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Giuseppe Verdi e la “squisita minestra”: la nostra ricetta del 1929

Giuseppe Verdi e la “squisita minestra”: la nostra ricetta del 1929

Don Carlo di Giuseppe Verdi, con questo titolo si inaugura la stagione di quest’anno del Teatro alla Scala. Composta nel 1867 è un’opera della maturità del maestro di Roncole di Busseto, precede di quattro anni Aida, titolo certamente più popolare.

Per celebrare questo importante appuntamento annuale vi proponiamo una ricetta pubblicata sul primo numero di La Cucina Italiana pubblicato a dicembre del 1929.

In fondo alla prima colonna di pagina due si apre il ricettario di allora che comincia con il capitolo «Minestre e vivande equivalenti». Tra queste è riportata la ricetta di una minestra saporita prediletta dal maestro Giuseppe Verdi. Amante della buona tavola e degli ingredienti preziosi era attentissimo alle terre intorno alla villa di Sant’Agata. Qui passa gran tempo dell’anno curandola con perizia, studiando e introducendo migliorie, come la costruzione di una ghiacciaia per conservare le derrate, non solo quelle che si producevano nella tentua, ma anche quelle che si faceva arrivare da altre parti d’Italia.

Giuseppe Verdi seduto al centro, circondato da alcuni amici nella sua casa di Montecatini.

DEA / G. CIGOLINI/Getty Images

Abbiamo cucinato questa minestra seguendo la ricetta originale del 1929 che riportiamo qui

La squisita minestra di Giuseppe Verdi

Di questa minestra si compiacque, in special modo, Giuseppe Verdi, e spesso si serviva nel Palazzo Doria a Genova, o nella Villa ddi Sant’Agata.

Mettete cuocer un chilo di patate, con sale; poi sbucciatele, pestatele in un mortaio, o schiacciatele col dorso di un piattino. Ridotte in pasta, unitevi 75 grammi di burro, un cucchiaio di farina, parmigiano grattato, 6 torli d’uovo. Agitate tutto fin che si leghi in una compagine omogenea: formate, quindi, tante pallottole, friggetele in padella con olio. Quanto saranno fritte potenele e in carta straccia, affinché rendano tutto l’olio e, quindi, in un tegame. Versatevi sopra un buon brodo, specialmente di pollo, o di tacchino se ne avete, e un po’ di sugo di carne.

Il risotto preferito di Giuseppe Verdi secondo Davide Livermore

La Cucina Italiana

E se cucinare il risotto preferito di Giuseppe Verdi fosse il piatto perfetto per oggi?

Come ogni dicembre (o quasi), il 7 dicembre è la data della Prima alla Scala a Milano. Quest’anno, andrà in scena Giuseppe Verdi con il Don Carlo, che va a chiudere la “trilogia del potere” iniziata con Macbeth e proseguita lo scorso anno con Boris Godunov, come ha sottolineato il Maestro Riccardo Chailly.

Per l’occasione, resa ancora più lieta dalla proclamazione dell’Arte del Canto Lirico Italiano come Patrimonio dell’Umanità Unesco, abbiamo pensato di riproporvi la ricetta del risotto preferito del grande Giuseppe Verdi, che preparò nel 2018 nella nostra cucina di redazione Davide Livermore, l’allora regista dell’Attila che aprì la stagione 2018/19, oggi direttore del Teatro Nazionale di Genova.

Risotto quasi alla Giuseppe Verdi

Ingredienti

  • 500 g riso Carnaroli
  • 150 g funghi champignon mondati
  • 100 g oppure 1 fetta di Prosciutto di Parma Dop
  • 100 g pomodori pelati
  • 100 g panna fresca
  • 80 g Parmigiano Reggiano Dop
  • 80 g guanciale a dadini
  • 6 carciofi
  • 1 cipolla a fettine
  • brodo vegetale
  • vino bianco secco
  • prezzemolo
  • limone
  • menta
  • aglio
  • burro
  • olio extravergine d’oliva
  • sale
  • pepe

(ph Riccardo Lettieri, styling Beatrice Prada)

Procedimento

  1. Tritate finemente un bel ciuffo di prezzemolo e uno di menta.
  2. Sbucciate 1 spicchio di aglio e tagliatelo a dadini.
  3. Mondate i carciofi e immergeteli a mano a mano in una ciotola di acqua acidulata con succo di limone perché non si anneriscano.
  4. Sgocciolateli e asciugateli delicatamente.
  5. Aprite le corolle e farciteli con il guanciale, poco aglio, il trito di prezzemolo e menta, sale e pepe.
  6. Accomodate i carciofi a testa in giù in una casseruola con un paio di cucchiaio di olio.
  7. Portate sul fuoco e fate rosolare per alcuni minuti, poi sfumate con 1/2 bicchiere di vino, fate evaporare, bagnate con un paio di mestoli di brodo vegetale, riducete la fiamma, coprite e cuocete per 15 minuti circa.
  8. Prelevate 3 carciofi e affettateli finemente.
  9. Completate la cottura degli altri in 10 minuti. Infine divideteli a metà per il lungo e teneteli in caldo.
  10. Affettate gli champignon.
  11. Tagliate a striscioline il prosciutto crudo.
  12. Rosolate la cipolla in una casseruola velata d’olio, aggiungete dopo due minuti gli champignon, dopo altri 2 minuti i carciofi affettati e il prosciutto.
  13. Cuocete per un minuto, aggiungete i pomodori pelati e il riso, mescolate brevemente, sfumate con 1/2 bicchiere di vino bianco e lasciate evaporare.
  14. Portate il risotto a cottura bagnandolo via via con il brodo necessario.
  15. Toglietelo dal fuoco e mantecatelo con una generosa noce di burro e con la panna.
  16. Completate con il parmigiano grattugiato.
  17. Distribuite il risotto, unite i mezzi carciofi e servite.

Ricerche frequenti:

Musicista e cuoco, simili nel ricercare la stessa armonia

La Cucina Italiana

Come mai musicista e cuoco sono simili? Cosa li accomuna? Arricchire i momenti conviviali con l’ascolto di musica è una consuetudine antichissima, e un vero e proprio genere musicale, fra XVII e XVIII secolo, fu chiamato “musica da tavola”. Ma non su questo vorrei centrare la mia piccola riflessione, bensì sulla somiglianza strutturale fra i due linguaggi, che, rispettivamente, parlano all’orecchio e al palato. In entrambi i casi abbiamo a che fare con arti combinatorie: i piatti nascono combinando gli ingredienti così come i brani musicali si costruiscono combinando le note. In entrambi i casi valgono regole elementari: ricercare l’armonia senza dimenticare i contrasti, le dissonanze, che danno maggior sapore all’insieme. Per questo una medesima parola, composizione, può essere usata sia in campo musicale, sia in campo gastronomico: Cristoforo Messi Sbugo, maestro di tavola alla corte estense di Ferrara, chiamò compositioni di vivande le ricette dei suoi Banchetti (1549); opera ricchissima, guarda caso, di notizie sulle musiche eseguite durante i banchetti. 

Musicista e cuoco: due facce di una stessa medaglia

Lo stesso principio di combinazione, che opera nei singoli piatti o brani musicali, regola il loro succedersi nel tempo, il ritmo della cucina e della musica: l’alternanza di diverse portate va a comporre un menù così come l’alternarsi di diversi brani va a comporre un’opera musicale; una sinfonia, un quartetto, una sonata per pianoforte, con infinite possibilità di scelta, ma con una decisa preferenza per i modelli compositivi basati sulla varietà, un adagio dopo un allegro, un dolce dopo un salato… Ma c’è un elemento fondamentale che unisce musica e cucina: entrambe sono arti effimere. Entrambe fanno parte, come il teatro o la danza, di quell’insieme di espressioni artistiche che si dicono performative perché a differenza di un dipinto, di una scultura o di un monumento non durano nel tempo, ma esauriscono la loro funzione nel momento stesso in cui vengono prodotte: mangiando, ascoltando. Si dirà che esistono ricette e spartiti, ma qui ci soccorre l’insegnamento di Gualtiero Marchesi, grande appassionato di musica oltre che ineguagliabile maestro di cucina. Lui ripeteva spesso che in una ricetta di cucina (ben scritta, s’intende) c’è tutto tranne l’essenziale: il cibo da mangiare, che ancora deve essere preparato. Per questo Marchesi equiparava la ricetta di cucina a uno spartito musicale: anche qui le indicazioni ci sono tutte, ma senza un interprete la musica non suona e non si ascolta. Ecco ciò che veramente unisce le due arti: per esistere, musica e cucina devono essere eseguite. E in entrambi i casi il risultato è imprevedibile: nessuna “lettura”, da parte di esecutori diversi, e perfino dello stesso esecutore in momenti diversi, sarà mai uguale alla precedente, giacché si realizza attraverso gesti (del cuoco, del musicista) che ogni volta interagiscono con il luogo, gli umori del momento, la reazione del “pubblico” che, partecipando all’evento, ascolta o mangia.

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