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Ossobuco alla milanese: ecco come farlo perfetto

La Cucina Italiana

Ci sono alcuni piatti che richiedono tempo e cura, per onorare anche le radici della cultura e della tradizione che si portano dentro. Come l’ossobuco alla milanese, piatto tipico della cucina lombarda, che unisce gusto e semplicità. Di solito, viene servito con il risotto alla milanese come “contorno”, questo vi fa capire l’impegno che ci vuole nell’affrontarlo, sia nella preparazione che nel mangiarlo. Ma come prepararlo? Qui sotto vi forniamo la ricetta, passo passo, con tutti i trucchi per fare il vero ossobuco alla milanese. Potete leggere nella nostra gallery, qualche consiglio su come rendere gli ossobuchi alla milanese ancora più gustosi e su come conservarli, se mai dovesse avanzare.

Ossobuco alla milanese: la ricetta

Ingredienti

  • 4 ossibuchi di vitello
  • 500 ml di brodo di carne
  • 3 cipolle bionde
  • 50 g di farina
  • 3 teste d’aglio
  • 1 mazzetto di prezzemolo
  • 1 limone (scorza grattugiata)
  • 80 g di burro
  • 1 bicchiere di vino bianco
  • olio, sale e pepe qb

Procedimento

  1. Cominciamo con il rosolare velocemente le cipolle nell’olio, poi sfumatele con il vino bianco e lasciatele stufare.
  2. Preparate ora gli ossibuchi: con delle forbici, incidete la carne ai lati dell’osso, per evitare che si arricci in cottura. Poi, ripassateli nella farina.
  3. Rimuovete le cipolle e mettetele da parte: nella stessa casseruola, aggiungete dell’altro olio, fate sciogliere il burro, poi adagiate gli ossibuchi.
  4. Cuoceteli a fiamma alta per 5 minuti circa, di modo che si formi la crosticina, poi girateli sull’altro lato e fate altrettanto.
  5. Sfumate con dell’altro vino, aggiungete il brodo e le cipolle cotte, ponete il coperchio e fate cuocere per circa mezz’ora a fuoco dolce; a questo punto, girate la carne e fate cuocere un’altra mezz’ora.
  6. Nel mentre, preparate la gremolada: ovvero grattugiate la scorza di un limone, poi tritate il prezzemolo lavato e mondato e tritate anche l’aglio, privandolo dell’anima.
  7. Una volta che gli ossibuchi son pronti, serviteli con una porzione di risotto alla milanese e spolverizzandoli con l’immancabile gremolada.

Sfogliate la gallery per conoscere tutti i segreti per fare un ossobuco alla milanese a regola d’arte!

I trucchi per il perfetto ossobuco alla milanese

Osterie d’Italia: le migliori 15 da nord a sud

Osterie d'Italia: le migliori 15 da nord a sud

Si fa presto a dire osterie d’Italia (o trattorie). Mai come adesso è un termine che si presta – soprattutto in alcune regioni – a deviazioni più o meno leggere dalla filosofia che il sentimento comune le assegna dalla notte della cucina. Lo si vede anche dalle scelte delle due guide che ogni anno le valutano: I Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso sceglie i tre Gamberi (36 nell’ultima edizione), Osteria d’Italia di Slow Food – quindi ancora più specializzato nella tipologia – è stata particolarmente generosa nel volume appena presentato, assegnando 311 Chiocciole (forse con troppa generosità, ma è un nostro personalissimo parere). In ogni caso, con evidenti differenze tra regione e regione, per questioni di pubblico e prezzo, c’è ancora una rotta valida dal Brennero a Pantelleria fatta di materie prime del territorio, rispetto della tradizione (talvolta con tocchi d’autore e/o innovativi) e sostenibilità. Aspetto che se per molti ristoranti è novità recente, per osterie e trattoria – soprattutto nelle zone meno ricche – è storia antica e naturale. Non si buttava mai niente, la cucina del recupero per molti non è un’invenzione di marketing.

L’ospitalità delle osterie

E poi c’è il valore dell’ospitalità che, come dice Carlin Petrini, guru di Slow Food, «vuol dire garantire al cliente un atteggiamento di benevolenza, il più sincero possibile. L’accoglienza migliore è quella che esprime l’identità di chi gestisce il locale e del locale stesso». La buona notizia è che molti dei locali sono stati aperti di recente, soprattutto, da giovani cuochi e cuoche (non di rado patron o soci) che tra i tanti modelli offerti dalla ristorazione contemporanea, hanno scelto di calzare proprio quello dell’osteria. È il caso di professionisti che, dopo svariate esperienze all’estero, in segmenti totalmente diversi come quello del fine dining e in ristoranti di ben altro livello, scelgono di seguire «una via all’osteria» che garantisce un futuro alla tipologia mentre si discute del destino dell’alta cucina.

L’osteria di oggi

Torniamo al tema iniziale: cosa è oggi un’osteria? Per noi sono i locali che incarnano al meglio l’autenticità della cucina italiana, una cucina semplice, priva di barocchismi ed eccessi di lavorazione che hanno il solo fine di stupire. Una cucina che non cerca di uniformarsi in un unico stile con cotture millimetriche, ma sottolinea le differenze e non si piega alle mode. Poi è giusto non rimanere bloccati ed ecco che Osterie d’Italia, quest’anno, ha allargato la visione tradizionale a enoteche con cucina, agriturismi, ma anche alternative come pastifici, pub e gastronomie le cui caratteristiche sono, in primis, l’attenzione e l’aderenza al territorio. Ma al tempo stesso ha assegnato le prime Chiocciole anche ai posti segnalati negli inserti, locali la cui offerta e impostazione sono interpreti di una tradizione gastronomica autoctona, rintracciabile esclusivamente nella regione di appartenenza. E sono ben 15 ad aver ricevuto il massimo riconoscimento: un trippaio fiorentino, 4 indirizzi di supplì e pizza al taglio romani, 2 indirizzi per gli arrosticini abruzzesi, 7 pizzerie campane e un indirizzo per il morzello calabrese.

Ecco le new entry di quest’anno e, a seguire, la nostra personalissima selezione delle (nuove) osterie immancabili, dove vino, cibo, atmosfera e gente creano un mix imperdibile. Prenotate sempre.

Cibo stampato in 3D: ENEA spiega cos’è e perché è (già) futuro

La Cucina Italiana

Niente di futuristico: il cibo stampato in 3D è tra noi. È un creativo terreno di sperimentazione per chef e pasticcieri – l’ultimo esempio è il tiramisù stampato con gli esperti della Tiramisù World Cup -, una tecnica che usano diverse aziende anche per creare prodotti di largo consumo come la pasta, ed è destinato a diventare sempre più popolare per merito della scienza che fa continui passi in avanti. A che punto siamo ora e cosa succederà in futuro? Cosa spinge gli scienziati a sviluppare tecniche sempre più innovative per il cibo stampato in 3D? Abbiamo posto questa e molte altre domande a Silvia Massa, ricercatrice della Divisione Biotecnologie e Agroindustria di ENEA – Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – che alla XI edizione della Maker Faire Rome ha presentato anche un progetto relativo al 3D printing del cibo.

Cosa è il cibo stampato in 3D?

«Tecnicamente la tecnologia di stampa tridimensionale è un processo additivo di deposizione di materiale strato per strato che produce oggetti tridimensionali a partire da un modello computerizzato in tre dimensioni. Si parla di cibo 3D quando si usano stampanti alimentari specificamente destinate. Normalmente si stampa per estrusione di materiali commestibili abbinati con elementi che mantengano la forma del cibo che è stata progettata».

Come funziona una stampante per il cibo in 3D?

«Si parte da un modello digitale che si può creare al computer o scansionando un oggetto, che poi viene “scomposto” in sottili strati orizzontali, ciascuno dei quali corrisponde a uno strato fisico che la stampante aggiungerà per creare l’alimento. La creazione del modello genera un file con le istruzioni per la creazione di ciascuno strato da parte della stampante. Parte fondamentale del processo è la preparazione dell’inchiostro con un materiale appropriato: ogni strato deve essere autoconsistente e contemporaneamente fondersi al precedente per creare una struttura tridimensionale solida, pronta per essere consumata sul momento o previa cottura e/o essiccazione».

Quali cibi si possono stampare in 3D?

«Le stampanti 3D alimentari sono progettate per poter utilizzare una grande varietà di materie prime, purché sia possibile, a partire da quegli ingredienti, creare “inchiostri” con caratteristiche (viscosità, elasticità, etc.) idonei alla stampa. Non tutte le matrici alimentari, però, sono adatte a questa tecnologia (spesso sono necessari degli additivi) e i risultati possono variare a seconda degli ingredienti di partenza e della complessità del modello 3D. Puree di vari ortaggi e legumi, per esempio, si possono stampare grazie agli additivi (come trealosio, fecola di patate, alginato o agar, k-carragenina, gomma xantana)».

A cosa serve stampare il cibo in 3D?

«I primi esempi di stampa 3D alimentare sono stati principalmente ludici, in genere limitati a dolciumi a base di cioccolato, caramello o gelatine, decorazioni, impasti a base di farina tra cui pizza, pasta e biscotti, surrogati della carne. In tempi più recenti, questa tecnica ha rivelato il proprio potenziale mostrando tante altre applicazioni, inclusa la personalizzazione dei cibi in base alle esigenze dei singoli consumatori e la riduzione degli sprechi alimentari. Ad esempio, la 3DP (3D printing, ndr) è stata utilizzata per ricreare un cibo composito costituito da puree (tonno, bieta rossa, zucca) di consistenza adatta a pazienti disfagici e dotata di forme accattivanti per rendere il cibo più appetibile. Questo ha un impatto sulla salute e sulla qualità della vita».

Si può stampare in 3D anche la carne coltivata?

«La carne coltivata e la stampa 3D sono due cose distinte: la prima è ottenuta da cellule staminali in laboratorio, mentre la stampa 3D di alimenti a base di carne utilizza la tecnologia di stampa 3D per creare piatti a base di carne usando carne macinata o miscele di carne. Tuttavia in un caso la carne coltivata in laboratorio incontra la 3DP. Per produrre carne in coltura, infatti, le cellule staminali muscolari animali vengono coltivate su strutture di supporto che consentono il trasporto di sostanze nutritive e donano consistenza e struttura. È possibile creare queste “impalcature” utilizzando una tecnologia emergente di stampa 3D, mediante la quale le impalcature diventano parte del prodotto a base di carne, a base di gelatina e collagene».

Perché la produzione di cibo con questo procedimento è sempre più diffusa?

«Consumatori e industria sono sempre più interessati. Si stima che il valore di mercato del 3D food printing entro il 2025 raggiungerà i 360 milioni di euro. Di base c’è una necessità: gli esperti delle Nazioni Unite prevedono che entro il 2100 la popolazione mondiale avrà superato la soglia dei dodici miliardi di persone con conseguente e ulteriore erosione delle risorse naturali, peggioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, particolarmente nei Paesi Emergenti. Immaginare come sfamare così tante persone, nelle condizioni che si prospettano, è probabilmente la sfida maggiore con la quale l’umanità dovrà confrontarsi nel prossimo futuro. La stampa 3D sembra destinata a giocare un ruolo di rilevanza nell’alimentazione del futuro, soprattutto in uno scenario in cui le pietanze siano orientate a dare nuova vita agli scarti della produzione alimentare e contenere al tempo stesso la giusta combinazione e misura di nutrienti e molecole bioattive necessari a sostenere una vita sana».

Cosa potrebbe cambiare con la diffusione del cibo stampato in 3D su larga scala?

«L’applicazione della stampa 3D a fini alimentari potrebbe “democratizzare” l’accesso a esperienze culinarie del tutto nuove. Gli esempi sono tanti: la 3DP può permettere la produzione di cibo personalizzato cioè anzitutto “strutturato” e basato su più componenti e categorie nutrizionali, ma anche arricchito con i nutrienti necessari e quindi adattato allo stato di salute, delle carenze nutrizionali. Non da ultimo, il cibo prodotto con questo sistema può contribuire a recuperare sottoprodotti della trasformazione agroalimentare (per esempio della frutta) ai fini dell’arricchimento nutrizionale, per una maggiore sostenibilità ambientale».

Quali sono le applicazioni future che noi consumatori possiamo immaginare? 

«In un futuro non molto lontano potremmo trovare tra i corridoi di un supermercato preparati a elevato valore nutrizionale da poter inserire all’interno di una stampante 3D domestica per ottenere uno spuntino salutare con sapore, consistenza, texture e forma che più ci piacciono. In particolare il futuro che in Enea vediamo è legato a una visione della stampa alimentare 3D che possa aiutarci a superare le sfide ambientali attuali. Ad esempio, le piante sono da sempre considerate fonte di principi nutritivi necessari per la nostra salute (per esempio per la presenza di antiossidanti), ma in futuro sarà sempre più difficile fornire alle persone alimenti di buona qualità di origine vegetale perché le prospettive di sicurezza alimentare sono influenzate dall’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute e sulla produttività delle piante, con effetti sull’intero settore agroalimentare. Inoltre, la prospettiva di aumentare la superficie coltivabile è insufficiente e l’agricoltura intensiva rappresenta già un onere ambientale, essendo responsabile di circa il 20% delle emissioni globali e comportando l’uso di pesticidi. Per questo esiste una forte necessità di nuovi sistemi di approvvigionamento di materie prime commestibili di origine vegetale finalizzate a una dieta sana e sicura. Le cellule vegetali possono essere coltivate in bioreattore ed essere sfruttate come una biomassa alimentare completamente nuova per il consumo umano. Studi condotti presso prestigiosi istituti di ricerca europei indicano come, con questo sistema, molte colture (ad esempio derivanti da bacche e piccoli frutti) conservino i rapporti qualitativi e quantitativi di sostanze nutritive di riferimento, digeribilità, contenuto in carboidrati, fibre, colori e caratteristiche organolettiche simili al frutto fresco di partenza».

Sarebbe come spostare la produzione dai campi al laboratorio?

«Si, è così. Questo approccio alternativo di produzione di alimenti vegetali sposterebbe il paradigma della produzione agricola dal campo al laboratorio in considerazione degli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute e produttività delle varietà di interesse agronomico, divenendo indipendente dalla qualità dei suoli coltivabili e senza intaccare risorse naturali. Sulla base di questo principio ENEA non solo effettua ricerca per valutare il potenziale delle cellule vegetali come ingredienti alimentari, ma sta studiando le proprietà delle materie prime, seconde e di scarto provenienti dall’industria agroalimentare vegetale per creare delle ricette di “inchiostri” da combinare o no alle cellule vegetali e che possano portare alla stampa di alimenti di forma e consistenza opportune ai fini della produzione di alimenti ad alto valore aggiunto e sani senza aggiunta di additivi strutturanti».

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