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cosa si mangiava nella Roma rinascimentale

cosa si mangiava nella Roma rinascimentale

Un tour guidato nel cuore di Trastevere per vivere un’esperienza gastronomica autentica, immersi nel Rinascimento romano

Roma, oltre ad aver avuto il suo periodo di grandezza in epoca antica, durante il Rinascimento, fu meta di architetti e artisti che cambiarono per sempre la storia dell’arte.

E proprio nelle loro opere si trovano preziosi spunti per ricostruire anche le abitudini alimentari di quel periodo. Per questo tour ci faremo guidare dai luoghi e dalla storia di due grandi protagonisti di questo periodo, ma di due momenti diversi: Raffaello Sanzio (1483 – 1520) e (Francesco Borromini 1599 – 1667).

Ammirare gli affreschi di Raffaello a Villa Farnesina

Il nostro viaggio inizia a Villa Farnesina, la prima dimora suburbana ai tempi del XVI secolo.

Nel 1505 Agostino Chigi, ricco banchiere senese e noto mecenate e mercante d’arte, acquistò a Roma un grande terreno sulle sponde del Tevere. A quell’epoca la zona di Trastevere era considerata extra urbana e Agostino la scelse proprio per costruire una residenza lontana dal movimentato centro città. Villa Chigi, così chiamata prima dell’attuale nome dovuto al passaggio di proprietà al cardinale Alessandro Farnese alla fine del XVI sec., fu la prima “villa suburbana” di Roma e divenne subito un modello architettonico rinascimentale. In essa convergevano diversi elementi che furono poi copiati in molte altre dimore dell’epoca, come il suo rigoglioso giardino, che arrivava fino alle sponde del Tevere, e ai suoi affreschi straordinari, realizzati dai più grandi artisti dell’epoca come Raffaello, Peruzzi e Sodoma.

La parte della villa più celebre è la loggia di ingresso, progettata da Raffaello Sanzio come un pergolato per collegare idealmente gli ambienti interni con il giardino e il fiume senza soluzione di continuità, creando una sorta di illusione ottica.
Raffaello pensò nei dettagli tutti gli affreschi del loggiato e si concentrò sulla realizzazione dell’imponente ciclo delle storie di Amore e Psiche, individuando poi Giovanni da Udine come suo allievo più adatto a dipingere i festoni botanici ornamentali che dividono le varie scene pittoriche.
Questo motivo decorativo, realizzato nel 1517, oltre a essere una rappresentazione del giardino esterno, voleva essere specchio di tutte le varietà fruibili e apprezzate in quel tempo, comprese quelle provenienti dall’America, scoperta appena vent’anni prima.

Gli affreschi di Raffaello nella loggia di Villa Farnesina, 1517.
Gli affreschi di Raffaello nella loggia di Villa Farnesina, 1517.

Diversi documenti attestano che questo può essere considerato il più antico documento dell’introduzione delle piante riportate da Colombo in Europa.
Un’eccezionale testimonianza sulla biodiversità di frutti e ortaggi conosciuti in Europa dopo la scoperta del Nuovo Mondo, un inventario figurativo di oltre 170 specie vegetali.
Un’enorme varietà di piante spontanee e coltivate, dalle più comuni come il sambuco o l’infiorescenza del finocchio a fiori come rose, gigli, iris e anemoni,  o di ortaggi come carciofi, cavoli, carote e rape.
Tra le verdure si notano anche le specie importate dall’America come la zucca gialla, la zucchina e alcune pannocchie di granturco.
Detto questo, ci sono anche alcuni grandi assenti che ci aspetteremmo di vedere rappresentati: la patata, che però all’epoca non era ancora stata importata poiché Colombo non la incontrò mai nei suoi viaggi, ma venne scoperta dallo spagnolo Pizarro nella seconda metà del Cinquecento. Così come pure i pomodori, che non sono stati rappresentati perché introdotti in Europa nella seconda metà del Cinquecento, e che non ebbero fortuna subito in quanto considerati frutti di pianta velenosa (per la sua grande quantità di solanina) e utilizzata per diversi secoli solo come pianta ornamentale.

Scoprire gli antichi forni di Trastevere

A quei tempi Trastevere non era il quartiere romantico e un po’ radical di oggi, bensì un sobborgo suburbano popolare conosciuto soprattutto per le botteghe artigiane e per i numerosi forni che producevano il pane per tutta Roma.
Raffaello Sanzio, mentre lavorava agli affreschi di Villa Farnesina si innamorò di Margherita Luti, figlia di un fornaio, che aveva bottega proprio nella casa appena al di là della Porta Settimiana, all’incrocio con via Santa Dorotea. L’infatuazione di Raffaello per la bellissima giovane di Trastevere trova testimonianza nel suo celebre dipinto datato 1518 La fornarina, che ritrae lo stesso soggetto anche di un’altra sua celebre opera La velata.
Ancora oggi si può vedere la finestrella dalla quale pare si affacciasse la fornarina, nella casa con all’interno un tipico orto romano, dove fino a poco tempo fa c’era la storica Osteria Romolo.

Se volete provare alcune tra le esperienze gastronomiche più autentiche di Trastevere i consigli sono di andare in alcuni dei forni più tradizionali: per i dolci allo storico biscottificio Innocenti, mentre per la classica pizza romana al forno La Renella. Per provare un’esperienza davvero unica andate alla chiesetta di Santa Barbara: lì di fianco, un po’ nascosto, c’è il Filettaro, una minuscola osteria centenaria: pare che i suoi filetti di baccalà pastellati e fritti siano senza eguali.

Dove provare un menu rinascimentale

Dirigendosi dalla casa della fornarina verso via Garibaldi, che porta al Gianicolo, all’angolo (guarda caso) con via dei Panieri, troviamo il ristorante Il Ferro e il Fuoco dall’aspetto moderno, che però nasconde un menu davvero unico, ispirato alle antiche ricette rinascimentali.
Lo chef Emidio Gennaro Ferro insieme a Elena Prandelli, direttrice dell’hotel che ospita il ristorante e grande appassionata di storia e gastronomia, hanno realizzato attraverso lo studio accurato delle pietanze dell’epoca tra fine Quattrocento e metà Seicento, un percorso gastronomico molto interessante.

A cominciare dall’aperitivo a base di acqua di rose, bevanda molto in voga all’epoca, ottenuta dal filtraggio di petali di rose e l’aggiunta di Malvasia, uno dei vini più comuni in Italia in epoca rinascimentale.

La prima portata del menu degustazione prevede un piccolo pasticcio con ragù di carni bianche e salsa al tartufo.
Da notare che a fine Quattrocento, grazie ai gusti dei de’ Medici, uno dei piatti più graditi nelle corti nobiliari era il pasticcio di pasta frolla con ragù di piccione. Il piccione infatti era considerato l’animale più vicino al cielo, quindi a Dio, e per cui riservato solo alla nobiltà e ai ceti più elevati. Il pesce, al contrario, era considerato il cibo più impuro, proprio perché viveva in acqua, un mondo in opposizione al mondo celeste.
Il popolo mangiava legumi, ortaggi e, quando possibile, carne di polli e maiali domestici.

La seconda portata prevista del menu degustazione è un piatto di gnocchi di formaggio fresco, burro e salvia. L’impasto viene fatto solo con acqua, farina e cacio fresco, rigorosamente senza patate, poiché all’epoca erano sì già state importate dal’America, ma utilizzate solo come pianta ornamentale. Solo nel tardo Seicento si iniziarono ad apprezzarne le qualità del tubero e a consumarle anche in cucina.

Il galletto alle arance amare, acqua di rose, spinaci e schiacciata di sedano rapa, è una ricetta fedele all’originale trovata nel Libro de Arte Coquinaria del maestro Martino da Como, il cuoco più famoso della seconda metà del XV secolo.
Un piatto emblematico, specchio dei sapori dell’epoca, che trovavano nell’agrodolce il gusto più diffuso. Questo era dovuto ai metodi di conservazione del cibo: con sale, zucchero (sotto forma di sciroppo o miele) o agresto (un condimento acidulo ottenuto dalla cottura del mosto di uva acerba e dall’aggiunta di aceto e di spezie).

Infine, il menu propone un Biancomangiare a base di mandorle, zucchero e melagrana. Le mandorle all’epoca, spesso sotto forma di latte di mandorla, erano molto usate in cucina.

Per concludere, un digestivo davvero originale: l’Hypoclas. La fedele riproduzione di un liquore creato alla corte di Isabella de’ Medici Orsini, al Castello di Bracciano, sul quale aleggiano diverse leggende di omicidi amorosi. Il curioso antidoto era a base di malvasia e diverse spezie tra cui noce moscata, chiodi di garofano, cannella, zenzero… e un curioso ingrediente segreto dalle proprietà a noi sconosciute: ghiandole anali di cervo (per fortuna non reperibili ai giorni nostri).

Dormire in un antico monastero progettato da Borromini

La scelta di questo ristorante di far vivere un’esperienza gastronomica così originale è data anche dal contesto in cui si trova: un ex convento secentesco, divenuto da pochi anni un elegante albergo, l’hotel VOI Donna Camilla Savelli.

Nel 1642 Donna Camilla Virginia Savelli, nobile donna romana con una forte vocazione religiosa, ma costretta a sposare un Farnese, commissionò a Francesco Borromini la costruzione nel cuore di Trastevere di un convento. Il celebre architetto del Barocco italiano progettò quindi una piccola chiesa, Santa Maria dei sette dolori, tuttora frequentata dai fedeli del quartiere, e un monastero che doveva accogliere il nuovo ordine fondato da Donna Savelli, le Agostiniane dei sette dolori.
Il convento è sempre rimasto operativo nel susseguirsi dei secoli, fino a circa una decina di anni fa, quando l’imponente struttura è stata convertita in un elegante hotel, dove si può dormire nelle antiche celle delle suore, ora raffinate camere dotate di tutti i comfort.

Santa Maria dei Sette Dolori, progettata da Francesco Borromini.
Santa Maria dei Sette Dolori, progettata da Francesco Borromini.

La posizione dell’ex monastero gode di una straordinaria visuale su tutta Roma e cela al suo interno un delizioso giardino, l’antico orto delle monache: una vera oasi di pace.
Scegliere di dormire qui, oltre che un’esperienza dal servizio impeccabile, è come vivere mille storie insieme: dalla vita di Donna Camilla Savelli al lavoro di carità delle suore nel borgo di Trastevere, fino all’antica grotta romana del I sec. d.C, ritrovata sotto il convento e utilizzata dalle monache durante la Seconda guerra mondiale per nascondere e salvare alcune famiglie di ebrei.
Nei secoli, e durante l’ultimo restauro, sono stati perfettamente conservati gli elementi più caratteristici lasciati dal Borromini, come la meravigliosa galleria d’ingresso con pavimento a scacchiera, la scalinata e la fontana davanti all’entrata del refettorio, oggi chiamato Sala Borromini.
Qui le monache consumavano modesti pasti scanditi dalle preghiere della madre superiora e, come per loro, l’invito qui è mettersi in ascolto della Storia, gustando a pieno i sapori e l’atmosfera del Seicento italiano.

Gelaterie a Roma: cono o coppetta in 10 indirizzi top

Gelaterie a Roma: cono o coppetta in 10 indirizzi top

Artigianali, attente alle intolleranze e gourmet, le gelaterie di Roma sono una fresca scoperta a base di frutta, creme e gusti salati. Ecco dove andare per mangiare un gelato davvero buono

Quando sale la temperatura, la voglia di gelato scatta prepotentemente e non si può non darle ascolto. Tuttavia è difficile orientarsi a Roma, una città in cui le gelaterie negli ultimi anni hanno aperto più o meno al ritmo dei negozi di sigarette elettroniche. Fra gelaterie storiche, brand che si sono imposti come sinonimo di buoni prodotti e piccole realtà artigianali che lavorano bene, ecco una piccola guida per trovare il cono più gustoso e soddisfare il desiderio più fresco dell’estate.

Fatamorgana

Finalmente una donna, Maria Agnese Spagnuolo, a capo di una gelateria che ha conquistato Roma a buon diritto: ben sette punti vendita, pochi gusti ma semplici, con qualche picco di creatività come la Baklava e grandi cavalli di battaglia come il gusto cheesecake e il Bacio del principe (bacio e nocciola insieme). Qualcuno potrebbe lamentarsi che i gelati non sono di grandi dimensioni, ma in compenso il gusto ci guadagna, insieme alla qualità della materia prima rigorosamente naturale. Molto buona anche la cialda utilizzata per i coni.

Gelateria dei Gracchi

Tutto inizia in via dei Gracchi, anche se poi si segnalano le aperture di viale Regina Margherita, via di Ripetta e via San Pantaleo. Anima di questa gelateria è Alberto Manassei, mastro gelataio che ama le cose semplici ma ben fatte. Pochi picchi di creatività, quindi, ma solide basi per un gelato che non lascia delusi. Attenzione ai colori per gli intolleranti: bianco con latte, blu senza, giallo con uova. Non vi perdete il pistacchio di Bronte (c’è chi pensa che sia il migliore della città), ma anche la gianduia con nocciole intere dice la sua.

Claudio Torcè

Claudio Torcè ci mette il nome e anche la faccia. D’altra parte è riconosciuto come uno degli artisti del gelato capitolino, nonché maestro di altri colleghi sparsi per le vie della capitale. Il posto più indicato per assaggiare le sue creazioni è via dell’Aeronautica, in zona Laurentina, dove si trova il laboratorio principale, da cui partono i gusti per il punto vendita di viale Aventino. Ridimensionatosi dopo aver aperto 8 punti vendita (ha dichiarato in un’intervista al Gambero Rosso che “il gelato non è replicabile all’infinito”), Torcè ha appena affrontato un importante restyling, sia del logo che dei contenuti e in particolare del gelato, che ha dovuto ribilanciare per rispondere alla sua scelta di campo di sostituire lo zucchero con il fruttosio e latte e panna solo con prodotti ad alta digeribilità, per venire incontro a tutti.

La Gourmandise

Siamo in zona Monteverde, quartiere che riserva non poche chicche gastronomiche. Fra queste il gelato di questo pesarese trasferito a Roma, Dario Benelli, che si diverte a inventare gusti innovativi e fa un utilizzo intelligente delle spezie come lo zafferano, il finocchietto o la noce moscata, per dare un tocco originale e classico allo stesso tempo. Per venire incontro agli intolleranti, si utilizza latte di capra oppure in alternativa ci sono i gusti senza latte, inoltre la maggior parte dei gusti sono gluten free.

Neve di Latte

La novità è che ha aperto il secondo punto vendita a Prati, vicino a piazza Cavour, mentre la sede a due passi dal Maxxi rimane un punto di riferimento per chi volesse abbinare arte e cibo. L’artigianalità e la ricercatezza degli ingredienti, possibilmente biologici certificati, Dop e Igp, zuccheri non raffinati, ma anche l’acqua dei sorbetti che proviene dalle montagne. Il gelato che porta il nome della gelateria, Neve di Latte, è in pratica un fiordilatte con una forte presenza di vaniglia.

Tedesco e Hauser

La tedesca è lei, lui invece è romano, che nel cognome nascondeva evidentemente un destino. Insieme hanno dato vita a una piccola realtà di quartiere in via di santa Maria Ausiliatrice, non lontano dal centro commerciale Happio. Teutonico il rigore nella ricerca della materia prima e nel bilanciamento dei gelati, fra cui si segnalano il pistacchio salato, la nocciola del viterbese, lo zenzero. Ottima anche la cialda utilizzata.

Otaleg!

Per chi non l’avesse capito, il nome è gelato scritto al contrario, ma è forse l’unica stranezza di questa gelateria solidissima che di recente ha chiuso definitivamente l’originario laboratorio di viale dei Colli Portuensi per concentrarsi sulla seconda creatura di Marco Radicioni, quella di piazza San Cosimato. Anche se il laboratorio si è ristretto, le ambizioni di produrre un gelato di altissima qualità non si sono ridotte affatto e Marco Radicioni si conferma un “nerd” del gelato, che non usa semilavorati, ma parte dalla materia prima nuda per farla diventare gelato o sorbetto.

Punto Gelato & The Taste Gelato

Due nomi, un solo gelataio che ha rapidamente conquistato il cuore dei gourmet romani. Lui si chiama Günther Rohregger e viene da Bolzano, così come l’acqua che utilizza per i suoi sorbetti proviene rigorosamente dalle Dolomiti (Acqua Plose), così come le sue materie prime sono selezionate in modo da avere sempre prodotti freschi, senza nulla togliere alla stagionalità. Il punto vendita principale è proprio alle spalle del Pantheon, in piazza Sant’Eustachio, ma si possono trovare i suoi gelati anche in via dei due Macelli e via dei Pettinari.

Al Settimo Gelo

Ha da poco compiuto i vent’anni di attività, ma resta sempre un punto di riferimento per il quartiere Delle Vittorie in cui si trova. Il gelato di Mirella Fiumanò in tempi non sospetti già predicava di artigianalità e di ricerca delle materie prime. Tuttora la selezione è forte e ricade spesso su piccoli produttori, dalla nocciola del viterbese, ai Limoni “Verdelli Siciliani”. Nei sorbetti ci va almeno il 40% di frutta fresca e si segue il più possibile la stagionalità del prodotto.

Strawberry Fields – gelateria d’essai

Con i suoi due punti vendita, in via Tor de’ Schiavi e a Colli Aniene, Geppy Sferra si può definire un artigiano del gelato di frontiera. Orgoglioso della sua periferia, fa cultura del gelato a 360°, partendo dalle scuole elementari e medie, dove va a insegnare come si fa un buon prodotto artigianale, senza lasciare a casa l’etica. Le sue materie prime sono possibilmente biologiche e stagionali, la percentuale di frutta nei sorbetti altissima, il cacao proviene da agricoltura equa e solidale. Insomma, un gelato buono in tutti i sensi. Last but not least, nel punto vendita di via Tor de’ Schiavi Geppy ha recentemente lanciato la novità del gelato-bistrot, dove vengono serviti piatti salati in cui vengono utilizzati i gusti di gelato presenti al banco: ingredienti non salati che vanno tuttavia a contrastare gli altri elementi del piatto in un saliscendi di gusti, consistenze e temperature.

 

Il fritto misto di Natale tradizionale di Roma

Il fritto misto di Natale tradizionale di Roma

Qual è il tipico piatto romano del cenone del 24 dicembre? È un ricco fritto misto a base di ortaggi in pastella, baccalà e mele. Scoprite come prepararlo con la nostra ricetta

Di tradizioni gastronomiche delle feste praticamente ce n’è una per famiglia. A Roma, però, la sera della Vigilia non si transige e in tavola non può mancare un fritto misto di verdure, diverso dai classici fritti romani.

Trova le differenze tra i fritti romani e il fritto misto di Natale

Se pensiamo ai fritti romani ci vengono in mente supplì, baccalà e fiori di zucca. Il classico fritto misto alla romana, quello dei libri di storia gastronomica, prevede poi anche pandorato (del pane passato nel latte e poi fritto), crocchette, carciofi, costolette, cervella, animelle d’abbacchio e in generale carne di agnello.
Il fritto misto di Natale, invece, è prevalentemente a base di verdure di stagione (e no, i fiori di zucca non sono di stagione il 24 dicembre) come patate, carciofi, broccoli, finocchi, cavolfiore e funghi e, tassativamente, non possono mancare delle fettine di mela, passate nella stessa pastella delle verdure e fritte anch’esse, per pulire la bocca dal gusto pieno delle verdure. Per arricchire ancora di più il fritto misto di Natale si possono anche aggiungere dei pezzetti di baccalà, sempre fritti in pastella, che male non ci stanno.

La ricetta per preparare il fritto misto di Natale

Ingredienti

– Patate
– Carciofi
– Broccoli
– Finocchi
– Cavolfiore
– Funghi
– Mela
– Filetti di baccalà immersi per 24-48 ore in acqua per dissalarlo
Acqua minerale frizzante
– Farina di frumento
– Olio per frittura
– Sale

Procedimento

Per prima cosa preparate le verdure: lavatele e riducetele in cimette o fettine. Asciugatele bene e mettetele da parte. Lavate la mela, eliminate il torsolo e tagliate anch’essa a fettine, bagnandole con qualche goccia di limone per evitare che anneriscano. Se necessario porzionate anche i filetti di baccalà e asciugateli bene.
Fate scaldare abbondante olio in una friggitrice o una pentola dai bordi alti preparando la pastella: basterà mescolare acqua e farina fino ad ottenere un composto denso, liscio ed omogeneo che scende a fatica e resta attaccato ai rebbi della forchetta.
Immergete gli ingredienti nella pastella e tuffatene poi pochi pezzi alla volta nell’olio caldo, ma non fumante, per evitare di abbassarne troppo la temperatura e ottenere un fritto unto e molliccio. Quando i fritti sono ben dorati prelevateli con un mestolo forato e fateli sgocciolare su della carta da cucina. Salate solo ora e servite caldi.

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