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Marietta Sabatini: la lettera a Pellegrino Artusi

La Cucina Italiana

Di Marietta fino a qualche anno fa si sapeva poco o nulla; ma in anni più recenti ricerche d’archivio condotte da me nel suo paese d’origine e la pubblicazione e lo studio più attento della corrispondenza e dei documenti della sua vita, realizzati con Monica Alba, hanno consentito di ricostruire una vicenda non solo del tutto particolare, ma per certi versi eccezionale.
Assunta Maria Sabatini era nata il 4 ottobre 1860 a Massa e Cozzile, un piccolo paese collinare della Val di Nievole, oggi fra le province di Lucca e Pistoia. Nata, si può dire, con l’unità d’Italia, Marietta seguì la sorte di molte donne del contado, che da quelle zone si trasferivano nella città capoluogo per prestare lavoro a servizio nelle case borghesi. Ma Marietta aveva un’arma in più: non aveva solo una professione, quella di cucitrice, ma sapeva leggere e scrivere. Quella annotazione della scheda del censimento del 1881, quando ancora si trovava nella casa paterna, significa una possibilità nuova, una dote niente affatto banale, niente affatto scontata per una ragazza delle campagne toscane del secondo Ottocento. La capacità di leggere e scrivere, unita alla sua intelligenza e all’onestà del comportamento, che Artusi le riconobbe sempre, aprì a Marietta le porte di una casa signorile, e fece la sua fortuna. Artusi l’accolse come una domestica, ma la trattò come una figlia, e le permise di avere accesso a una vera educazione, la cui forza si legge in tramatura anche nella cartolina postale riportata all’inizio. Era Marietta che leggeva con Artusi e per Artusi, quando l’avanzare dell’età non permetteva al «Signore» di leggere da solo; l’ultimo libro che gli lesse fu l’Eneide, nella traduzione di Annibal Caro. 

Nella straordinaria intervista a Rina Simonetta per “La Cucina Italiana”, Marietta seppe rievocare in maniera ineguagliabile, molto tempo dopo la morte di Artusi, la genesi della Scienza in cucina e il clima che si respirava in quella casa, dove lei fu cuoca, cameriera, soprattutto «maestra» ed efficacissima mediatrice negli affari e nelle vicende famigliari di Artusi: davvero, tante volte, la sua voce e il suo collegamento col mondo. A lei, insieme a Francesco Ruffilli, Artusi lasciò, in segno di gratitudine, i diritti d’autore del libro, che Marietta soprattutto seppe difendere e tutelare fino all’ultimo. A lei si deve anche, in quel libro, la traccia della lingua toscana spontanea: suggeritrice non solo di ricette (il «Panettone Marietta»), ma di lingua e di parole (le «ciocchettine» e i «ramettini» degli «odori»), fu, su scala certo minore ma non trascurabile, quello che Emilia Luti era stata per Manzoni, nel collaborare a quello straordinario capolavoro che è stato ed è, per generazioni di italiani e di italiane, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene.

Testo di Giovanna Frosini

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Il senso degli italiani per il croccante

La Cucina Italiana

Gommoso o croccante? Amaro, acido, dolce, salato, umami. Il gusto viene descritto secondo cinque, sei parametri, sette secondo alcuni che aggiungono il gusto grasso all’elenco. Ma di texture si parla invece molto poco. Mangiare però è un’esperienza che coinvolge tutti i cinque e sensi: vista, olfatto, gusto e anche il tatto. La consistenza di un cibo è parte integrante dell’esperienza gastronomica; e di un gusto che oltre che essere personale è assolutamente culturale. Durante un’analisi sensoriale si utilizzano una serie di parametri, alcuni giudicati tendenzialmente positivi per il cibo, come la succosità o la friabilità, altri negativi, come la durezza o la granulosità. E poi ci sono consistenze che contraddistinguono intere popolazioni, proprio come l’amore per il piccante o la dolcezza.  Noi andiamo matti per il croccante

Croccante, il gusto istintivo che ricerchiamo da sempre

C’è un croccante naturale, che identifica i cibi freschi e sani, come la frutta o la verdura: carote, mele, insalata… se non fossero croccanti sarebbero avariate. Ecco la conclusione dell’antropologo John S. Allen della University of Southern California nel suo libro The Omnivorous Mind: Our Evolving Relationship with Food. Un po’ come lo zucchero, siamo biologicamente programmati per sceglierlo come alimento. Tanto da aver imparato a rendere croccanti cibi che non lo sono all’origine. Le noccioline tostate, la crosta del pane, i fritti: la storia della nostra cucina si è evoluta e le tecniche si sono specializzate per rendere cibi e ingredienti, croccanti. Così tanto che oggi l’industria alimentare ricerca e sviluppa prodotti così croccanti da diventare irresistibili. Basta provare a masticare una patatina oramai floscia: è ancora così buona? Difficile che ne faremo un secondo morso. Empirico, direte voi, scientifico. 

Anche il suono conta

Si chiama gastrofisica la scienza che studia le variabili che influenzano il modo in cui sperimentiamo il cibo e le bevande. Charles Spence, psicologo e professore all’Università di Oxford e uno dei più importanti esperti al mondo di gastrofisica, ha condotto una ricerca (seria) fino a dimostrare che modificando elettronicamente il suono di una patatina, amplificandolo, gli assaggiatori percepiscono delle normalissime Pringles più fresche e croccanti. Lo stesso studioso ha anche dimostrato che le persone danno valutazioni più elevate alle bevande gassate quando il suono delle bollicine è più intenso e ravvicinato. Quindi che i suoni oltre che le percezioni tattili di croccantezza, ci inducono ad amare di più quello che mangiamo, a godercelo molto di più. A renderlo addirittura sensuale, come nel caso dell’ASMR. Ma non è così in tutto il mondo.

Il gusto “Q” per l’elastico e il gommoso

In Oriente le consistenze tradizionalmente più amate sono altre dal croccante. In Giappone, per esempio, c’è un termine per definire la consistenza di cibi deliziosamente viscidi: neba-neba. Hanno una parola per definire questa sensazione perché hanno una tradizione gastronomica di cibi con questa consistenza: il natto (soia fermentata), le alghe o il tororo (una patata che viene grattugiata cruda e che assume una consistenza mucillaginosa). A Taiwan esiste una definizione invece per la consistenza gommosa e scivolosa, lo chiamano “Q”. Riso glutinoso, mochi, gnocchi di riso, ramen in brodo, trippa, le palline di tapioca del bubble tea o, per meglio trovare un riferimento comune, le caramelle gommose.  In tutta la Cina si consumano piatti per la loro consistenza più che per il sapore: meduse, tagliatelle di patate, pasta e gelatine di konjac. O semplicemente, il tofu. L’elasticità, la gommosità, la scivolosità sono una leccornia, e non a caso il risucchio di una scodella di noodles in brodo non è considerato maleducazione per niente. Anzi.
Basta ascoltare qualche video di AMSR: la consistenza e il suo suono sono sensuali e rilassanti in modo diametralmente diverso. Il mondo si divide in chi sgranocchia e chi risucchia. Ma come si dice, de gustibus non est disputandum.

Pizza: dall’antichità a oggi | La Cucina Italiana

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La pizza ha una storia tipicamente mediterranea, anche se gli americani sono convinti di averla inventata loro (e bisogna ammettere che è americana la pubblicazione più esaustiva su questo oggetto gastronomico: Modernist Pizza di Nathan Myhrvold e Francisco Migoya, 2021). Variante sottile del pane, nasce per sostenere e trasportare il companatico. Sono le antiche «mense», quelle di cui parla Virgilio quando racconta che i compagni di Enea, giunti alla foce del Tevere, si ritrovarono così affamati da divorare perfino quelle; e per questo, secondo la profezia, in quel luogo fu fondata Roma.

PICIACCIA CON BACCALA' ALLA LIVORNESE
Piciaccia, mai assaggiato la pizza toscana? 

I puristi della pizza sostengono che l’unica vera pizza sia quella napoletana. Ma dopo quella romana e quella gourmet, arriva la pizza toscana chiamata piciaccia

Cibo antichissimo, diffuso in tanti Paesi, la pizza incontra particolare fortuna in Italia. Il nome si trova in documenti medievali: nel 997 certi contadini di Gaeta si impegnano a consegnare, come donativo per i loro signori, delle pizze a Natale e a Pasqua. Forse, all’epoca sono ancora dischi di pane da usare come supporti. Nei ricettari rinascimentali il senso della parola è cambiato: pizza è quasi sinonimo di torta, una preparazione che non «sostiene» bensì «contiene» gli ingredienti. Così è nell’Opera di Bartolomeo Scappi (1570), capolavoro della cucina italiana del Cinquecento. Molto spazio egli dedica alle torte, ai modi con cui si fanno nelle varie località. Una attrae la nostra attenzione: la torta «con diverse materie, da Napoletani detta pizza». Nel momento in cui rappresenta le tradizioni gastronomiche dell’intero Paese, Scappi assimila la pizza napoletana alle torte; ma con una caratteristica distintiva, quella di non essere chiusa bensì aperta: «Senza essere coperta facciasi cuocere al forno».

Pizza di pane raffermo: la ricetta veloce antispreco

Questa pizza napoletana non è quella che conosciamo: il suo sapore è dolce, gli ingredienti sono mandorle, pinoli, datteri, fichi secchi, zibibbo, il tutto pestato e arricchito con rossi d’uovo, zucchero, cannella, mostaccioli, acqua di rosa. È un genere di preparazione che troviamo ancora a fine Ottocento: la «pizza alla napoletana» di Pellegrino Artusi è una crema di ricotta, mandorle, zucchero, uova, scorza di limone, con cui si riempie una pasta frolla «disposta a guisa di torta». Nel frattempo però era nata l’altra pizza. Che non è più una «torta aperta», ma recupera il senso antico della «mensa». Il luogo di attenzione è lo stesso: Napoli, dove, fra Sette e Ottocento, è già documentato lo specifico «mestiere» di pizzaiolo. Questa variante popolare della pizza, che troverà i suoi compagni privilegiati nella salsa di pomodoro, nella mozzarella, nelle acciughe e in poco altro, ancora agli inizi del Novecento sarà guardata con distacco e con dispregio dalla gente del Nord. Ma il modello non tarderà a imporsi, in Italia e nel mondo. In questo come in altri casi, saranno i sapori «poveri» ad avere la meglio.

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