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Renato Bosco la pizza la fa così

Renato Bosco la pizza la fa così

Uno dei maestri della pizza italiana rompe i confini e le certezze sulla pizza, battezzando nuovi prodotti come PizzaCrunch, Mozzarella di pane e Bagel pizza. Buonissimi, che valgono un viaggio a Verona – e che piacerebbero a Giorgio Gaber

La pizza napoletana è una specialità tradizionale garantita dall’Unione europea e l’arte del pizzaiuolo napoletano è persino diventata Patrimonio Culturale dell’Umanità per l’UNESCO. Ma non per questo è l’unica e sola.
La pizza napoletana è tonda, con un diametro di circa 30-35cm, ha il cornicione, viene cotta nel forno a legna per massimo 90 secondi fino a diventare morbida ed elastica. Seppur sia la più nota, è molto diversa dal 90% delle pizze in circolazione (anche in Italia): ci sono la pizza alla pala, quella al tegamino, quella al trancio, quelle semplicemente mal fatte, e ultima arrivata, la cosiddetta pizza gourmet.
Su che cosa sia la vera pizza è in atto un dibattito di forma e di sostanza, e dopo la battaglia di Napoli è arrivato il Manifesto della pizza romana e non saranno le sole iniziative per codificare, proteggere, normare… Le parole definiscono il mondo, cantava Giorgio Gaber, ed è così che Renato Bosco ha sovvertito il problema, inventandosi prodotti nuovi che di tradizionale non hanno nulla, tantomeno il nome.

Un nuovo vocabolario della pizza
Veronese, pizziaiolo sin da ragazzino, è uno dei volti più noti del panorama-pizza contemporaneo, pluripremiato all’unanimità dalle guide di settore. Renato Bosco, con i suoi sei locali Saporè e la linea di pane e lievitati per la ristorazione, è un imprenditore di successo.
Renato Bosco si è inventato la PizzaCrunch®, l’evoluzione della pizza in teglia alla romana, ma croccantissima. È realizzata con un’alta idratazione, a lunga lievitazione grazie sia a lievito madre che di birra, è il suo signature dish di cui ha voluto registrare il nome. In Italia le ricette non sono brevettabili, inutile provare a proteggere le proprie creazioni per vie legali (ci hanno già provato in tanti, non ultimo Gualtiero Marchesi) ma non è questo l’intento. L’idea è quella di dare un nome ad un prodotto che non esisteva, che cuoce nel forno elettrico e che possa essere replicabile. Che è buonissimo, per la cronaca, e che ti va dimenticare qualunque vocabolario.
Dopo di lei è nata la Pizza Doppio Crunch® , imbottita per una croccantezza raddoppiata, Aria di Pane®, tonda, voluminosa, leggerissima, servita tagliata in otto spicchi e la Mozzarella di Pane®, un panino realizzato attraverso una doppia cottura, prima immerso nell’acqua di governo della mozzarella e poi cotto al vapore, tagliato e quindi farcito. Sembra un bao asiatico, ha una consistenza volutamente gommosa.

Senza lievito e bagel
Nel menù dei suoi locali però si serve anche la Pizza tonda, ma con un cornicione voluminoso e molto “panoso”, realizzata senza lievito e cotta in forno elettrico per ben 6 minuti. Uguale nella forma, diversissima nella sostanza dalle pizze tradizionali. Ma da Saporè c’è anche la Bagel Pizza, un impasto che viene immerso in acqua aromatizzata, poi cotto a vapore ed infine rigenerato in forno elettrico. Nell’ultimo menù è anche al curry, in onore di tre collaboratori di India e Sri Lanka che lavorano con Renato. Eresia? La pizza è italiana quanto una pita libanese, un lahmacun turco o una tortilla messicana. È farina, acqua, condimento e per quanto possiamo accapigliarci su che cosa sia la vera pizza, e cosa no, aveva ragione Giorgio Gaber. In Destra-Sinistra, cantava “Le parole, definiscono il mondo, ma se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente”.
Parlare di pizza è come cantare di ballo o dipingere di musica. La pizza va mangiata e basta.

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Che differenza c’è tra una, due e tre stelle Michelin

Che differenza c’è tra una, due e tre stelle Michelin

Per un ristorante non c’è riconoscimento maggiore di quello assegnato dalla prestigiosa stella Michelin. Ma qual è la differenza tra una, due e tre stelle?

L’assegnazione della prestigiosa stella della Guida Michelin è il massimo riconoscimento che un ristorante possa ottenere. Questa storica guida rappresenta, infatti, un fondamentale punto di riferimento per chi è in cerca dell’eccellenza nell’ambito della ristorazione, nonché un ambizioso obiettivo che molti chef nel mondo bramano di raggiungere o di incrementare. Ottenere o perdere una stella può realmente decretare le sorti di un ristorante, nonché una grande responsabilità.

Partendo dalla storia di questo segno distintivo di qualità culinaria riconosciuto a livello internazionale, andiamo allora a scoprire in cosa consiste il processo valutativo, in base a quali criteri vengono stabiliti questi riconoscimenti e soprattutto quale sia la differenza tra una o più stelle Michelin.

La Guida e le stelle Michelin, un po’ di storia

La raffinata Guida Michelin aveva un aspetto decisamente diverso quando venne lanciata nel 1900 dalla nota società di pneumatici; all’epoca, infatti, venne creata come supporto cartaceo per gli automobilisti francesi per trovare, tra le altre cose, posti decenti in cui alloggiare e mangiare mentre erano in viaggio. Il manuale arriva in Italia nel 1956, mentre le prime stelle nazionali compaiono nel 1959.
All’inizio i ristoranti italiani con una stella erano solamente 81, mentre nell’edizione numero 64 del 2019 sono ben 367, su i quasi 3000 in tutto il mondo. Da sempre, per l’assegnazione delle stelle e la valutazione dei ristoranti, la Michelin ricorre alle temute visite anonime degli ispettori, esperti di cucina, catering e ospitalità.

Criteri di classificazione: stelle e forchette

Non ci è dato da sapere esattamente cosa cercano e cosa valutano gli ispettori, ma la Michelin afferma di osservare cinque criteri basilari nel giudizio:

1) Qualità dei prodotti
2) Padronanza di sapori e tecniche di cottura
3) La personalità dello chef
4) Rapporto qualità-prezzo
5) Coerenza tra le visite

Il sistema “stellare” è inoltre affiancato a un meno noto, seppur importante, metro di giudizio, ovvero quello rappresentato con una forchetta.
Con questo simbolo, che va da 1 a 5, vengono infatti valutati il servizio, l’ambiente, il comfort, gli arredi, la carta dei vini, ovvero, in poche parole, la qualità dell’esperienza fornita; la Michelin ha precisato, quindi, che tutti questi fattori non vengono considerati nella premiazione con le stelle.

Differenza tra 1, 2 e 3 stelle

Veniamo allora a un aspetto cruciale per la ristorazione e per la clientela, ovvero il significato delle stelle Michelin.
Con una stella si indica una cucina di alta qualità in cui si avverte la mano dello chef, il ristorante merita una sosta. Due stelle premiano una cucina eccellente e di alto livello in cui si avverte chiaramente il tocco personale e la bravura dello chef, in questo caso il ristorante merita una deviazione. Tre stelle simboleggiano, infine, una cucina eccezionale e dettagli impeccabili, che merita un viaggio speciale.

Per quanto una stella sia un grande traguardo per uno chef, la Michelin ci tiene a precisare che i premi sono soprattutto pensati per essere a beneficio dei consumatori piuttosto che dei cuochi. Inoltre, nel 1997, la guida ha introdotto un premio chiamato “Bib Gourmand” che descrive come “non proprio una stella” ma un cenno di approvazione per tutte le “strutture amichevoli che servono buon cibo a prezzi moderati”. Tuttavia, questo non significa che un ristorante debba essere costoso per vincere una stella Michelin, basti pensare al famoso piatto stellato di Singapore (pollo alla salsa di soia con riso o noodle) che costa meno di 2 euro.

Foto: Dolce del ristorante stellato Vertig’O a Genova_Wikimedia Commons_Hotel de la Paix Genève  

Il celebre ristorante Noma potrebbe diventare vegetariano

Il celebre ristorante Noma potrebbe diventare vegetariano

La tecnica della fermentazione alla base della possibile svolta vegetariana e vegana del celebre ristorante stellato Noma

Il Noma di Copenaghen, ristorante stellato quattro volte eletto il migliore del mondo, da anni fa molto parlare di sé, attirando l’attenzione della stampa internazionale. Al centro dell’interesse mediatico la sua cucina nordica reinventata, le sue sperimentazioni d’autore, le liste d’attesa di mesi, ma anche i suoi continui cambiamenti, tra cui un periodo di chiusura nel 2016 e la rinascita nel 2018 in una nuova sede con il nome Noma 2.0 e un originale calendario culinario annuale distinto in tre stagioni.
Chi conosce il Noma, quindi, sa che le sorprese sono sempre dietro l’angolo.
In occasione del recente tour promozionale per il libro-ricettario Foundations of Flavor: The Noma Guide to Fermentation sull’arte della fermentazione, lo chef René Redzepi ha infatti dichiarato che, in virtù degli eccellenti risultati che ha ottenuto con piatti a base vegetale utilizzando questa tecnica, non esclude che un domani il ristorante possa diventare vegetariano.

Meno proteine animali, più verdure fermentate

Da oltre un anno al Noma si è assistito a una notevole riduzione delle proteine animali servite. A influire su questa scelta la volontà da parte dello chef di dare più spazio alle proposte vegetali, proponendo ad esempio un menu interamente vegetariano nella stagione che è andata da maggio a settembre 2018. L’altro fattore determinante è la crescente importanza che la tecnica della fermentazione sta assumendo nella cucina del ristorante, tanto che quasi ogni portata delle circa venti che compongono i menu stagionali, presenta qualcosa di fermentato. Recentemente Redzepi ha appunto dichiarato che questa preparazione è ora l’elemento più importante nella cucina di Noma e che gli chef amano visitare le foreste danesi in cerca di cibo selvatico e in particolare di funghi, bacche e verdure stagionali da fermentare nel loro laboratorio. Come ribadito dallo chef nella sua recente pubblicazione, generalmente si associa questo processo alla semplice produzione di sottaceti in salamoia o di yogurt, mentre andrebbe considerato come «una pentola di coccio della natura», che utilizza i batteri al posto del calore; un processo antico di conservazione che migliora le caratteristiche nutrizionali degli alimenti e che merita di essere conosciuto o riscoperto.

Un possibile futuro vegetariano per il Noma

Redzepi, nel corso di un’intervista per il “Washington Post”, ha raccontato che la sua migliore ricetta a base di verdure fermentate, un tempo presente nel menu del Noma, consisteva in una foglia di cavolo grigliata appena spalmata con una salsa a base di piselli gialli spezzati (miso) e condita con olio al prezzemolo; un piatto apparentemente semplice, ma dal gusto sorprendente. Secondo lo chef la fermentazione delle verdure può essere la chiave per conferire loro un sapore speciale, quella caratterizzazione e quel gusto “carnoso” che spesso manca alla cucina vegetariana.
Redzepi vede infine la fermentazione come una possibile strada verso un cambiamento climatico, verso un tipo di alimentazione più naturale e sostenibile che possa indurre le persone a mangiare più verdure e ridurre gli impatti ambientali del consumo di carne.

Non resta che vedere cosa riserverà il futuro del Noma e se davvero vedrà la luce questa prospettiva di far virare il famoso ristorante verso un menu esclusivamente vegetariano e vegano.

Piatto di verdure con salsa fermentata al Noma.

 

Foto: Piatto vegetariano (Noma Studio Sarah Lou)
Foto: Piatto di verdure con salsa fermentata al Noma (Lou Stejskal Flikr)

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