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» Crostatine allo yogurt e limone

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Tritate finemente i biscotti, quindi mischiateli con il burro sciolto (nel microonde o a bagnomaria).

Foderate gli stampini per muffin con pellicola trasparente (lasciatela abbondate lungo i bordi, in modo che sia poi più agevole sformare i dolcetti), dividete il composto negli stampini e compattatelo con le dita, cercando di creare strati uniformi sia sul fondo che sui lati.
Lasciate riposare in frigo per almeno 30 minuti.

Nel frattempo iniziate a preparare la farcia: tenete la colla di pesce a bagno in acqua fredda per almeno 10 minuti.
Lavorate lo yogurt con 2 cucchiai di zucchero, vaniglia e buccia e succo di 1/2 limone, quindi strizzate delicatamente la colla di pesce, scioglietela in 1 cucchiaio di succo di limone caldo e incorporatela alla crema.

Distribuite la crema negli stampini.
Ricavate 3 fette dal 1/2 limone restante e caramellatele in padella antiaderente con lo zucchero rimasto.
Tagliate le fette di limone a metà e usatele per decorare le tortine, quindi mettete tutto in freezer per almeno 2 ore.

Le tortine fredde allo yogurt e limone sono pronte, non vi resta che toglierle delicatamente dagli stampini e servirle.

Un mercato che unisce città e campagna

Un mercato che unisce città e campagna

I prodotti locali sono espressione del territorio di origine, ma il loro uso nei piatti avviene all’insegna della contaminazione tra le più diverse realtà nazionali

Il Paese delle cento città: così è stata definita Italia. Essa è anche il Paese delle cento cucine, perché ogni città ha una storia, una cultura, una cucina diverse. Ma proprio nelle città si è elaborata e trasmessa una cultura gastronomica che ha subito oltrepassato la prospettiva locale per assumere una dimensione nazionale, secondo un meccanismo molto semplice. La città, grande o piccola che sia, è il capoluogo di un territorio che a essa fa riferimento sul piano amministrativo e produttivo. Ma la città è anche il luogo per eccellenza dello scambio commerciale e culturale. In questo senso la città rappresenta il territorio, le sue risorse, la sua cultura (anche gastronomica) e al tempo stesso ne diffonde ed esporta i saperi, le tecniche, i prodotti.

È per questo motivo che il patrimonio gastronomico italiano viene spesso ricondotto a identità cittadine, sia quando si tratta di ricette (risotto alla milanese, fegato alla veneziana, pizza napoletana…) o di preparazioni artigianali (mostarda di Cremona, mortadella di Bologna, pesto genovese…) che in qualche modo possiamo ritenere veramente «cittadine», sia quando si tratta di prodotti legati alla campagna, al bosco, ai monti, al mare: radicchio di Treviso, gallina livornese, olio di Bitonto, insalata romana, noci di Sorrento, tartufo di Alba… Prodotti che, evidentemente, non nascono in città. Ciò che si enfatizza, nell’immagine e nella rappresentazione di queste e di mille altre specialità, è il luogo di
mercato più che l’area di produzione. Il centro che raccoglie ed esporta quei prodotti.

La cucina in tal modo si manifesta come luogo dello scambio e della contaminazione, oltre che (più che) dell’origine. Se un prodotto può essere espressione di un territorio, il suo uso in una ricetta o in un menù è quasi sempre frutto di un’ibridazione, sicché l’espressione «cucina di mercato» sarebbe forse preferibile a quella che, troppo frettolosamente, siamo soliti definire «cucina di territorio». Ogni gastro-toponimo (ovvero, ogni nome di luogo che designa specialità gastronomiche) presuppone da un lato il radicamento territoriale di un prodotto o di una ricetta, dall’altro il fatto che quei prodotti o quelle ricette circolino, vengano usati o realizzati altrove. Nessuno chiamerebbe «parmigiano» un formaggio che fosse consumato solo a Parma.

La frequenza dei gastro-toponimi è direttamente proporzionale alla circolazione delle culture locali. Dunque la quantità di prodotti e ricette a denominazione di origine, che caratterizza da secoli la gastronomia italiana, rispecchia una profonda condivisione della cultura alimentare da una parte all’altra del Paese. Le diversità locali non sono restate chiuse in sé stesse ma sono cresciute nel segno del confronto e dello scambio. È in questo modo che l’Italia delle cento città e delle cento campagne ha dato vita a infinite differenze e, nel contempo, a una cultura ampiamente condivisa, nel dialogo costante fra «locale» e «nazionale».

Testo di Massimo Montanari, professore di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, dove ha fondato il master Storia e cultura
dell’alimentazione. Presiede il comitato scientifico incaricato del dossier di candidatura della «cucina di casa italiana» all’Unesco.

Taormina, la cucina di chef Mantarro porta all’anima della Sicilia

Taormina, la cucina di chef Mantarro porta all’anima della Sicilia

Pasta con le Acciughe e Seppia con Pasta dentro e fuori: queste le due ricette che ci regala chef Mantarro, dopo una bella chiacchierata dal Ristorante Principe Cerami del Four Seasons San Domenico Palace

“Se vuoi mangiare bene vai dai Benedettini”, si diceva tra i pellegrini nel Medioevo, “ma se vuoi il vero lusso cerca i Domenicani”. Il ristorante, Principe Cerami, oltre a brillare di due stelle Michelin, è tra i più panoramici d’Italia: l’albergo che lo ospita, il Four Seasons San Domenico Palace, è un simbolo di Taormina e tra gli indirizzi più sognati del Mediterraneo. L’hotel ha riaperto a luglio dopo un grande restauro che lo ha riportato al suo splendore di convento domenicano del 1300 prima e di grand hotel della Dolce Vita poi – è qui che Elizabeth Taylor sfasciò un mandolino rubato agli orchestrali in testa al neo marito Richard Burton colpevole di socializzare troppo con le altre attrici di passaggio.

Four Seasons San Domenico Palace, Taormina

La cucina di cuore dello chef Mantarro

Ma Chef Massimo Mantarro, siciliano passato per il Plaza Athénée di Parigi e per il Kulm di Saint Moritz, qui è di casa da quasi 25 anni, e oltre al  Principe Cerami, 30 coperti, cura l’intera proposta gastronomica del San Domenico. Dalla colazione con il carrettino della granita siciliana e la sua brioche calda, al nuovo ristorante a bordo piscina: Anciovi, dove lo chef punta su pesce fresco e stili non solo locali, come il sushi siciliano, plateau di crudi e ostriche, pescato del giorno. E c’è il suo tocco anche al Rosso, ristorante con terrazza spettacolare sul mare dove lui si diverte a mettere in carta i piatti classici siciliani del cuore. C’è l’Arancino alla Catanese, con ragù di carne, ma vicino al Club Sandwich, che non è da sottovalutare; molti buongustai viaggiatori considerano il celebre panino a tre strati, solo apparentemente semplice da realizzare, è una sorta di test globale, un indice per testare la cucina di un hotel in tutto il mondo. 

Chef Mantarro, il cui intento dichiarato è “trasportare gli ospiti fino all’anima della Sicilia”,  è noto per la pacatezza, e per  una rielaborazione della ricca cucina siciliana alleggerita e contemporanea, ma nel rispetto dei sapori e della tradizione. Utilizza ingredienti che conosce a fondo in modo che diano il meglio, e li sa raccontare con poesia. Noi gli chiederemo una ricetta estiva, fattibile anche da chi non è pratico di alta cucina. L’appuntamento che ci dà  è un po’ da romanzo, adeguato al luogo antico: “Ci vediamo nella Sala della Grande Madia”.

Chef Mantarro

L’intervista – ricetta

La madia non è difficile da individuare, è alta tutta la parete, quasi da sacrestia: memoria dei fasti del convento, che era sì abitato da monaci, ma aristocratici e con a capo un principe sofisticato dedito al buon gusto. Chef Mantarro lì sotto, sembra protetto dall’atmosfera dei raffinati frati di 600 anni fa, comincia raccontando il cibo di questa terra, la Sicilia orientale, e ci regala una sua ricetta, anzi, alla fine saranno due.

C’è qualcosa di importante che dobbiamo sapere per avvicinarci alla cucina siciliana?

“Il mio è un concetto un po’ alleggerito perché mi rendo conto che alcune preparazioni che venivano fatte in passato come la Caponata, erano fatte per durare tanto tempo, anche 8, 10 giorni, perché era un qualcosa che veniva portato nei campi, lo mangiavano con del pane: spesso portavano queste pagnotte in cui scavavano, facevano un’incisione nel mezzo, mettevano la caponata all’interno e poi con l’esterno del pane andavano intingendo e mangiando”. 

Si parte da una cucina contadina.

“Sì, contadina, ma con carattere, perché il loro pensiero era di mangiare bene, con quello che avevano. Dunque le verdure sicuramente alla base di tutto, subito dopo c’erano i formaggi, poi venivano gli animali da cortile. Quindi parliamo di galline, faraone, conigli..” 

La consapevolezza del mangiare bene era già chiara?

“Certamente. io vengo da una famiglia contadina, mio padre lavorava una terra sua con mio zio qui nel catanese, per lo più agrumeti, e l’orto. Gli agrumi erano importantissimi, perché il primo limone veniva raccolto a fine settembre e l’ultimo limone in agosto, perché il limone ha 4 fioriture, e ognuno era ben distinto, per un certo uso. Il limone di questo periodo è il verdello, per esprimersi al massimo gli davano ‘la secca’, significa non dare da bere alle piante fino a 10 giorni, in modo che il succo rimanga concentratissimo”. 

Chef Mantarro

Ogni ingrediente ha già un pensiero dietro?

“Assolutamente, con mio padre avevo un grande rapporto e parlavamo di continuo della campagna. Lui per non usare i pesticidi potava e bruciava la legna di sera affumicando tutto, funzionava come un antiparassitario. La soluzione bio in pratica l’avevamo già, ma ora ci piace vincere facile. Anche per le pesche c’era un grande lavoro: venivano “incoppate”, protette sul ramo con i coppi di carta bianca, legati pesca per pesca a mano. Ancora qualcuno lo fa, per proteggerle dagli sbalzi di temperatura e dalle mosche, che pungono le pesche e le fanno marcire. 

Dalla campagna all’alta cucina è stato un attimo?

“I miei fratelli lavoravano entrambi nel settore alberghiero, e io ne sentivo parlare. Ma è una cosa che io ho capito realmente guardando mia madre, che era una grande cuoca, di una semplicità totale: dal nulla tirava fuori cose spettacolari. Da bambino la domenica mattina nel mo paese a Calatabianca, uscivo dalla chiesa perché facevo il chierichetto,  quando finiva la messa sentivo l’odore del suo ragù. Ma non era quello il suo cavallo di battaglia: era la pasta e piselli. In una prima buona metà della mia vita è stata con i piselli secchi che faceva seccare mio padre, poi diventarono freschi. È come una minestra, con una patata, e la cipolla. Quando ne rimaneva, il giorno dopo si faceva fritta col pane. Croccante, squisita”.

Lei questa pasta la sa fare?   

“La faccio, ma non è quella dei miei ricordi. Di certo la materia prima è cambiata”. 

Four Seasons San Domenico Palace, Taormina

Non sarà anche un po’ di effetto “madeleine”?

“Questo del ricordo quando si parla di replicare certi piatti che abbiamo molto amato secondo me è il 30 per cento del problema. Credo sia più un fatto di manualità. c’è un passaggio in più, qualcosa che noi non sappiamo replicare, ed è anche una questione di intesa col prodotto, che è unica in ognuno di noi, e non si può ripetere. Come il rito del pane, perché il lievito era comune, veniva passato nel quartiere, ognuno aveva il suo giorno, a mia madre toccava il martedì, e quel giorno aveva pronti da cuocere dei biscotti, o brioscine, qualsiasi cosa per sfruttare il calore”. 

Ci ha già regalato una sua ricetta, la Seppia con pasta dentro e fuori (la trovate al fondo), ce ne darebbe anche una più facile e veloce, adatta all’estate?

“La pasta con le acciughe. Non c’è bisogno di dosi, ve la racconto qui. L’idea è quella di una pasta con le sarde, ma non mettiamo le sarde e ci mettiamo invece le alici. Mentre la vera salsa con le sarde è una lunga cottura e ci va tanto finocchietto, poi lo zafferano,  il pomodoro, uva passa e le sarde stracuociono, e concentri il gusto in una pasta fatta a timballo, Io l’ho rivista un po’ più fresca. Quindi ecco cosa facciamo: un fondo di cipollotto, olio d’oliva, un aglio intero, una punta di peperoncino. Facciamo questo soffritto leggero, togliamo l’aglio, mettiamo dei pomodorini spellati, perché vogliamo che in cottura sia veloce e rimangano intatti nella loro acidità e nella loro dolcezza, tagliati a metà. Alla fine di questo procedimento, ho già buttato le linguine, tolte le linguine dall’acqua a tre quarti di cottura, messe in padella con un goccio di acqua di cottura e facciamo cuocere, rifiniamola cottura, un minuto prima metiamoi le alici sfilettate e pulite, e finocchietto selvatico tritato fine, a crudo.

E la mollica?

“Giusto, è la classica mollica ‘turrata’, abbrustolita. Si fa in padella, un tempo si faceva con il pane di recupero, noi lo facciamo con pane bianco, qualsiasi, l’importante è che non sia una baguette. Grattugi questo pane, in una padella grande metti un po’ di olio, un po’ di cipollato tritato, anche lì una puntina di alici  in quel caso sotto sale, fai sciogliere le alici, butti giù la mollica e abbassi il fuoco e rimestando piano piano vedrai che da bianca diventa brunita quando ritieni che il fondo di brunitura è tostato per i tuoi gusti, la metti sulla pasta. Le dosi non ci sono, si va a occhio. Per Ferragosto è perfetta”. 

La ricetta dello chef: Seppia con Pasta dentro e fuori

La ricetta proposta da Chef Mantarro per LaCucinaItaliana.it è la Seppia con pasta dentro e fuori, che è anche il suo piatto-icona per la campagna #FSMasterdish promossa dagli hotel Four Seasons nel mondo: executive chef scelti tra tutti gli alberghi  sottopongono un loro piatto iconico.

L’idea è quella di rivisitare un piatto tradizionale siciliano in chiave contemporanea. Chef Massimo Mantarro ha scomposto il piatto mettendo il nero di seppia nella pasta, creando un ragù di seppia bianco (normalmente è nero) e aggiungendo la fonduta di zucchine per dare al piatto un elemento vegetale. Le consistenze sono morbide e cremose con la sorprendente croccantezza di un calamaro fritto.

SEPPIE CON PASTA DENTRO E FUORI

Ingredienti per 4 persone:

Per lo stufato
Seppia di media grandezza: 1kg
Cipolla: 100 gr
Pomodori tondi lisci: 100 gr
Steli di prezzemolo a piacere
Basilico a piacere
1 spicchio d’aglio non sbucciato
Acqua frizzante: 500 ml
Sale, pepe, zucchero a piacere
Olio extravergine d’oliva a piacere

 Per la crema di zucchine:
Zucchine 400 gr
1 spicchio d’aglio, non sbucciato
Pepe rosso fresco a piacere
Sale e pepe a piacere                                            

Per gli spaghetti:
Spaghetti al nero di seppia: 280 gr
Cipolla verde: 50 gr
1 spicchio d’aglio non sbucciato
Olio extravergine d’oliva a piacere
Pepe rosso fresco a piacere
Spezzatino di seppia: 200 gr
Limone: 1                                                     

Preparazione:

Per lo stufato:

Aggiungere tutti gli ingredienti nella pentola a pressione. Lasciare cuocere lo stufato, travasare il brodo e metterlo da parte.

Per le seppie marinate:

Avvolgere le seppie pulite in una pellicola trasparente e metterle in un congelatore. Una volta congelate, tagliarle nell’affettatrice a forma di tagliatelle. Metterle in acqua calda (60 gradi Celsius) per recuperarle, scolarle e condirle con olio d’oliva, sale, pepe e aneto selvatico tritato.  

Per la crema di zucchine:

Tritare le zucchine, soffriggere in una padella con aglio, olio d’oliva. Frullare le zucchine (togliendo l’aglio) e aggiungendo parte dell’acqua di cottura. Frullare fino ad ottenere una crema liscia e liquida. Tenere sul fuoco con un filo d’olio d’oliva.

Gli spaghetti:

Rosolare il cipollotto con l’olio, l’aglio e il peperoncino. Aggiungere lo stufato di seppia.

Cuocere la pasta, quando è a metà cottura, aggiungerla allo spezzatino, aggiungere sale e pepe a piacere, buccia di limone grattugiata e un filo d’olio extravergine d’oliva. Servire in un piatto fondo accompagnato dalla crema di zucchine e dalle seppie marinate.

Testo di Laura Fiengo

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