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cosa si mangia nella città lombarda | La Cucina Italiana

cosa si mangia nella città lombarda
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Nel 2023 Brescia divide con Bergamo il titolo di Capitale italiana della Cultura, un riconoscimento congiunto per le due città unite dal tragico destino di epicentro della pandemia nel 2020. Noi però scegliamo di dedicarle un palcoscenico tutto suo, decisamente meritato: la scena gastronomica bresciana con molte nuove aperture interessanti, di stile disparato dove, sorpresa, non manca l’avanguardia pura.

Pizzaiolo Fumantino e gentiluomo

Una dozzina di anni fa Sirani fu l’antesignano di tendenze che si sarebbero poi consolidate. Il locale di Bagnolo Mella, vicino al lago di Garda, fu tra i primi in Italia a proporre le pizze gourmet con ingredienti come caviale e gamberi rossi, una tendenza che sarebbe stata bollata come poco democratica, ma che ha contribuito a conferire dignità di grande piatto alla pizza. Lo chef e proprietario, il talentoso e fumantino Nerio Beghi, fu allora protagonista di polemiche amplificate dai primi blog gastronomici per le sue prese di posizione molto nette: sempre irritato dalla maleducazione dei clienti, per un periodo nel locale furono vietati – ecumenicamente – sia cani, sia bambini. A dicembre 2022 Sirani ha lasciato la provincia per trasferirsi in città, in un ampio edificio dai soffitti altissimi. Le vetrinette con in bella mostra gli eccezionali prodotti della pasticceria – frittelle di mela, bignè alla crema, cannoli siciliani – formano un quadrilatero all’interno del quale si trova uno dei laboratori di cucina. Questa è la postazione preferita di Beghi: da qui vessa il cliente sgarbato e vizia con assaggi e attenzioni quello cortese. «Tratto ciascuno come un re» dice, lasciando intuire come il suo proverbiale cattivo carattere sia una conseguenza del troppo amore per la sua arte. Come spiega Nicola Falappi di Studio 40, che ha curato il design degli interni, «in questo quadrato Nerio sta come un pugile sul ring, pronto a un combattimento. Ma quando estende il braccio, invece di assestare un gancio, porge un cannoncino alla crema».

Ritorno in patria

Sempre di Studio 40 è il progetto di Veleno, situato all’interno di un palazzo storico del Settecento di fresca ristrutturazione secondo un accattivante stile massimalista – ai soffitti affrescati e alle porte istoriate si sono aggiunti tappeti animalier, rivestimenti murari in seta color rosso e oro e perfino una coppia di tigri di ceramica. Dopo una falsa partenza nel 2019, Veleno è stato acquisito dal Favalli Group, potenza dell’hospitality gardesana. Da qualche mese in cucina c’è Fabrizio Albini, chef bresciano di origine eppure al debutto in città dopo lungo peregrinare in destinazioni favolose, dall’Hotel Cristallo di Cortina allo yacht di Giorgio Armani. Albini propone un menù in astuto equilibrio tra la vocazione territoriale – pesce di lago, erbe e formaggi di montagna – e la necessità di non scontentare una clientela di viveur che si contende i suoi plateau di mare con scampi e granchi dell’Adriatico.

Le caprette ti fanno ciao!

Antonio D’Angelo aveva bisogno di un po’ di tranquillità. Lo chef del celebre Nobu Milano l’ha trovata in questo orto biologico che ha creato a Castel Mella; l’ha chiamato L’Orto di Mimì, come suo padre. Grazie all’aiuto dell’amico Andrea Tessadrelli, tecnologo alimentare, quest’anno raccoglierà il primo wasabi d’Italia. Questa pianta ha bisogno di un microclima perfetto e di acqua corrente a temperatura controllata, perciò i tentativi di coltivarla fuori del nativo Giappone si dimostrano molto complessi. Ogni sera, alla fine del servizio, D’Angelo lascia via Manzoni a Milano e torna a dormire nella sua casa di campagna, «così al mattino prestissimo posso passare a prendere le verdure e a salutare gli animali», tutti da compagnia e nessuno da lavoro: una mucca sottratta al macello, caprette tibetane, alpaca e tre cervi timidi arrivati da poco, «un regalo del capo», cioè il comproprietario del Nobu, Giorgio Armani (ancora lui!).

La città prende, la campagna dona. Per D’Angelo sono le energie, ma a Brescia come altrove storicamente sono i frutti della terra. Il quartiere di Borgo Trento – lo suggerisce il nome – stava sulla strada per i monti ed era luogo di incontro e scambio tra chi saliva e chi scendeva: i primi portando verso nord i prodotti della pianura – farine e granaglie – e i secondi recando a valle i formaggi d’alpeggio. Proprio qui nel 1875 fu emessa la prima licenza per il commercio di cibi e bevande della città di Brescia, all’attività che oggi è la Trattoria Porteri, ormai arrivata alla quinta generazione. «E io spero che mia figlia e i miei nipoti diventino la sesta», dice il cuoco Marco, che la gestisce insieme alla sorella Francesca, in sala. La cucina è quella del territorio con malfatti, minestra sporca (con i fegatini), pesce di lago, baccalà alla bresciana, in umido con polenta. La mentalità antispreco non è un approccio nuovo, ma viene da secoli di gestione oculata: nei casoncelli ripieni di culatello di Zibello finisce l’ultimo pezzetto del salume venduto nella gastronomia.

Mai provato a zappare il mare?

Philippe Léveillé è lo chef del Miramonti L’Altro a Concesio, fuori città, eppure senza dubbio il grande ristorante di Brescia. Di origine bretone, Léveillé è figlio di un ostricaio; nella loro casa di Cancale arrivavano gli chef delle grandi città di Francia, instillando nel piccolo Philippe una reverenza per quelle belle casacche bianche «che mi sembravano uniformi da supereroe», scherza. L’ostricaio è un lavoro ancora più faticoso di quello dell’agricoltore, come zappare nell’acqua gelida dell’oceano. Per Léveillé, il ristorante divenne il luogo dove l’ingrediente viene sublimato, dove scompare la fatica e dell’ingrediente resta solo la gioia. A sessant’anni d’età e quarantacinque di lavoro, a guidarlo è solo un principio di piacere: «Gli ospiti devono godere». Con i ragazzi della cucina, il percorso è inverso. Non vuole che maneggino il caviale senza essere stati prima dal suo fornitore Agroittica Lombarda, a pochi chilometri di distanza: «Devono capire cosa significa allevare uno storione per dodici anni prima che le uova arrivino a maturazione».

Fermento in cucina

Nei primi anni di apertura di La Madia a Brione, Michele Valotti faceva una cucina semplice e materica, libera da schemi. Quasi una trattoria, non tanto per i piatti del territorio («Non mi piace la standardizzazione, nemmeno quando è applicata alla tradizione, perché la materia prima è sempre mutevole», dice), piuttosto per la ricerca di piatti tipici scomparsi, come lo strachì parat camuno con cipolle stufate, salvia e formaggio. Dal 2006 Valotti comincia a studiare le fermentazioni. Prima le lattofermentazioni delle verdure in salamoia, tradizione italiana; poi guarda altrove, alle fermentazioni enzimatiche dell’aspergillus, il fungo microscopico che dà ai giapponesi sakè, salsa di soia e miso. Oggi, in un laboratorio dedicato, Valotti realizza shoyu di fagioli antichi; kombucha, garum e verdure fermentate; miso di farro, ceci, riso e persino caffè. Questi ingredienti diventano gli elementi distintivi di piatti al contempo esotici e territoriali, familiari e misteriosi, radunati in menù degustazione che cambiano spesso. A evocare l’antica natura di trattoria sono rimasti i prezzi, estremamente contenuti per il livello gastronomico dell’esperienza: il menù lungo, di dieci portate, costa cinquantacinque euro. «Per me sono già troppi», dice Valotti stringendosi nelle spalle. «Non mi piace far pagare la gente». Anche questa è Brescia.

Indirizzi

Sirani, selfschemasirani.it
Lanzani Bottega & Bistrot, gastronomialanzani.it
Laboratorio Lanzani, laboratoriolanzani.it
Miramonti L’Altro, miramontilaltro.it
Dina, dinaristorante.com
Veleno, velenobrescia.it
Areadocks, areadocks.it
Trattoria Porteri, trattoriaporteri.it
L’Orto di Mimì, @lorto_di_mimi
Trattoria La Madia, trattorialamadia.it

Testo Sara Porro

Cosa si mangia il Primo Maggio: ricette e piatti regionali

Cosa si mangia il Primo Maggio: ricette e piatti regionali

Cosa si mangia per il Primo Maggio, ovvero la Festa del Lavoro? Se si è fortunati con il clima, può essere un’ottima occasione per un picnic all’aria aperta o una grigliata in giardino. Altrimenti, focacce, torte salate e piatti sfiziosi potranno essere consumati in compagnia dei cari anche sul balcone o in salotto, l’importante è stare insieme!

Ricordiamo che la Festa dei Lavoratori è piuttosto recente, arriva in Italia nel 1891 e viene onorata ancora oggi con grande fervore e trasporto. La principale manifestazione dedicata al Primo Maggio si svolge a Roma in piazza San Giovanni con il Concertone, un grande concerto di diversi artisti italiani che suonano per tutti dal pomeriggio fino a notte inoltrata. Dal lato religioso, invece, si lega alla figura di San Giuseppe Lavoratore e ci sono regioni che custodiscono ancora oggi tradizioni antiche legate alla vita di campagna e all’arrivo della primavera.

Abbiamo pensato di darvi un piccolo assaggio regionale e poi di mettere insieme una selezione di ricette ispirate agli ingredienti di stagione e alle tradizioni regionali, per un saporito mix di passato, presente e futuro – perché la cucina italiana è vita, tutti i giorni.

Piatti tipici del Primo Maggio

Virtù Teramane / Abruzzo

Un piatto tradizionale dalla ricetta veramente complessa per via della lunga lista di ingredienti – dai legumi secchi alle verdure fresche, dalle spezie agli odori, dalla pasta all’uovo alla pasta secca fino alla cotenna di maiale. In pratica, una ricetta antispreco, in cui tutto quello che è in dispensa può andare bene – un grande classico della nostra cultura gastronomica, da sempre attenta agli sprechi. Come per ogni piatto della tradizione, ogni famiglia ha la sua ricetta. Noi vi proponiamo di leggere quella della nostra Giorgia Di Sabatino, tratta dal suo libro Semplicemente buono, che ce l’ha regalata per festeggiare insieme: Virtù teramane.

Su filindeu / Sardegna

Secondo la tradizione religiosa, i pellegrini raggiungono a piedi il Santuario di San Francesco di Lula in provincia di Nuoro nella notte del primo maggio. A rifocillare i fedeli si usava servire una minestra calda fatta di brodo di pecora e un un tipo di pasta molto speciale. Si chiama su filindeu, letteralmente i fili di Dio dal dialetto, e si tratta di una pasta di semola di grano duro e acqua tirata in fili sottilissimi e fatti essicare al sole.

Tiramisù al cucchiaio, a Milano si mangia così

La Cucina Italiana

Tiramisù al cucchiaio? Sembra una cosa ovvia, ma diventa ancora più interessante quando proprio il cucchiaio diventa l’ispirazione e la parola guida  di un nuovo progetto, da poco inaugurato nel cuore di Milano. Spùn, cucchiaio in inglese, ma traslitterato in italiano, anzi in milanese, è infatti il nome del negozio che si trova in via Victor Hugo 3, un un “micro quartiere” che in pochi metri offre alcune tra le eccellenze storiche della città (proprio di fronte, lo storico negozio di Giovanni Galli, famoso per i marroni canditi, mentre girato l’angolo si trova Peck, la gastronomia per antonomasia di Milano, proprio accanto al recente pop up stellato Elisenda, la pasticceria Esselunga curata dai Fratelli Cerea). Spùn si distingue proprio per la sua immagine, che molto punta sull’immagine, per comunicare (e inscatolare) in un modo nuovo e immediato la qualità, che rimane comunque al centro del progetto.

Una squadra affiatata 

Spùn nasce dal desiderio di condivisione di cinque soci, cinque giovani professionisti, molto amici tra loro, che da sempre inseguivano il sogno di dare vita a un progetto in comune.  Sono andata a vedere, e ad assaggiare, e ho chiesto ai ragazzi di raccontarmi la loro storia. Mi ha risposto Antonia, tratteggiandomi i profili dei cinque soci con la stessa allegria che contraddistingue l’immagine di Spùn. Ecco le sue parole:

« Andrea, il “Presidente” alto quasi 2 metri, 33 anni di origine brianzola, commercialista e revisore legale, CEO dell’azienda di famiglia. Appassionato di moto e dispositivi tecnologici in generale (prima li compra tutti poi dopo 2 settimane li rivende perchè capisce l’inutilità – io lo definisco diplomatico leone, riesce ad arrivare dritto al punto pur utilizzando un approccio cordiale e tante parole…quasi incredibile 🙂 – dai primi esperimenti di tiramisù di Andrea, abbiamo capito che era necessario intervenire sulla ricetta.
Alessandro, il “narratore”, 32 anni di origine brianzola commercialista e revisore legale specializzato in fiscalità presso uno studio a Lugano. Appassionato di sonetti, è colui che racconta di noi, del Tiramisù e del nostro progetto.
Antonia, la “quota rosa” del team, 33 anni di origine campana, mamma di 2 pargoletti di 6 e 2 anni, commercialista e revisore legale specializzata in fiscalità internazionale, da 8 anni lavora per una multinazionale. Nutre una grande passione per i video clip, il ballo, gli eventi tra amici e il mare.
Vincenzo, il “diretto”, 33 anni di origine campana, laureato in Economia e Responsabile Marketing in una nota squadra di calcio. Appassionato di calcio naturalmente, ama la sua famiglia e ricorda i nomi di tutti sin dal primo istante.
Antonio, il “carismatico”, 30 anni di origine campana, fratello di Vincenzo. Architetto con 8 pagine di cv, appassionato di musica leggera, profumi e con un forte savoir faire in ogni contesto». 

Il progetto 

Come nasce il progetto di Spùn? Da un’idea di Andrea che insieme a Vincenzo hanno poi trainato gli altri componenti nel dolce mare delle creme: visto che tiramisù è tra le parole italiana più conosciute al mondo, i ragazzi hanno deciso di esplorare questa realtà. Si sono dedicati, naturalmente, a ricerche di mercato e di immagine, ma soprattutto, hanno iniziato a sperimentare tutti i tiramisù della città, alla ricerca del loro proprio gusto. Alla fine, hanno messo a punto una formula, con l’aiuto del pasticciere Tommaso Foglia, che insieme a Simone ha sistemato i dettagli della ricetta, arrivando a definire il “prodotto madre” e poi tutti i derivati (ci sono diversi gusti di tiramisù da Spùn) : crema morbidissima, una base di savoiardo “a piastrella”, e non a biscotti. Tutto in strettissima relazione con il packaging e l’immagine. 

Tanti tiramisù al cucchiaio e due cose belle

Parliamo dunque del tiramisù: ottima la versione base, e gustosissime anche le variazioni (banana, nocciola, pistacchio, cioccolato, caramello salato e fragola i gusti caratterizzanti). Due cose mi sono molto piaciute (oltre ai cremosissimi assaggi che ho fatto): la prima è che i tiramisù di Spùn sono molto inclusivi: infatti sono senza glutine e senza lattosio, nella loro composizione principale, perché la crema è realizzata con uova pastorizzate e prodotti delattosati, mentre il biscotto con farine e amidi senza glutine. Tracce di lattosio e glutine si possono trovare in alcuni topping ma, insomma, se si vuole un tiramisù free, la versione base è davvero per tutti. La seconda cosa è che sono antispreco: i ritagli di impasto, che già sono molto pochi, proprio perché è stato studiato per un utilizzo ottimizzato, vengono recuperati, tostati in forno e serviti come chips, insieme alle creme che si possono acquistare nel piccolo negozio. Si chiama Spùntino, un esempio di riutilizzo creativo, anche nel nome, e di rispetto per cibo e ambiente. 

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