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Cima alla genovese: la ricetta originale e contemporanea

La Cucina Italiana

Eccoci a raccontare la cima alla genovese, ovvero un piatto di recupero, almeno in origine, che nel tempo è diventato uno dei più conosciuti piatti di carne liguri. Questo, anche se in realtà di carne ce n’è ben poca. Si mangia sia fredda sia tiepida, è una tasca fatta con la pancia del vitello cucita e ripiena di frattaglie (tra cui: animella, cervella, testicoli e poppa), piselli, uova, formaggio e poi cotta nel brodo di verdure per qualche ora. Si serve dopo averla fatta riposare con un peso sopra. Squisita!

Cima alla genovese, la ricetta originale

Tratta dal grande classico Le Ricette Regionali Italiane interpretate da Anna Gosetti della Salda del 1967.

Ingredienti per 8-10 persone

  • 1,200 g pancetta di vitello
  • 100 g polpa di vitello
  • 80 g poppa (tettina) 
  • un’animella
  • mezza cervella
  • qualche pezzetto di filone (schienale)
  • due granelli (testicoli)
  • 50 g burro
  • pinoli, maggiorana, spezie
  • parmigiano grattugiato
  • 8 uova
  • aglio, sale
  • una manciata di piselli ed una di funghi secchi
  • 2 litri circa di brodo di verdure

Procedimento

  1. Farsi preparare dal macellaio una pancetta di vitello con la sacca già pronta; lavarla e lasciarla sgocciolare bene poi asciugarla.
  2. Preparare il ripieno: rosolare nel burro tutte le carni, poi scolarle e metterle sul tagliere.
  3. Tritare finemente la polpa, la polla e l’animella; tagliare a pezzetti il resto.
  4. Versare tutto in un largo recipiente e aggiungere i piselli, i pinoli, uno spicchio d’aglio schiacciato, un pizzico abbondante di maggiorana ed i funghi ammollati e strizzati.
  5. Sbattere bene le uova, poi unirle a freddo al composto.
  6. Insaporite con un pizzico di sale e di spezie, aggiungere abbondante parmigiano grattugiato. 
  7. Mescolare tutto accuratamente, ma con delicatezza e, quando il composto sarà ben legato, riempire per due terzi la sacca della pancetta, tenendo presente che la carne cuocendo si ritira, mentre il ripieno si gonfia. 
  8. Cucire l’apertura della sacca, avvolgere e legare la cima così pronta in una pezzuola di tela bianca.
  9. Porla al fuoco in brodo un po’ caldo e lasciarla cuocere per un’ora a recipiente scoperto, poi incoperchiare  e far bollire ancora per dure ore.
  10. Servirla fredda.

Torino a tavola: la guida fra piatti storici e cultura contemporanea

La Cucina Italiana

Dal primo ristorante d’Italia alle piole

Nel libro si parte dalla gastronomia dai tempi dei Romani, lungo la via che scendeva verso la Liguria per scambiare grano e vino con sale, olio e acciughe, di quella del cuoco medioevale Francesco Chapusot che prevedeva una cottura della pasta di minimo mezz’ora, condita poi con burro e formaggio grattugiato, del vermouth e del peperone di Carmagnola. Nei primi capitoli – realizzati anche grazie all’archivio de La Cucina Italiana – si scava nelle opere storiche, dove non mancano le curiosità, come il fatto che nella Torino di Carlo Alberto esistesse già la pentola a pressione (le pentole autoclavi con coperchio a vite) e si parlasse di importare funghi allevati, ma anche di quali fossero i migliori macellai torinesi. In epoca moderna, più che i ricettari dei cuochi di nobili e signori, sono i ristoranti ad aver testimoniato l’evoluzione e la crescita anche sociale ed economica delle città. A Torino c’è il primo ristorante d’Italia, Del Cambio, che dal 5 ottobre 1757 si rinnova ciclicamente rimanendo sempre fedele a se stesso, ma c’erano anche le osterie popolari e le piole. Tra le più antiche, in città c’è quel Caffè Vini Emilio Ranzini che è in via Porta Palatina sin dagli anni Sessanta, ma anche il ben più “anziano” ristorante trattoria Ponte Barra che si trova in corso Casale 308, e vecchie fotografie testimoniano la sua esistenza già nel 1902. Nel volume si ripercorre la storia dei grandi ristorati del passato, la maggior parte oramai chiusi, dei loro menù che fondevano cucina francese e piemontese.

L’arrivo di prodotti e gastronomie dal Sud

Tra il 1958 e il 1963 più di 1.300.000 meridionali abbandonarono le proprie case per trasferirsi nel Centro e nel Nord Italia; tra essi sono più di 800.000 coloro che si dirigono verso le grandi città del triangolo industriale, prima tra tutte Torino. In poco meno di un decennio arrivarono dal Sud in città centinaia di migliaia di persone, lasciarono i campi per lavorare in fabbrica, e portarono in città le proprie abitudini alimentari. Negli archivi del Museo di Torino si ricorda anche una filastrocca, molto diffusa tra i bambini della Puglia: “Torino, Torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”. Non nacquero subito però nuovi ristoranti come accade oggi, l’uscire a mangiare era un lusso, ma questa cultura rimase chiusa nelle case. A porta Palazzo però i banchi cominciarono a fiorire di ingredienti mai visti, come cime di rapa, peperoncini, soppressate e caciotte. Piuttosto che ai ristoranti, il libro guarda quindi alle gastronomie, che oltre a mettere in mostra l’eccellenza della cucina locale, portano in città anche tipicità regionali. Nascono prima panifici come il Tarallificio Il Covo e il Panificio Pugliese e poi le gastronomie regionali negli anni Novanta, precedute dalle pasticcerie, soprattutto siciliane e napoletane, che dagli anni Sessanta e Settanta fanno conoscere a tutti i torinesi la tradizione pasticcera del Sud Italia: Pisapia a San Salvario, Pasticceria Primavera in Vanchiglia, Auriemma in Barriera di Milano. I primi ad aprire ristoranti furono, come a Milano, i toscani. La prima trattoria fu Il Gatto Nero, ancora in attività dal 1952, e dove ancora si servono l’Insalata di mare (ricetta del 1960), prosciutto toscano al colletto e fiorentine, e poi Balbo, da trattoria piemontese convertita a toscana negli anni in cui la cucina di Firenze e dintorni era di moda. Nel libro si parla della Trattoria Valenza, rilevata nel 1978 dal suo patron Valter Braga, arrivato da Rovigo nel 1957 insieme al primo flusso migratorio in città avvenuto dal Veneto in seguito alla tragedia del Polesine. Targata 1969, la Trattoria San Domenico, sarda, insieme a Da Benito (1966), sono sono invece due esempi di chi per primo portò il pesce in città.

La farinata in bicicletta e la pizza al padellino

Prima della Seconda guerra mondiale a Torino non esistevano molte pizzerie, racconta sempre il libro, si conoscevano solo la farinata e il castagnaccio di tradizione toscana, ma decisamente non la pizza napoletana. Questo perché i primi pizzaioli a emigrare nella città furono proprio quelli toscani e liguri, che portarono con loro usanze e tradizioni, come appunto quella della farinata, che fino agli anni Cinquanta veniva portata in giro sul manubrio dagli ambulanti della bicicletta nella teglia tenuta calda con la carbonella. Anche se il boom è scoppiato a partire dagli anni Cinquanta, il tegamino (o padellino), la vera pizza di Torino, è comparsa in città sin dagli anni Trenta, nei forni specializzati in farinate. Tra i locali storici si citano la Pizzeria da Alba di corso Racconigi, Cecchi di via Nicola Fabrizi e di via Madama Cristina, Da Gino in via Monginevro (aperta nel 1935), Da Michi in via San Donato (aperta nel 1971), Poldo in via Dante di Nanni (aperta nel 1939), Il Cavaliere di corso Vercelli (aperta dal 1958) e ancora Cit ma Bon di corso Casale (ai piedi della collina dagli anni Settanta), Da Michele in piazza Vittorio (aperto nel 1922 con farinata e castagnaccio e, dagli anni Trenta, anche con l’offerta della pizza al tegamino).

Torino oggi, dal kebab (gourmet) alla cucina Nikkei

A Torino il kebab è arrivato a metà anni Novanta grazie agli egiziani, Sindbad Kebab ha infatti aperto nel 1993. Il primo turco, anzi curdo, ad aprire i battenti in città è stato invece Kirkuk Kaffè, 1995, ma a Torino esiste dal 2000 un ristorante unico del suo genere: il primo kebab “gourmet” del Paese. Lo ha aperto Ergülü Demir, arrivato dalla Turchia a Torino e con la voglia di far conoscere la sua cucina ai torinesi. Lo ha fatto puntando sulla qualità, e ancora oggi prepara i döner (i grandi spiedi verticali) con la carne italiana di vitello ogni giorno, per farcire panini a fianco di piatti tipici della cucina turca realizzata con ingredienti freschi piemontesi – ora in due indirizzi. Nel libro si ripercorre poi la storia della cucina cinese, di quella indiana e giapponese in città. Sino al sushi, che dà titolo al libro. Il primo locale, aperto da imprenditori cinesi, risale al 1995, mentre nel 1997 aprì invece Wasabi, primo ristorante giapponese in città il cui titolare fosse davvero nipponico. Ma per concludere questo viaggio, bisogna citare un ristorante pluripremiato che ben rappresenta la realtà attuale della ristorazione torinese, Azotea. Fa alta cucina Nikkei, quindi un mix di tradizione peruviana e giapponese, nata dalle emigrazioni nipponiche del XIX secolo, oggi diffusa soprattutto in Sud America. La prepara lo chef Alexander Robles – nativo di Cuzco e con la nonna giapponese – ed è un indirizzo diventato di culto, al pari di quello dei grandi chef stellati in città. Per un racconto originale e non stereotipato di quello che sono le influenze, e di quella che è Torino, oggi.

Sbrisolona contemporanea: la ricetta – La Cucina Italiana

Sbrisolona contemporanea: la ricetta - La Cucina Italiana

Un classico della cucina lombarda, in una versione a doppio strato e farcita di Nutella®. Perché a Milano si è creativi con tutto, anche con la tradizione

Milano è una città in continuo movimento: ha fretta di fare, di cambiare, di reinventarsi.  È la città dei creativi, dei giovani imprenditori, della moda e del design. Ma è anche la città dell’aperitivo, dei ristoranti gourmet, del brunch e di nuovi riti. Perché Milano reinventa le sue tradizioni, anche a tavola.

I milanesi sono diversi variegati, arrivano ogni giorno dall’hinterland, ci si trasferiscono da tutta Italia o da altri continenti, ma hanno tutti una cosa in comune: hanno cambiato vita e sono arrivati qui per seguire le proprie passioni. Cucine regionali, spezie e sapori dal mondo, Milano è una città cosmopolita che non pone limiti alla fantasia, e che non ha nessun timore di infrangere le regole per scriverne nuove.  Dal risotto giallo alla cotoletta, nulla è sacro e tutto è materia di sperimentazione – sbrisolona inclusa.

La sbrisolona è una torta a base di mais e mandorle tipica della Lombardia: è un dolce antico, friabile e dal sapore ricco  e che, lo dice il nome, si sbriciola facilmente. Si spezza e si mangia con le mani, si prepara in modo molto facile, e per dargli un tocco contemporaneo, l’abbiamo rivisitata nella forma rendendola ancora più golosa: a due strati e farcita con Nutella®.

Per farlo abbiamo chiesto una mano a due milanesi doc: Sergio e Monica, designer e fondatori di un marchio di accessori milanese, iconico e oramai famoso in tutto il mondo. Milano reinventa le sue tradizioni? Loro hanno cominciato ripensando le tristi cover per computer e il solito neoprene, dandogli finalmente uno stile (e un’anima). Per noi hanno reinterpretato la sbrisolona.

Ingredienti per 6 persone

125 g farina di grano tenero
100 g mandorle sgusciate
100 g zucchero
75 g farina di mais fioretto
110 g burro a pomata
1 tuorlo d’uovo
un pizzico di sale
scorza di limone
1/2 pz bacche di vaniglia
90 g Nutella®
zucchero al velo

Procedimento

Tritare le mandorle grossolanamente. In una ciotola, unire le farine ed il burro e sbriciolare in punta di dita, unire lo zucchero continuare a impastare. Unire il tuorlo la scorza grattugiata di mezzo limone e i semi di mezzo baccello di vaniglia, per ultime le mandorle tritate e un pizzico di sale. Distribuire l’impasto, sbriciolandolo in 2 tortiere (ø 16/18 cm) foderate con carta da forno, stendendolo in uno strato di 1,5 cm. Infornate a 160 °C per 25 minuti in forno statico.

Una volta terminata la cottura togliete dalla tortiera, fate raffreddare e distribuite Nutella® su di una delle due torte restando a un cm dal bordo, adagiatevi sopra l’altra sbrisolona e premete leggermente.

Prima di servire aggiungete una leggera spolverata di zucchero a velo in superficie.

Credits:
Protagonisti: Monica Battistella – Sergio Gobbi
Casa di produzione: MIA production
Executive producer: Vanessa Valerio – Luca Caliri
Regia: Alberto Cozzutto
Food stylist: Elisa Lanci

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