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Le gastro botteghe in Abruzzo: ve ne segnaliamo alcune

Le gastro botteghe in Abruzzo: ve ne segnaliamo alcune

Tu chiamale se vuoi gastro botteghe. Quei locali non tanto grandi a metà fra pizzicagnolo di quartiere e trattoria metropolitana dove puoi comprare ciò che mangi e portartelo a casa. Una tendenza, quelle delle gastro botteghe che sta prendendo piede soprattutto dopo la pandemia, periodo in cui valori come l’artigianalità e le relazioni umane sono stati pressoché accantonati.

Sartorie del gusto versatile e trasversale, le gastro botteghe espongono salumi e formaggi tagliati al momento, etichette di pasta e conserve genuine, selezione di oli e di vini, dolci che seguono il corso delle stagioni. Si ritorna alle botteghe di paese, quando il salumaio faceva assaggiare la mortadella e la caciotta porgendole sulla punta del coltello affilato. Piccole e grandi storie d’amore fra produttori spesso sconosciuti ai più e appassionati di cibo/chef illuminati che guardano con coraggio e curiosità a un mercato altro. Aggiungi qualche tavolo, nel locale o all’aperto, un servizio cortese, e il “parco giochi” del palato è completo.

                                                                  

Mare: il Mediterraneo e il suo pesce

La Cucina Italiana

Il mar Mediterraneo è invaso da centinaia di pesci, meduse, gamberi e altre specie marine provenienti dall’esterno della regione. Nel Mediterraneo e nel mar Nero sono state identificate più di 1000 specie non indigene, destando preoccupazione per la minaccia che rappresentano per gli ecosistemi marini e le comunità di pescatori locali.

«I cambiamenti climatici e le attività umane hanno avuto un profondo impatto sul Mediterraneo e sul mar Nero», afferma Stefano Lelli, esperto di pesca per il Mediterraneo orientale che lavora per la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (CGPM).

Questo organismo regionale di gestione della pesca, istituito dalla FAO, guida gli sforzi per promuovere una pesca e un’acquacoltura sostenibili nel Mediterraneo e nel mar Nero. Collabora con pescatori, ambientalisti, scienziati e autorità governative per comprendere meglio l’aumento delle specie non indigene e aiutare i Paesi a migliorare le misure di mitigazione e gestione.

«Abbiamo assistito a una rapida e significativa alterazione degli ecosistemi marini, che ha portato a diversi impatti sui mezzi di sussistenza delle comunità locali. Nei prossimi anni, ci aspettiamo che il numero di specie non indigene continui ad aumentare», aggiunge Lelli.

Il mar Mediterraneo sta subendo un processo di “tropicalizzazione” a causa dell’aumento della temperatura dell’acqua, dovuto in gran parte ai cambiamenti climatici. Inoltre, molte specie sono migrate attraverso rotte marittime ben percorse come lo Stretto di Gibilterra o il Canale di Suez, spesso attaccate allo scafo delle navi o al loro interno nelle acque di zavorra. Altre specie, come l’ostrica a coppa del Pacifico e la conchiglia giapponese, sono state introdotte per l’acquacoltura negli anni Sessanta e Settanta e da allora sono sfuggite e hanno colonizzato gli ecosistemi mediterranei.

Una volta insediate, le specie non indigene possono superare quelle autoctone e alterare gli ecosistemi circostanti, con potenziali implicazioni economiche per la pesca e il turismo o persino per la salute umana. Ad esempio, sei specie ittiche non indigene velenose, come il pesce palla, il pesce leone e diverse specie di meduse, sono oggi presenti nel Mediterraneo orientale e possono essere tossiche per l’uomo se toccate o ingerite.

Trasformare una minaccia in un’opportunità

Con il sostegno della CGPM, si stanno trovando nuovi modi per trasformare queste invasioni in opportunità. «Il monitoraggio e la mitigazione degli impatti delle specie non indigene sugli ecosistemi marini sono costosi e l’eradicazione, nella maggior parte dei casi, è impossibile. Quando la commercializzazione e l’utilizzo sono possibili, come fonte di cibo, prodotti farmaceutici o altro, la pesca commerciale si è dimostrata lo strumento più efficace per affrontare il problema», afferma Miguel Bernal, Senior Fisheries Officer della CGPM.

Proteggere le specie autoctone

Per salvaguardare le specie autoctone, la CGPM sostiene la creazione di aree di restrizione della pesca. Le aree ben conservate hanno dimostrato di essere più resistenti all’impatto delle specie non indigene.

«Per affrontare il problema delle specie non indigene nel Mediterraneo e nel mar Nero sono necessarie la cooperazione internazionale e regionale e un’azione concertata», afferma Bayram Öztürk, autore dello studio della CGPM sulle specie non indigene nel Mediterraneo. «Inutile dire che gli impatti delle specie non indigene devono essere monitorati da tutti i Paesi della regione. Una volta introdotta una specie, potrebbe essere troppo tardi per eradicarla».

Con lo studio della CGPM, come primo passo, la Commissione sta ora lavorando per adattare le tecniche di pesca, collegarsi a nuovi mercati e aiutare i pescatori a ricavare nuovi mezzi di sostentamento da queste catture, mantenendo al contempo il suo lavoro cruciale di conservazione degli ecosistemi marini attraverso le aree protette.

Fonte FAO

Donne di montagna, burro e formaggi

Donne di montagna, burro e formaggi

La vita in montagna, si sa, non è semplice. Come ogni luogo estremo richiede una forza immensa – sia mentale che fisica – viverci e conviverci. Ancora di più se la montagna è il luogo tramite il quale si lavora e si realizza la propria passione. Questa è la storia di Renata e Cristina, due malgare che hanno deciso di dedicare la propria vita alla produzione di burro e formaggio artigianale.

Alpe Valnera

Sono le 7 del mattino in punto quando mi arrampico in auto su per una salita dalla pendenza impressionate per raggiungere la malga di Renata, che spunta in mezzo alla pioggia, arroccata sulle pendici del monte Mucrone. Incontro Renata nello stanzino in cui confeziona tutti i giorni il suo burro a latte crudo della Valle Elvo – Presidio Slow Food – e capisco di essere già in ritardo rispetto alla tabella di marcia. Lei e suo marito, che vivono in questa malga di pietra per 6 mesi all’anno, sono svegli dalle 4, e hanno già munto e confezionato il burro della giornata. In una vasca colma di acqua gelida di sorgente (che si trova a pochi metri dalla stanza) intravedo la massa di burro che galleggia. È giallo e grassissimo. Renata si mette al lavoro e inizia ad impastare il burro appoggiandosi ad una pala di ulivo – un’arnese ereditato da sua madre, come tutti gli altri che adopererà – per rimuovere l’acqua in eccesso. Una volta ottenuto un composto ben saldo, inizia a sbatterlo contro la pala, girandolo in aria, per dargli la forma rettangolare caratteristica del panetto. Pesa il panetto ed è precisamente 500g, ormai è talmente esperta che non ha più bisogno di una bilancia, e quindi procede ad improntarlo con lo stampo di famiglia che ritrae un disegno a forma di cuore. Nel giro di 10 minuti trasforma tutto il burro sciolto in panetti identici e li avvolge nella carta, aggiungendo l’etichetta del Presidio, sopra la quale segna la data. Chiama il marito che raccoglie il burro, lo carica nel baule della Jeep e si avvia giù per la montagna, a consegnare i panetti preziosi nei ristoranti e nelle botteghe migliori della provincia.

Cascina degli ori

Alla malga di Cristina, qualche valle più ad Est rispetto a Renata, vengo accolta da 3 pastori biellesi balzanti che svolgono alla perfezione il proprio ruolo da cani da guardia. Ci avviciniamo e corrono ad osservarci delle giovani caprette, curiose come dei gatti. Cristina la trovo seduta sullo sgabello a tre gambe da mungitura, indaffarata a mungere le ultime mucche del mattino. Il latte è grasso, spumoso, pieno di panna e caldo: uno spettacolo per gli occhi. Le mucche vengono spostate nel prato davanti alla stalla e noi ci avviamo verso il caseificio, dove Cristina ci mostrerà come prepara i suoi formaggi unici ed originali. Cristina non è figlia di generazioni di malgari, ma ha deciso di intraprendere la vita da casara dopo 16 anni passati a lavorare come ingegnere tessile (e due lauree). Arrivata sul mercato, ha da subito capito che non poteva offrire gli stessi prodotti tradizionali che producevano i suoi colleghi da generazioni, inventandosi quindi nuove forme, lavorazioni e connubi. Dalla sua creatività nasce lo “stracchino invecchiato” con una cagliata non acida, il “taleggio non taleggio” e il formaggio “di-vino”, creato per metà con il nebbiolo. Cristina ci guida con pazienza attraverso tutto il processo di produzione, dall’aggiunta del caglio, il taglio e poi la forma. In montagna non si spreca nulla, e con il siero avanzato che fuoriesce dalle forme appena create si prepara la panna. Dalla centrifuga esce da un lato l’acqua, e dall’altro la panna: spessa, cremosa e meravigliosa. Affondiamo un cucchiaino nella panna preparata qualche ora prima, che ha avuto il tempo di solidificarsi e diventare quello che in inghilterra si chiama clotted cream: una panna spessa da gustare con le fragole. Alle 10 del mattino arriva l’ora della degustazione, rigorosamente accompagnata da un bicchiere di vino rosso. Viva la montagna e viva il formaggio!

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