Un mercato che unisce città e campagna

Un mercato che unisce città e campagna

I prodotti locali sono espressione del territorio di origine, ma il loro uso nei piatti avviene all’insegna della contaminazione tra le più diverse realtà nazionali

Il Paese delle cento città: così è stata definita Italia. Essa è anche il Paese delle cento cucine, perché ogni città ha una storia, una cultura, una cucina diverse. Ma proprio nelle città si è elaborata e trasmessa una cultura gastronomica che ha subito oltrepassato la prospettiva locale per assumere una dimensione nazionale, secondo un meccanismo molto semplice. La città, grande o piccola che sia, è il capoluogo di un territorio che a essa fa riferimento sul piano amministrativo e produttivo. Ma la città è anche il luogo per eccellenza dello scambio commerciale e culturale. In questo senso la città rappresenta il territorio, le sue risorse, la sua cultura (anche gastronomica) e al tempo stesso ne diffonde ed esporta i saperi, le tecniche, i prodotti.

È per questo motivo che il patrimonio gastronomico italiano viene spesso ricondotto a identità cittadine, sia quando si tratta di ricette (risotto alla milanese, fegato alla veneziana, pizza napoletana…) o di preparazioni artigianali (mostarda di Cremona, mortadella di Bologna, pesto genovese…) che in qualche modo possiamo ritenere veramente «cittadine», sia quando si tratta di prodotti legati alla campagna, al bosco, ai monti, al mare: radicchio di Treviso, gallina livornese, olio di Bitonto, insalata romana, noci di Sorrento, tartufo di Alba… Prodotti che, evidentemente, non nascono in città. Ciò che si enfatizza, nell’immagine e nella rappresentazione di queste e di mille altre specialità, è il luogo di
mercato più che l’area di produzione. Il centro che raccoglie ed esporta quei prodotti.

La cucina in tal modo si manifesta come luogo dello scambio e della contaminazione, oltre che (più che) dell’origine. Se un prodotto può essere espressione di un territorio, il suo uso in una ricetta o in un menù è quasi sempre frutto di un’ibridazione, sicché l’espressione «cucina di mercato» sarebbe forse preferibile a quella che, troppo frettolosamente, siamo soliti definire «cucina di territorio». Ogni gastro-toponimo (ovvero, ogni nome di luogo che designa specialità gastronomiche) presuppone da un lato il radicamento territoriale di un prodotto o di una ricetta, dall’altro il fatto che quei prodotti o quelle ricette circolino, vengano usati o realizzati altrove. Nessuno chiamerebbe «parmigiano» un formaggio che fosse consumato solo a Parma.

La frequenza dei gastro-toponimi è direttamente proporzionale alla circolazione delle culture locali. Dunque la quantità di prodotti e ricette a denominazione di origine, che caratterizza da secoli la gastronomia italiana, rispecchia una profonda condivisione della cultura alimentare da una parte all’altra del Paese. Le diversità locali non sono restate chiuse in sé stesse ma sono cresciute nel segno del confronto e dello scambio. È in questo modo che l’Italia delle cento città e delle cento campagne ha dato vita a infinite differenze e, nel contempo, a una cultura ampiamente condivisa, nel dialogo costante fra «locale» e «nazionale».

Testo di Massimo Montanari, professore di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, dove ha fondato il master Storia e cultura
dell’alimentazione. Presiede il comitato scientifico incaricato del dossier di candidatura della «cucina di casa italiana» all’Unesco.

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