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Grigliata perfetta: 6 consigli | La Cucina Italiana

Grigliata perfetta: 6 consigli | La Cucina Italiana

I numeri parlano chiaro: a fronte dei 126 chili pro capite di carne che ogni anno mangiano gli abitanti degli Stati Uniti d’America, in Europa siamo a 85 chili, in Italia a 76. Che sarebbero 38 chili a testa, al netto delle parti che si buttano. Cioè meno dei limiti suggeriti dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Da dieci anni il consumo è costantemente in calo, ma – ecco la sorpresa che emerge ricerca del Censis – ad amarla maggiormente (il 62,8%) sono i giovani under 30, più che gli adulti 35-64 anni. Ovviamente i millennials e i ragazzi della generazione Greta sono ben attenti all’equilibrio della propria salute e dell’ambiente e non corrono il rischio di dover scimmiottare Albert Einstein che confessava: «Ho sempre mangiato la carne con un pizzico di cattiva coscienza». L’Italia è tra i Paesi più avanti per quanto riguarda gli allevamenti sostenibili. C’è ancora tanta strada da fare, ma il dato che ci pone tra i più virtuosi all’interno dell’Intergovernmental Panel for Climate Change non è da sottovalutare. L’impronta del carbonio delle nostre carni bovine rispetto alla media mondiale (dati Fao 2021) riporta una stima di 10,4 contro i 25,3 di CO2 per kg di carne. Insomma, sull’impatto ambientale si sta lavorando tanto (e bene) grazie all’agricoltura e all’alimentazione animale di precisione e al riciclo di scarti e scarichi negli impianti di biogas per produrre energia.

Per quanto riguarda la salute, oltre all’eccesso di consumo, a fare male sono spesso i metodi di conservazione e di cottura. Giorgio Calabrese, presidente del Comitato nazionale sicurezza alimentare, alle ragioni etiche e filosofiche contro il consumo di carne contrappone le esigenze dell’organismo. Specialmente per i più piccoli. «Il bambino», ripete spesso il famoso nutrizionista, «è una casa che cresce e ha bisogno del cemento armato per solidificare le fondamenta; significa un apporto di proteine nobili, che aiutano a rafforzare il sistema immunitario e sono contenute in tutti i prodotti di origine animale comprese le uova, il latte, formaggi e prosciutti nella giusta quantità e nella giusta frequenza associandola sempre a frutta e verdura, cereali e legumi».

A vincere su tutto, alla fine dei conti, è comunque «il piacere della carne», con il sapore in bocca, il gusto della masticazione e gli aromi assolutamente unici e sempre diversi che dipendono dall’allevamento di provenienza, dall’alimentazione e dalla stagione in cui gli animali sono cresciuti. «L’insieme dei sapori di base e degli aromi», spiega Giovanni Ballarini, presidente onorario dell’Accademia italiana della cucina, «deriva da una miriade di sostanze presenti nella carne fresca e da processi e reazioni che si svolgono durante la frollatura e i diversi sistemi di cottura». Il tutto, quindi, viene esaltato dalle capacità ai fornelli. Sapendo, per esempio, che durante la cottura della carne vengono rilasciate 650 diverse molecole volatili.

Errico Recanati e la grigliata perfetta

«Lo spiedo e la brace qui parto abbinando tecniche che ho altri sapori e generare nuovi ricordi».
Così riassume il suo lavoro Errico Recanati, chef di Andreina, una stella Michelin a Loreto nelle Marche, dove comincia a lavorare molto giovane accanto alla nonna e dove la cucina dello spiego gli entra nel sangue. Si forma con Gianfranco Vissani e con Pietro Leeemann, per poi tornare a casa ad approfondire e rinnovare l’antica pratica del fuoco e della brace. Nei suoi piatti, dagli spaghetti ai sette pepi fino ai dolci, passando per la carne (specialmente quella di selvaggina) dà voce a una idea di cucina, che lui stesso definisce neorurale, nella quale il sapore ancestrale esce alla ribalta con una nitidezza e un garbo che sorprendono. ristoranteandreina.it

Non scherzate con il fuoco

Ecco le regole e i consigli di Errico Recanati per riuscire a governare con precisione le potenzialità della cottura a fiamma diretta.

Gelato al cioccolato: come evolve il gusto classico

La Cucina Italiana

La Gelateria Brunelli a Senigallia. 

Attenzione al mito del magro

Dipende dalla ricetta, ma in generale il sorbetto non è più magro, è senza colesterolo. «Il cioccolato ha naturalmente una percentuale di grasso nobile come quello della frutta secca ed ecco perché i sorbetti fatti con acqua, zucchero e cioccolato hanno una cremosità simile alle creme tradizionali. I gelatieri moderni usano il burro di cacao anche per i gusti vegetali proprio per le sue capacità». Se il sorbetto non è sempre più magro quindi in termini assoluti non ha neanche meno zucchero, anzi. «Il gelato più dolce è proprio il cioccolato. I gusto attenuato dall’amaro del cioccolato va bilanciato con più zucchero per dare equilibrio. Ma questo vale anche per i gusti alla frutta: nella frutta la parte solida è data dallo zucchero, e quindi anche i sorbetti sono più zuccherini delle creme». Insomma, chi mangia il gelato alla frutta per stare a dieta… 

I cioccolati di Paolo Brunelli

Vero appassionato, nel banco della sua gelateria di Senigallia ne conta cinque versioni: Cioccolato della tradizione con misto cacao e cioccolato, poi il Cioccolato e scorze di arancio tritate, nuovo classico, il Sorbetto al cioccolato che cambia a rotazione, ora una monocultivar Madagascar. Poi ci sono i cioccolati più venduti con il caramello e sale, e quello all’olio di oliva. Il cioccolato bianco bianco lo si usa per fare il gusto Portonovo e il gusto Senigallia. Sono i più venduti? «Il cioccolato è il gusto più venduto, negli ultimi anni insidiato dal pistacchio in modo esponenziale. Ma le creme e il cioccolato con la nocciola restano gli immancabili. Il gelato vero italiano è basato sul tuorlo d’uovo. Il gelato è latte, tuorlo, zucchero e le sue derivazioni. Chi è di vecchio stampo come me, mette il tuorlo anche nella frutta secca».

La sperimentazione a Identità Gelato

In attesa della nuova edizione il 13 settembre 2022, con Brunelli parliamo proprio di cioccolato. Nel 2021 aveva presentato la Scalata verso l’irresistibile, tre gelati identici al cioccolato, arricchiti di gusto umami: il cioccolato è un prodotto fermentato. «Tre cioccolati uguali con due inserimenti: classico, con cioccolato rifermentato con lievito madre con una nota al pane e uno con il miso per conferirgli una nota irresistibile con l’amplificazione umami, era saporosissimo, un’esplosione di gusto». Che cosa farai quest’anno? «Non lo so ancora», ma fra le foto per questo servizio mi manda un sorbetto mono origine del Belize con acciuga del Cantabrico e polvere di alga palmario palmata. Stay tuned!

Cos’è il vino cotto delle Marche

Cos'è il vino cotto delle Marche

Il vino cotto è dolce e suadente, perfetto per accompagnare dolci e castagne. Una preparazione rurale, tramandata nelle famiglie contadine e dal forte valore simbolico, che oggi rivive grazie al lavoro di venti cantine dopo un lungo periodo di clandestinità

Una delle tradizioni più antiche e ataviche della campagna marchigiana: il vino cotto. Immaginate un grande calderone di rame adagiato su un fuoco di legna dove sobbolle un mosto d’uva fresco. Si tratta forse di uno dei prodotti meno conosciuti a livello nazionale, anche perché il vino cotto è una preparazione rurale, iper locale, tramandata nelle famiglie contadine e dal forte valore simbolico. L’usanza di bollire il mosto risale all’epoca dei Piceni, la popolazione che abitava il centro sud delle Marche già da prima dei romani, e proprio in questo areale, la tradizione di cuocere il mosto d’uva si è protratta fino ai giorni nostri. Il vino cotto è la bandiera del piccolo comune di Loro Piceno, in provincia di Macerata. Qui ad agosto si tiene da anni una festa che ripercorre l’antica tradizione. Ma la stessa usanza vale anche in alcune cittadine della provincia di Fermo e Ascoli Piceno e, pur con modalità diverse, in Abruzzo, nella provincia di Teramo.

Vino cotto e sapa: dolci simboli atavici della campagna marchigiana

A vari livelli di riduzione del mosto tramite bollitura corrispondono prodotti diversi. Da una parte c’è la sapa, il sostituto rurale dello zucchero: denso sciroppo che deriva dalla riduzione di tre quarti del mosto bollito e che si usa nella preparazione di dolci o per condire la polenta. Il vino cotto, invece, rimane un vino a tutti gli effetti. Durante l’ebollizione viene schiumato di frequente, si eliminano le impurità e a fine cottura viene travasato in piccole botti di legni vari. L’aroma e il vigore aumentano con il tempo. Quello che più racconta il calore di questo vino è il colore ambrato (si chiama “occhio di gallo”). Il sapore è dolce e in campagna serviva come carburante per i lavori più difficili e pesanti. A livello simbolico basti pensare ai riti che lo vedevano protagonista. Durante la cottura infatti venivano spenti nel mosto bollente dei tizzoni ardenti di legno di quercia, o dei ferri infuocati, come a infondere la forza nel nettare. Gli arti dei neonati venivano “unti” con del vino cotto per donare loro forza, come pure valeva l’usanza di riempire una botte di vino cotto in occasione di una nascita. Dote preziosa di vino, che sarebbe stato conservato fino al giorno delle nozze dello stesso figlio. Veniva inoltre somministrato ai buoi per dargli vigore e usato contro le malattie più comuni come il raffreddore, attraverso i suoi fumenti.

Lavorazione del vino cotto nelle Marche.
Lavorazione del vino cotto nelle Marche.

La storia del vino cotto

Si produceva già nel Cinquecento, come documentato dal farmacista Andrea Bacci, umanista, medico e naturalista marchigiano, che in epoca rinascimentale riprendendo fonti antiche parla e descrive il vino cotto marchigiano. Ma come si fa? Il mosto viene concentrato sul fuoco in calderoni di rame e si riduce di un terzo o, addirittura, fino alla metà. Nelle Marche, almeno, fino a due secoli fa, la viticoltura è sempre stata residuale e relegata alla sussistenza dell’agricoltore. I filari contornavano i bordi dei campi e, specie nel centro e nel sud della regione, i vitigni presenti non erano reputati come particolarmente pregiati. Spesso, dunque, accadeva che l’uva non arrivasse a piena maturazione e il vino non raggiungesse il minimo dei dieci gradi alcolici. Per valorizzare queste uve e renderle alimento calorico, il mosto viene dunque cotto, lasciato raffreddare e messo in botti di legno di rovere (in passato botti di castagno). A questo punto si aggiunge mosto crudo, per far ripartire la fermentazione che dura circa due settimane e che tornerà a rifermentare di nuovo durante la stagione estiva. Dopo un anno sarà pronto, ma il vino cotto più buono è quello più vecchio. La soglia minima per un buon prodotto è di cinque anni, anche se i più pregiati restano nel legno fino a 40 o 50 anni.

Clandestino. Come il mistrà

Nel 1962 una normativa prescriveva che il vino cotto dovesse essere prodotto separatamente dal vino comune. Quindi, dovendo scegliere, le aziende vinicole locali abbandonarono questa produzione. Ma un prodotto di così lunga tradizione continuò a vivere clandestinamente nelle campagne, così come avveniva da secoli. Un po’ la stessa sorte che ha investito il mistrà, distillato marchigiano di vinacce aromatizzato all’anice. La situazione è durata fino all’agosto del 2015 quando fu abrogata questa norma e alcuni produttori hanno ripreso a produrlo e addirittura a esportarlo, tanto che oggi è elencato a pieno titolo tra le produzioni tipiche della Regione Marche.

Lavorazione del vino cotto nelle Marche.
Lavorazione del vino cotto nelle Marche, cantina Castrum Morisci.

I produttori del vino cotto

Attualmente sono almeno venti le aziende che lo fanno. Chi ne ha fatto una bandiera è la cantina Il Lorese. Cristian Ercoli e Simone Forti utilizzano il metodo originale, cuocendo il mosto in grandi calderoni di rame adagiato su fuoco vivo di legna senza alcuna camera d’aria. Per non far disperdere le particelle di rame, fin quando il mosto non bolle viene messa una verga di ferro che per elettrolisi attira le micro particelle di rame.
Non esistendo un vero e proprio disciplinare di produzione, ogni cantina ha il proprio metodo produttivo. Il Lorese ne lancia sul mercato circa 6mila bottiglie all’anno. Ogni botte ha un sapore, ogni produttore un timbro. La cantina ne produce sette diverse etichette: “Il Lorese”, invecchiato 5-8 anni, metodo Soleras, cioè un blend di diverse annate, fino ad arrivare al “Decimo” e al “Varco 41” (vino cotto di una singola botte). Poi c’è il “Cerrone 70”, una riserva speciale (ne vengono vendute soltanto 20 bottiglie all’anno). Dentro c’è il vino cotto dell’annata 1970, con aggiunta di rimbocco del 2004 e imbottigliato nell’anno in corso.

Altro produttore è la cantina Castrum Morisci di Luca Renzi e David Pettinari a Moresco (FM). Sotto l’etichetta “Focagno”, oltre ad alimentare il mercato locale, il vino cotto raggiunge anche gli Usa, l’Australia, la Svizzera e l’Europa dell’Est. L’azienda lo lavora con uve miste: passerina, sangiovese e malvasia. Secondo la tradizione, infatti, viene fatto con uve bianche e rosse mescolate, per un prezzo che va dai 10 ai 20 euro per bottiglia da mezzo litro. La cottura avviene in calderoni di acciaio.

Il gusto del vino cotto e come abbinarlo

Ma come si riconosce un buon vino cotto? Il colore va dal marrone ambrato al marrone vivo e si definisce color “occhio di gallo”. All’olfatto prevalgono i sentori di frutta caramellata; marmellata di prugne; mela cotogna e uva passa spesso con note di affumicato. Il sapore è dolce, caldo, avvolgente, con sentori di frutta matura. Gli abbinamenti più consoni sono con il dessert. Pasticceria secca, crostate rustiche, ma anche formaggi erborinati e gorgonzola. Il piatto locale con cui si abbina meglio sono le caldarroste. Senza il vi’ cotto le castagne nemmeno si mettono sul fuoco. Un vino da meditazione, da gustare davanti allo scoppiettìo della legna nel camino.

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