroma umami e può essere utilizzato come superficie per la cottura.

Enrico Crippa ai fornelli con ANAORI Kakugama

L’intervista con Enrico Crippa

Si parla tanto di cucina con prodotti del territorio, ingredienti a chilometro zero, ma a me sembra che la grande cucina, un po’ come la musica, la grande musica, in realtà sia più concepita come un viaggio nel tempo e nello spazio. Nel tempo ritroviamo i richiami ad antiche tradizioni, nello spazio contaminazioni tra diverse culture gastronomiche. Concorda con la mia riflessione?

«In generale credo che le contaminazioni di cui parla siano il risultato di due percorsi: quella della storia dei luoghi e dei territori, fatti di popoli e tradizioni che nel tempo hanno influito necessariamente anche sui prodotti e sulla cucina, espressione delle esperienze comuni. Basti pensare al Piemonte, ma come a tutte le regioni italiane, che racconta bene i suoi secoli di storia, le sue vicende anche attraverso la sua tradizione culinaria. Dall’altra parte c’è il percorso individuale, il proprio viaggio nelle cucine del mondo per trovare la propria identità con gli ingredienti a disposizione, senza snaturarli, ma reinventandoli. Credo che la grande cucina in questo caso abbia a che fare con il concetto di armonia, esattamente come per la musica, trovare un buon equilibrio tra il rispetto dei luoghi e dei prodotti e la propria storia».

Per il lancio di questo speciale strumento di cottura Anaori ha coinvolto oltre a Crippa altri 23 grandi chef nel mondo nel Naturality Tour, unendo tradizioni culinarie di diversi Paesi in una sorta di confronto culturale gastronomico, mai visto e, soprattutto, gustato prima. Dal 20 al 26 agosto proporrà in abbinamento ai nuovi piatti vino e sakè. Ci può anticipare qualcosa a questo riguardo?

«Il coinvolgimento in questo progetto e nel Naturality Tour ci permetterà di far conoscere questo magnifico strumento alla nostra clientela, credo non ci sia modo migliore che proporre questi piatti durante la settimana che abbiamo voluto dedicargli».

La tavolozza dello chef

Riguardo ai tre piatti che ha concepito con ANAORI Kakugama. Quali sono state le sue fonti d’ispirazione?

«Sono partito dalle caratteristiche della pentola, un unico strumento che permette diversi tipi di cottura è un’innovazione interessante e fantasiosa, e poi da lì ho proposto dei piatti che potessero ben sintetizzare il suo utilizzo anche nella mia cucina. Ho preparato un ramen di ceci, un’insalata vignaiola (con il bollito) e la minestra di frutta e verdura. Il ramen è un omaggio all’origine della pentola, realizzato con prodotti del nostro paese; l’Insalata Vignaiola è un’insalata pensata per il recupero del bollito che veniva preparato la domenica e quando avanzava veniva conciato con la salsa verde per poi portarlo il giorno seguente come pasto per il lavoro nei vigneti; qui viene arricchito da noci, nocciole, raschera e mele. La minestra di frutta e verdura, infine, è uno dei miei dessert storici ed è stato bello poterlo rinnovare utilizzando la pentola Kakugama di Anaori».

Ho letto che le piace girare in bicicletta e scoprire ristoranti dove ai fornelli ci sono soprattutto donne. Ma nel mondo, e mi riferisco all’alta cucina internazionale, prevalgono chef uomini. Eppure molti di loro affermano “mi sono innamorato della cucina e ho imparato i rudimenti da mia nonna e da mia mamma”. So che lei da sua madre ha imparato a disegnare…

«La mia passione per la cucina è di famiglia, ma ereditata da mio nonno, la spesa con lui al mercato è stata la mia prima scuola per imparare a riconoscere ingredienti, le varietà, le differenze. Mia madre l’ha resa speciale trasmettendomi il senso del colore, che si ritrova nei miei piatti, spesso prima disegnati e immaginati e poi resi grafici anche nei menù disegnati da me. Ad ogni modo una componente affettiva è un elemento necessario per riuscire a trasmettere la propria visione, la propria voglia di cucinare per gli altri e raccontare un pezzo di sé».
 
Tre cose fondamentali e irrinunciabili in un ristorante, anche se si trattasse di una semplice trattoria.

«L’attenzione ai propri clienti, che spesso è fatta di gesti semplici, prodotti genuini e piacere dell’accoglienza».

Come vede il futuro dell’alta cucina? Pandemia a parte, quali sono le nuove strade da intraprendere, se ritiene che ce ne siano? Alain Ducasse parla di continua “re-evolution”. Qual è il suo pensiero a questo riguardo?

«Credo che mai come in questo momento sia importante scegliere una cucina altamente identitaria, coraggiosa, senza inseguire i trend e voglie passeggere, per riuscire a offrire esperienze uniche, capaci di raccontare una storia ogni volta rinnovata».

L’aspetto più bello del suo mestiere?

«La felicità negli occhi dei miei clienti, averli accolti nel mio mondo».

Quello più faticoso o meno bello?

«Non ho ancora trovato, dopo tanti anni, un aspetto meno bello del mio lavoro. Posso parlare invece dell’incertezza degli ultimi due anni che ci ha tenuto chiusi nostro malgrado, senza avere la possibilità del contatto quotidiano con gli ospiti che è vera e propria linfa vitale».

Che cosa le fa venire in mente, a caldo, la parola “Bellezza”?

«Mi sono formato da Marchesi e per lui la bellezza consisteva nell’armonia tra il bello e il buono, perché è sempre meglio togliere che aggiungere. Questa ricerca di equilibrio l’ho fatta mia in una sintesi tra materie prime, forma e colore, privilegiando, tuttavia, gli ingredienti perché la mia è una cucina legata prima di tutto al prodotto, è concreta e naturale, non concettuale».

Sfoglia la photo gallery per vedere gli incredibili piatti realizzati da chef Enrico Crippa con Anaori Kakugama

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