Casa di Caterina Ceraudo: un feudo tra i campi e le stelle

Casa di Caterina Ceraudo: un feudo tra i campi e le stelle

Nel calice finisce la biodiversità. «Greco bianco, gaglioppo, magliocco… La Calabria è la regione con la maggiore varietà di vitigni autoctoni» commenta Roberto. «Solo noi qui ne abbiamo otto: li preferiamo perché mantengono meglio l’acidità». Il risultato sono nove vini pregiati, tra cui il Rosé Grayasusi, dal calabro “graya”, donna, e Susi, nome della figlia maggiore di Roberto, e Maria che, come i fratelli Caterina e Giuseppe, lavorano in azienda. Ci sediamo all’ombra di una grande quercia e iniziamo il nostro picnic di terra (viene proposto anche quello di mare, sul gozzo Dream). Dal cestino escono carciofini di cardi selvatici, ricotta affinata nel bergamotto, la sardella, una crema preparata con avannotti e peperoncino, alternativa alla ’nduja, spalmata sul pane preparato dalla chef con il suo lievito madre. Una poesia. Non manca un eccellente olio: quello dell’azienda, il più premiato della Calabria. È frutto di tre varietà autoctone: carolea, tonda di Strongoli e fidusa. Viene ricavato da 14mila piante su 37 incontaminati ettari. Caterina Ceraudo lo propone anche in emulsione ghiacciata, da spalmare sul pane come se fosse burro, allusione mediterranea al butirro, un formaggio simile per forma al caciocavallo, ripieno di burro, ottenuto da latte di podolica, la vacca locale la cui carne si ritrova anche in menù.

Tornati per cena, scopriamo il territorio attraverso un percorso di degustazione in sei o dodici portate. Incantano il palato l’estratto di melone e zenzero, dolce entrée, il riso della Piana di Sibari allo zafferano di Benedetta e Maria Concetta Linardi, coltivatrici etiche calabresi. Stupiscono gli spaghettini con crema di ostrica e bacche di goji fresche, che, insieme all’alga spirulina, ormai si coltivano in Calabria anziché ai Tropici. Un piatto che è anche una storia d’amore. «L’idea» racconta la chef, «è venuta a Sante, mio marito, che mi ha convinta su un abbinamento che trovavo azzardato». Sante, calabrese anche lui, è anche il sous chef. «Venne qui a mangiare con i suoi genitori. Aveva da poco partecipato al programma Top Chef. Si licenziò dal ristorante in cui lavorava per venire da noi. Dopo un anno si dichiarò, “L’ho fatto per stare con te”». Il resto è storia: due bimbe, Alice e Anita, che crescono nel piccolo feudo-azienda accanto ai cugini Giuseppe e Roberta, figli di Susi e Luigi. E vicino a nonna Maria, fascinosa matriarca.

Si radunano tutti nella piazzetta della chiesa per un pranzo. Noi, fortunati commensali extra, godiamo dei piatti della loro tradizione di famiglia: le patate della Sila arrostite coi peperoni dell’orto, l’insalata di finocchio Igp di Isola di Capo Rizzuto e arance, il pesce fritto e una spettacolare pasta al pomodoro, vero segreto dei Ceraudo, preparata con le molte varietà (tra le altre pizzutello, Belmonte, San Marzano) che crescono nei due ettari adiacenti al ristorante. Un appezzamento dove prospera anche una miriade di aromatiche, tanto che «abbiamo appena creato il nostro vermut», confidano. Si brinda con il Dattilo, un rosso ottenuto da uve gaglioppo. La tavola è apparecchiata con le tovaglie a intaglio della nonna Caterina, che fu madre di dodici figli ed ebbe ventisette nipoti. I segreti culinari invece sono quelli di zia Mariuccia, che prepara ancora un capretto «da sogno, ma senza svelarne mai la ricetta. L’abbiamo anche spiata» ride la chef. Sulla meridiana dipinta sulla casa padronale scorgo un motto che è filosofia di vita e firma dell’ospitalità di questa Calabria da sogno: «Felice è colui che fa felici gli altri».

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