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Un pranzo artistico memorabile | La Cucina Italiana

La Cucina Italiana

Era l’inizio degli anni Duemila. Critico agli esordi, ero stato chiamato da una galleria d’arte milanese a redigere il testo di presentazione della mostra di Wolfgang Laib (1950), un artista tedesco che ha raggiunto fama internazionale sposando forme elementari e simboliche – il quadrato, l’ovoide, la ziqqurat – con materiali viventi come polline, latte, riso, cera d’api, insieme ad altri più tradizionali come il legno e il marmo; una poetica, la sua, ispirata tanto al Minimalismo quanto alla spiritualità orientale. Al posto della classica introduzione al catalogo avevo fatto un florilegio di citazioni molto eterogenee – da Novalis a un manuale di apicoltura –, accostandole a una serie di immagini che riecheggiavano le creazioni dell’artista. Il gioco colto gli piacque, tanto che mi disse: quando vuoi vieni a trovarmi a casa. Intendeva la sua casa in un paesino a nord del lago di Costanza, dove passa la primavera e l’estate per raccogliere i pollini necessari al suo lavoro; mentre per il resto dell’anno abita nell’India meridionale, dove ha viaggiato a lungo da giovane.

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Champagne, alta cucina e arte

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Non senza emozione, avevo accettato quell’invito per me così prestigioso e avevo chiesto a un’amica di Stoccarda che studiava arte contemporanea, Heike, di accompagnarmi. A sorpresa, lei si dimostrò riluttante, sostenendo – bizzarra idea, frutto della sua insicurezza – che gli artisti tedeschi detestassero gli studenti d’arte contemporanea. La persuasi dicendo che la visita sarebbe stata un breve saluto. Invece, una volta arrivati, Laib e sua moglie Carolyn, felici della visita, ci invitarono a pranzo. Il luogo era di una bellezza davvero fuori dal comune. La casa, collocata sul versante di una bassa collina, aveva un’impronta modernista che mi ricordava la «Casa sulla cascata» di Frank Lloyd Wright; più in basso c’erano un casolare tradizionale dove vivevano i genitori di lui e, in un fienile ristrutturato, lo studio. Gli spazi interni coincidevano con il senso del suo lavoro artistico: nudi pavimenti di granito, rari mobili, poche e intense opere d’arte: un frammento di calligrafia islamica, un piccolo dipinto su tavola toscano del Trecento, un meraviglioso Kounellis. E poi c’erano grandi vetrate aperte sul paesaggio, che lo rendevano bello e astratto come un paravento giapponese.

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Cucina e arte: Chef Giuseppe Bruno, patrimonio Italia a New York

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Il pranzo (rigorosamente vegetariano): a terra, scalzi, su una stuoia, senza altre posate che il cucchiaio per sorbire una zuppa di pasta, latte e menta. Poi la mia memoria salta a delle arance tagliate a fette e dei pezzi di cioccolato. In mezzo forse c’era qualcos’altro, ma io ero emozionato e l’ho cancellato. Per di più ero teso a evitare le goffaggini di chi mangia in una posizione del tutto insolita. E poi ero imbarazzato dalla mancanza di convivialità della mia amica: palesemente a disagio, parlava a monosillabi. E, dato che in quella casa nessuno fumava, pur essendo una fumatrice accanita non osava accendersi una sigaretta. Di lì a poco le arrivò un altro colpo: la signora raccontava di come fosse dispiaciuta perché la figlia adolescente era sempre vestita di nero in quella casa dove tutto era un inno alla luce e al colore. E la mia amica indossava un abito lungo, ampio e… nero!

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Idee per una cena vegetariana: 20 portate da provare

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Il cioccolato tornò nel pomeriggio insieme al tè, a conclusione del momento più alto di quella giornata: l’artista ci mostrò le sue opere nello studio mentre la luce del giorno pian piano svaniva, fino a quando, per lasciarle vivere ancora qualche istante, accese un’alta e sottile candela di cera candida appoggiandola direttamente sul pavimento. Il tutto, nel più grande silenzio.
«Fermatevi a cena!», esclamarono a un certo punto i padroni di casa. Ma io non volevo abusare della pazienza della mia accompagnatrice. Uscendo, tutto imbevuto della nobiltà del luogo, ero pieno di alti pensieri che spaziavano fra Goethe e Gandhi. Eravamo appena saliti in macchina che Heike, esasperata, sbottò: «Grazie a Dio è finita! Adesso ti porto a Stoccarda, nel quartiere delle prostitute, a mangiare hot dog, fumare e rintronarci di musica techno». Anche per lei, a suo modo, era stata una giornata memorabile…

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» Semolino fritto – Ricetta Semolino fritto di Misya

Misya.info

Preparate il semolino: iniziate a scaldare il latte con la buccia di limone, quando sarà caldo, ma ancora non in ebollizione, aggiungete lo zucchero e mescolate per farlo sciogliere.
Quando il latte starà per bollire eliminate la buccia di limone e incorporate il semolino, mescolando subito con una frusta, in modo da evitare grumi, e cuocete per circa 10 minuti: quando il semolino inizierà a staccarsi dalle pareti, sarà pronto.

Togliete dal fuoco, aggiungete 1 uovo e la vaniglia, mescolate velocemente e trasferite nello stampo (meglio se di vetro) leggermente unto, livellando la superficie con le mani inumidite.
Coprite con pellicola trasparente e lasciate riposare in frigorifero per almeno 3 ore o anche tutta la notte.

Riprendete lo stampo, dividete il semolino in rettangoli o rombi con un coltello a lama liscia (potete bagnarlo o ungerlo leggermente per non far attaccare il composto alla lama) e impanate passando i pezzetti prima nell’uovo sbattuto con un pizzico di sale e poi nel pangrattato.

Friggete i rettangolini in olio già caldo, girandoli per farli dorare in maniera uniforme e facendoli asciugare poi su carta da cucina.

Il semolino fritto è pronto, servitelo subito.

» Heart tarts – Ricetta Heart tarts di Misya

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Innanzitutto preparate la pasta frolla: lavorate il burro con lo zucchero, quindi incorporate prima le uova (in foto ne vedete 2 perché inizialmente avevo fatto doppia dose di pasta frolla), poi anche la farina.

Una volta ottenuto un panetto omogeneo, avvolgetelo con pellicola trasparente e fatelo riposare in frigo per almeno 30 minuti.

Riprendete la frolla, stendetela sul piano di lavoro leggermente infarinato e ricavate le formine: le mie erano da circa 10 cm.
Sistemate lo stecco da gelato (io inizialmente ne avevo usato uno da cake pops, ma era troppo sottile per reggere il peso delle crostatine) e riempite di marmellata (non esagerate, o vi uscirà in cottura, com’è successo a me).

Chiudete con una seconda sfoglia di frolla, sigillate bene i bordi e cuocete per circa 215 minuti a 180°C, in forno ventilato già caldo.
Una volta pronte, lasciate raffreddare completamente.

Preparate la ghiaccia reale, semplicemente mescolando insieme zucchero e albume e poi unendo colorante a piacere (io ho diviso la ghiaccia in 2 ciotoline e ne ho colorata solo la metà).

Procedete con la decorazione, con la ghiaccia ed eventualmente zuccherini a forma di cuore e poi fate asciugare.

Le heart tarts sono pronte, non vi resta che servirle.

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