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Anna in Casa: ricette e non solo: Taralli attorcigliati con farina di mais

Anna in Casa: ricette e non solo: Taralli attorcigliati con farina di mais

Finalmente ho convinto mia sorella Daniela e mia cugina Anna a preparare il lievito madre e adesso sono tutte e due alla ricerca di ricette.

Io nonostante lo utilizzi spesso, pigramente scrivo poche ricette il mio Almi (così si chiama il mio tesoro di lievito) e onestamente non so perchè. 

Uno dei miei punti di riferimento sull’utilizzo dell’esubero è Carmen, amica e blogger di ricettecongusto , le cui ricette sono sempre una certezza.

Questi taralli sono una variante di una sua ricetta che mi piace tantissimo e che ho utilizzato varie volte.

Ingredienti

dosi per la preparazione con esubero lievito madre

200 g di esubero lievito madre

300 g di farina 0

200 g di farina di mais (io farina per polenta taragna)

170 ml circa di acqua tiepida

100 ml di olio di mais

15 g di sale

1/2 cucchiaino di zucchero

dosi per la preparazione con lievito di birra o lievito granulare

12 g di lievito di birra

     o 6 g di lievito granulare

430 g di farina 0

200 g di farina di mais (io farina per polenta taragna)

240 ml circa di acqua tiepida

100 ml di olio di mais

15 g di sale

1/2 cucchiaino di zucchero

Procedimento

In una ciotola capiente o in quella della planetaria, sciogliere il lievito madre nell’acqua tiepida, aggiungere lo zucchero (se utilizzate il lievito di birra, scioglietelo prima nell’acqua tiepida insieme allo zucchero).

Unire le farine al lievito sciolto (che sia di birra o esubero) e impastare per amalgamarle al composto liquido.

Aggiungere l’olio poco per volta e infine il sale.

Continuare ad impastare fino ad ottenere un composto liscio ed omogeneo.

Coprire il composto con pellicola e metterlo il composto a riposare in luogo tiepido, non serve che lieviti,va solo lasciato stare così.

Riprendere l’impasto e con il matterello formare una sfoglia rettangolare spessa circa 2 mm.

Con un coltello tagliare tante striscioline spesse circa un dito e lunghe una quindicina di cm. 

Arrotolare ogni striscia a spirale e chiudere le estremità ad anello.

Allineare i taralli sulla teglia foderata con carta forno.

Scaldare il forno a 200°C.

Infornare a caldo per 18-20 minuti, sfornandoli appena sono dorati e lasciateli raffreddare prima di servirli.

cosa si mangiava nella Roma rinascimentale

cosa si mangiava nella Roma rinascimentale

Un tour guidato nel cuore di Trastevere per vivere un’esperienza gastronomica autentica, immersi nel Rinascimento romano

Roma, oltre ad aver avuto il suo periodo di grandezza in epoca antica, durante il Rinascimento, fu meta di architetti e artisti che cambiarono per sempre la storia dell’arte.

E proprio nelle loro opere si trovano preziosi spunti per ricostruire anche le abitudini alimentari di quel periodo. Per questo tour ci faremo guidare dai luoghi e dalla storia di due grandi protagonisti di questo periodo, ma di due momenti diversi: Raffaello Sanzio (1483 – 1520) e (Francesco Borromini 1599 – 1667).

Ammirare gli affreschi di Raffaello a Villa Farnesina

Il nostro viaggio inizia a Villa Farnesina, la prima dimora suburbana ai tempi del XVI secolo.

Nel 1505 Agostino Chigi, ricco banchiere senese e noto mecenate e mercante d’arte, acquistò a Roma un grande terreno sulle sponde del Tevere. A quell’epoca la zona di Trastevere era considerata extra urbana e Agostino la scelse proprio per costruire una residenza lontana dal movimentato centro città. Villa Chigi, così chiamata prima dell’attuale nome dovuto al passaggio di proprietà al cardinale Alessandro Farnese alla fine del XVI sec., fu la prima “villa suburbana” di Roma e divenne subito un modello architettonico rinascimentale. In essa convergevano diversi elementi che furono poi copiati in molte altre dimore dell’epoca, come il suo rigoglioso giardino, che arrivava fino alle sponde del Tevere, e ai suoi affreschi straordinari, realizzati dai più grandi artisti dell’epoca come Raffaello, Peruzzi e Sodoma.

La parte della villa più celebre è la loggia di ingresso, progettata da Raffaello Sanzio come un pergolato per collegare idealmente gli ambienti interni con il giardino e il fiume senza soluzione di continuità, creando una sorta di illusione ottica.
Raffaello pensò nei dettagli tutti gli affreschi del loggiato e si concentrò sulla realizzazione dell’imponente ciclo delle storie di Amore e Psiche, individuando poi Giovanni da Udine come suo allievo più adatto a dipingere i festoni botanici ornamentali che dividono le varie scene pittoriche.
Questo motivo decorativo, realizzato nel 1517, oltre a essere una rappresentazione del giardino esterno, voleva essere specchio di tutte le varietà fruibili e apprezzate in quel tempo, comprese quelle provenienti dall’America, scoperta appena vent’anni prima.

Gli affreschi di Raffaello nella loggia di Villa Farnesina, 1517.
Gli affreschi di Raffaello nella loggia di Villa Farnesina, 1517.

Diversi documenti attestano che questo può essere considerato il più antico documento dell’introduzione delle piante riportate da Colombo in Europa.
Un’eccezionale testimonianza sulla biodiversità di frutti e ortaggi conosciuti in Europa dopo la scoperta del Nuovo Mondo, un inventario figurativo di oltre 170 specie vegetali.
Un’enorme varietà di piante spontanee e coltivate, dalle più comuni come il sambuco o l’infiorescenza del finocchio a fiori come rose, gigli, iris e anemoni,  o di ortaggi come carciofi, cavoli, carote e rape.
Tra le verdure si notano anche le specie importate dall’America come la zucca gialla, la zucchina e alcune pannocchie di granturco.
Detto questo, ci sono anche alcuni grandi assenti che ci aspetteremmo di vedere rappresentati: la patata, che però all’epoca non era ancora stata importata poiché Colombo non la incontrò mai nei suoi viaggi, ma venne scoperta dallo spagnolo Pizarro nella seconda metà del Cinquecento. Così come pure i pomodori, che non sono stati rappresentati perché introdotti in Europa nella seconda metà del Cinquecento, e che non ebbero fortuna subito in quanto considerati frutti di pianta velenosa (per la sua grande quantità di solanina) e utilizzata per diversi secoli solo come pianta ornamentale.

Scoprire gli antichi forni di Trastevere

A quei tempi Trastevere non era il quartiere romantico e un po’ radical di oggi, bensì un sobborgo suburbano popolare conosciuto soprattutto per le botteghe artigiane e per i numerosi forni che producevano il pane per tutta Roma.
Raffaello Sanzio, mentre lavorava agli affreschi di Villa Farnesina si innamorò di Margherita Luti, figlia di un fornaio, che aveva bottega proprio nella casa appena al di là della Porta Settimiana, all’incrocio con via Santa Dorotea. L’infatuazione di Raffaello per la bellissima giovane di Trastevere trova testimonianza nel suo celebre dipinto datato 1518 La fornarina, che ritrae lo stesso soggetto anche di un’altra sua celebre opera La velata.
Ancora oggi si può vedere la finestrella dalla quale pare si affacciasse la fornarina, nella casa con all’interno un tipico orto romano, dove fino a poco tempo fa c’era la storica Osteria Romolo.

Se volete provare alcune tra le esperienze gastronomiche più autentiche di Trastevere i consigli sono di andare in alcuni dei forni più tradizionali: per i dolci allo storico biscottificio Innocenti, mentre per la classica pizza romana al forno La Renella. Per provare un’esperienza davvero unica andate alla chiesetta di Santa Barbara: lì di fianco, un po’ nascosto, c’è il Filettaro, una minuscola osteria centenaria: pare che i suoi filetti di baccalà pastellati e fritti siano senza eguali.

Dove provare un menu rinascimentale

Dirigendosi dalla casa della fornarina verso via Garibaldi, che porta al Gianicolo, all’angolo (guarda caso) con via dei Panieri, troviamo il ristorante Il Ferro e il Fuoco dall’aspetto moderno, che però nasconde un menu davvero unico, ispirato alle antiche ricette rinascimentali.
Lo chef Emidio Gennaro Ferro insieme a Elena Prandelli, direttrice dell’hotel che ospita il ristorante e grande appassionata di storia e gastronomia, hanno realizzato attraverso lo studio accurato delle pietanze dell’epoca tra fine Quattrocento e metà Seicento, un percorso gastronomico molto interessante.

A cominciare dall’aperitivo a base di acqua di rose, bevanda molto in voga all’epoca, ottenuta dal filtraggio di petali di rose e l’aggiunta di Malvasia, uno dei vini più comuni in Italia in epoca rinascimentale.

La prima portata del menu degustazione prevede un piccolo pasticcio con ragù di carni bianche e salsa al tartufo.
Da notare che a fine Quattrocento, grazie ai gusti dei de’ Medici, uno dei piatti più graditi nelle corti nobiliari era il pasticcio di pasta frolla con ragù di piccione. Il piccione infatti era considerato l’animale più vicino al cielo, quindi a Dio, e per cui riservato solo alla nobiltà e ai ceti più elevati. Il pesce, al contrario, era considerato il cibo più impuro, proprio perché viveva in acqua, un mondo in opposizione al mondo celeste.
Il popolo mangiava legumi, ortaggi e, quando possibile, carne di polli e maiali domestici.

La seconda portata prevista del menu degustazione è un piatto di gnocchi di formaggio fresco, burro e salvia. L’impasto viene fatto solo con acqua, farina e cacio fresco, rigorosamente senza patate, poiché all’epoca erano sì già state importate dal’America, ma utilizzate solo come pianta ornamentale. Solo nel tardo Seicento si iniziarono ad apprezzarne le qualità del tubero e a consumarle anche in cucina.

Il galletto alle arance amare, acqua di rose, spinaci e schiacciata di sedano rapa, è una ricetta fedele all’originale trovata nel Libro de Arte Coquinaria del maestro Martino da Como, il cuoco più famoso della seconda metà del XV secolo.
Un piatto emblematico, specchio dei sapori dell’epoca, che trovavano nell’agrodolce il gusto più diffuso. Questo era dovuto ai metodi di conservazione del cibo: con sale, zucchero (sotto forma di sciroppo o miele) o agresto (un condimento acidulo ottenuto dalla cottura del mosto di uva acerba e dall’aggiunta di aceto e di spezie).

Infine, il menu propone un Biancomangiare a base di mandorle, zucchero e melagrana. Le mandorle all’epoca, spesso sotto forma di latte di mandorla, erano molto usate in cucina.

Per concludere, un digestivo davvero originale: l’Hypoclas. La fedele riproduzione di un liquore creato alla corte di Isabella de’ Medici Orsini, al Castello di Bracciano, sul quale aleggiano diverse leggende di omicidi amorosi. Il curioso antidoto era a base di malvasia e diverse spezie tra cui noce moscata, chiodi di garofano, cannella, zenzero… e un curioso ingrediente segreto dalle proprietà a noi sconosciute: ghiandole anali di cervo (per fortuna non reperibili ai giorni nostri).

Dormire in un antico monastero progettato da Borromini

La scelta di questo ristorante di far vivere un’esperienza gastronomica così originale è data anche dal contesto in cui si trova: un ex convento secentesco, divenuto da pochi anni un elegante albergo, l’hotel VOI Donna Camilla Savelli.

Nel 1642 Donna Camilla Virginia Savelli, nobile donna romana con una forte vocazione religiosa, ma costretta a sposare un Farnese, commissionò a Francesco Borromini la costruzione nel cuore di Trastevere di un convento. Il celebre architetto del Barocco italiano progettò quindi una piccola chiesa, Santa Maria dei sette dolori, tuttora frequentata dai fedeli del quartiere, e un monastero che doveva accogliere il nuovo ordine fondato da Donna Savelli, le Agostiniane dei sette dolori.
Il convento è sempre rimasto operativo nel susseguirsi dei secoli, fino a circa una decina di anni fa, quando l’imponente struttura è stata convertita in un elegante hotel, dove si può dormire nelle antiche celle delle suore, ora raffinate camere dotate di tutti i comfort.

Santa Maria dei Sette Dolori, progettata da Francesco Borromini.
Santa Maria dei Sette Dolori, progettata da Francesco Borromini.

La posizione dell’ex monastero gode di una straordinaria visuale su tutta Roma e cela al suo interno un delizioso giardino, l’antico orto delle monache: una vera oasi di pace.
Scegliere di dormire qui, oltre che un’esperienza dal servizio impeccabile, è come vivere mille storie insieme: dalla vita di Donna Camilla Savelli al lavoro di carità delle suore nel borgo di Trastevere, fino all’antica grotta romana del I sec. d.C, ritrovata sotto il convento e utilizzata dalle monache durante la Seconda guerra mondiale per nascondere e salvare alcune famiglie di ebrei.
Nei secoli, e durante l’ultimo restauro, sono stati perfettamente conservati gli elementi più caratteristici lasciati dal Borromini, come la meravigliosa galleria d’ingresso con pavimento a scacchiera, la scalinata e la fontana davanti all’entrata del refettorio, oggi chiamato Sala Borromini.
Qui le monache consumavano modesti pasti scanditi dalle preghiere della madre superiora e, come per loro, l’invito qui è mettersi in ascolto della Storia, gustando a pieno i sapori e l’atmosfera del Seicento italiano.

Torta di arance con yogurt greco

Torta di arance con yogurt greco

Come la fanno in Grecia la torta all’arancia? La ricetta della mamma di Vasiliki, patron del ristorante Vasiliki Kouzina di Milano, prevede yogurt, olio vegetale e del succo di arancia fresco. “Ricordo sempre la frase che diceva mia mamma – racconta Vasiliki, originaria di Kalamata – bisogna lasciare che si sciolga in bocca! Ed è esattamente così. Affascinante, attraente, nutriente, leggera, succulenta, materna e piena di aromi! La portokalopita, torta d’arancia, è un “privilegio”, un dolce tradizionale del Peloponneso,, solitamente preparato per i matrimoni!”

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Ingredienti per 4 persone
250 g yogurt greco
250 g zucchero semolato
225 g olio di semi di girasole
230 g succo d’arancia fresco
scorza arancia
4 uova
semola rimacinata
30 g lievito in polvere per dolci
zucchero a velo
foglioline di menta

Procedimento
Per prima cosa unire in una bacinella grande tutti gli ingredienti liquidi: yogurt greco, olio di semi di girasole, uova, succo d’arancia fresco e grattugiare la scorza di due arance poi con una frusta amalgamare bene il composto. A questo punto unire le polveri: zucchero, pasta fillo secca e lievito in polvere. Con una frusta, sbattere il composto per renderlo liscio e omogeneo, privo di grumi.

Imburrare una tortiera da 24/26 cm di diametro, cospargerla con la semola rimacinata, versare il composto e cuocere la torta in forno a 165 gradi per 20 minuti.

Prima di gustarla, spolverare con zucchero a velo e guarnire con qualche fogliolina di menta.

 

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