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Torino a tavola: la guida fra piatti storici e cultura contemporanea

La Cucina Italiana

Dal primo ristorante d’Italia alle piole

Nel libro si parte dalla gastronomia dai tempi dei Romani, lungo la via che scendeva verso la Liguria per scambiare grano e vino con sale, olio e acciughe, di quella del cuoco medioevale Francesco Chapusot che prevedeva una cottura della pasta di minimo mezz’ora, condita poi con burro e formaggio grattugiato, del vermouth e del peperone di Carmagnola. Nei primi capitoli – realizzati anche grazie all’archivio de La Cucina Italiana – si scava nelle opere storiche, dove non mancano le curiosità, come il fatto che nella Torino di Carlo Alberto esistesse già la pentola a pressione (le pentole autoclavi con coperchio a vite) e si parlasse di importare funghi allevati, ma anche di quali fossero i migliori macellai torinesi. In epoca moderna, più che i ricettari dei cuochi di nobili e signori, sono i ristoranti ad aver testimoniato l’evoluzione e la crescita anche sociale ed economica delle città. A Torino c’è il primo ristorante d’Italia, Del Cambio, che dal 5 ottobre 1757 si rinnova ciclicamente rimanendo sempre fedele a se stesso, ma c’erano anche le osterie popolari e le piole. Tra le più antiche, in città c’è quel Caffè Vini Emilio Ranzini che è in via Porta Palatina sin dagli anni Sessanta, ma anche il ben più “anziano” ristorante trattoria Ponte Barra che si trova in corso Casale 308, e vecchie fotografie testimoniano la sua esistenza già nel 1902. Nel volume si ripercorre la storia dei grandi ristorati del passato, la maggior parte oramai chiusi, dei loro menù che fondevano cucina francese e piemontese.

L’arrivo di prodotti e gastronomie dal Sud

Tra il 1958 e il 1963 più di 1.300.000 meridionali abbandonarono le proprie case per trasferirsi nel Centro e nel Nord Italia; tra essi sono più di 800.000 coloro che si dirigono verso le grandi città del triangolo industriale, prima tra tutte Torino. In poco meno di un decennio arrivarono dal Sud in città centinaia di migliaia di persone, lasciarono i campi per lavorare in fabbrica, e portarono in città le proprie abitudini alimentari. Negli archivi del Museo di Torino si ricorda anche una filastrocca, molto diffusa tra i bambini della Puglia: “Torino, Torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”. Non nacquero subito però nuovi ristoranti come accade oggi, l’uscire a mangiare era un lusso, ma questa cultura rimase chiusa nelle case. A porta Palazzo però i banchi cominciarono a fiorire di ingredienti mai visti, come cime di rapa, peperoncini, soppressate e caciotte. Piuttosto che ai ristoranti, il libro guarda quindi alle gastronomie, che oltre a mettere in mostra l’eccellenza della cucina locale, portano in città anche tipicità regionali. Nascono prima panifici come il Tarallificio Il Covo e il Panificio Pugliese e poi le gastronomie regionali negli anni Novanta, precedute dalle pasticcerie, soprattutto siciliane e napoletane, che dagli anni Sessanta e Settanta fanno conoscere a tutti i torinesi la tradizione pasticcera del Sud Italia: Pisapia a San Salvario, Pasticceria Primavera in Vanchiglia, Auriemma in Barriera di Milano. I primi ad aprire ristoranti furono, come a Milano, i toscani. La prima trattoria fu Il Gatto Nero, ancora in attività dal 1952, e dove ancora si servono l’Insalata di mare (ricetta del 1960), prosciutto toscano al colletto e fiorentine, e poi Balbo, da trattoria piemontese convertita a toscana negli anni in cui la cucina di Firenze e dintorni era di moda. Nel libro si parla della Trattoria Valenza, rilevata nel 1978 dal suo patron Valter Braga, arrivato da Rovigo nel 1957 insieme al primo flusso migratorio in città avvenuto dal Veneto in seguito alla tragedia del Polesine. Targata 1969, la Trattoria San Domenico, sarda, insieme a Da Benito (1966), sono sono invece due esempi di chi per primo portò il pesce in città.

La farinata in bicicletta e la pizza al padellino

Prima della Seconda guerra mondiale a Torino non esistevano molte pizzerie, racconta sempre il libro, si conoscevano solo la farinata e il castagnaccio di tradizione toscana, ma decisamente non la pizza napoletana. Questo perché i primi pizzaioli a emigrare nella città furono proprio quelli toscani e liguri, che portarono con loro usanze e tradizioni, come appunto quella della farinata, che fino agli anni Cinquanta veniva portata in giro sul manubrio dagli ambulanti della bicicletta nella teglia tenuta calda con la carbonella. Anche se il boom è scoppiato a partire dagli anni Cinquanta, il tegamino (o padellino), la vera pizza di Torino, è comparsa in città sin dagli anni Trenta, nei forni specializzati in farinate. Tra i locali storici si citano la Pizzeria da Alba di corso Racconigi, Cecchi di via Nicola Fabrizi e di via Madama Cristina, Da Gino in via Monginevro (aperta nel 1935), Da Michi in via San Donato (aperta nel 1971), Poldo in via Dante di Nanni (aperta nel 1939), Il Cavaliere di corso Vercelli (aperta dal 1958) e ancora Cit ma Bon di corso Casale (ai piedi della collina dagli anni Settanta), Da Michele in piazza Vittorio (aperto nel 1922 con farinata e castagnaccio e, dagli anni Trenta, anche con l’offerta della pizza al tegamino).

Torino oggi, dal kebab (gourmet) alla cucina Nikkei

A Torino il kebab è arrivato a metà anni Novanta grazie agli egiziani, Sindbad Kebab ha infatti aperto nel 1993. Il primo turco, anzi curdo, ad aprire i battenti in città è stato invece Kirkuk Kaffè, 1995, ma a Torino esiste dal 2000 un ristorante unico del suo genere: il primo kebab “gourmet” del Paese. Lo ha aperto Ergülü Demir, arrivato dalla Turchia a Torino e con la voglia di far conoscere la sua cucina ai torinesi. Lo ha fatto puntando sulla qualità, e ancora oggi prepara i döner (i grandi spiedi verticali) con la carne italiana di vitello ogni giorno, per farcire panini a fianco di piatti tipici della cucina turca realizzata con ingredienti freschi piemontesi – ora in due indirizzi. Nel libro si ripercorre poi la storia della cucina cinese, di quella indiana e giapponese in città. Sino al sushi, che dà titolo al libro. Il primo locale, aperto da imprenditori cinesi, risale al 1995, mentre nel 1997 aprì invece Wasabi, primo ristorante giapponese in città il cui titolare fosse davvero nipponico. Ma per concludere questo viaggio, bisogna citare un ristorante pluripremiato che ben rappresenta la realtà attuale della ristorazione torinese, Azotea. Fa alta cucina Nikkei, quindi un mix di tradizione peruviana e giapponese, nata dalle emigrazioni nipponiche del XIX secolo, oggi diffusa soprattutto in Sud America. La prepara lo chef Alexander Robles – nativo di Cuzco e con la nonna giapponese – ed è un indirizzo diventato di culto, al pari di quello dei grandi chef stellati in città. Per un racconto originale e non stereotipato di quello che sono le influenze, e di quella che è Torino, oggi.

Alimentazione sostenibile: guida semplice e veloce

La Cucina Italiana

Importante poi la questione del packaging alimentare sostenibile, la Commissione europea infatti ha stabilito che entro il 2030 tutti gli imballaggi e le confezioni in plastica presenti sul mercato dovranno essere sostituiti con packaging riciclabile. Per evitare imballaggi di plastica molto inquinanti bisognerebbe acquistare cibi sostenibili sfusi e in “formato famiglia” per ridurre più possibile la proporzione tra l’imballaggio e il cibo contenuto e consumato. Per fare la spesa sarebbe ottimale usare borse di tela, evitano l’uso degli inquinanti sacchetti di plastica.

Per cucinare e ridurre l’energia da utilizzare sarebbe meglio scegliere pentole, frigoriferi e forni a bassa dispersione termica. Il tutto riducendo gli sprechi alimentari, non acquistare troppo cibo e consumarlo in tempi utili. Ultimo, ma tra i consigli più importanti, fare sempre la raccolta differenziata per riciclare e ricavare energia dai rifiuti.

Principi della dieta sostenibile

Per far del bene a noi stessi, ma anche al Pianeta, quindi, è bene seguire diete sostenibili, ovvero modelli a basso impatto ambientale che contribuiscono a una vita sana e alla sicurezza alimentare e nutrizionale. Una dieta sostenibile deve concorrere alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, per questo la dieta mediterranea può essere considerata un modello di dieta sostenibile.

Negli anni il concetto di dieta mediterranea si è evoluto fino a diventare un vero e proprio stile di vita sostenibile. Tra i benefici ambientali portati dal modello mediterraneo abbiamo un elevato consumo di cereali, frutta, verdura e legumi, la cui produzione richiede un impiego di risorse naturali, suolo e acqua, di emissioni di gas serra, meno intensivo rispetto a un modello alimentare basato più sul consumo di carne e grassi animali.

Inoltre tale modello, che prevede il consumo degli alimenti rispettando la loro stagionalità, come richiede la dieta sostenibile, comporta una riduzione degli impatti ambientali, dell’approvvigionamento e dei costi di trasporto da paesi lontani.
In questo modello vi è più consapevolezza alimentare, più legame col territorio, più stagionalità, biodiversità e naturalità degli alimenti.

Da questo derivano anche conseguenti benefici economici che valorizzano le aziende del territorio attraverso l’offerta agro- ed enogastronomica locale.

Piramide alimentare sostenibile

Per una corretta alimentazione sostenibile noi italiani partiremmo già da una buona base, che è rappresentata, come detto, dalla nostra dieta mediterranea, considerata dagli esperti assolutamente sostenibile. La nostra dieta Patrimonio dell’Unesco costituisce la perfetta sintesi della sostenibilità alimentare

Come si puliscono i carciofi? La guida in 3 step

La Cucina Italiana

Avete fatto acquisti dal fruttivendolo e siete molto soddisfatti. Non sapete però come si puliscono i carciofi che avete comprato? Niente paura, vi aiutiamo noi con un facilissimo tutorial in 3 step. 

Carciofi: guida all’acquisto

Prima di chiedersi come pulire i carciofi, bisogna far arrivare questo ortaggio in cucina. Scegliete dei carciofi ben sodi, senza macchie e senza foglie rovinate. Il gambo, di una ventina di centimetri circa, deve essere ben dritto e la punta del fiore deve essere ben chiusa, con foglie che vanno dal verde scuro al viola.

Come si puliscono i carciofi in 3 step

Step 1: le foglie

Per evitare di riportare tracce di questa operazione per i prossimi giorni, strofinate le mani con del succo di limone oppure indossate dei guanti: ossidano e macchiano facilmente la pelle. Preparatevi anche una ciotola con dell’acqua fredda e del succo di limone, in cui immergere i carciofi appena puliti, per evitare che anneriscano. Come pulire i carciofi: si inizia, dopo aver tagliato il gambo e averlo messo da parte. Se state utilizzando una varietà con le spine tagliate circa 2-3 cm di punta con l’aiuto di un coltello seghettato. Se, invece, state usando le mammole o altre varietà di carciofi senza spine iniziate direttamente a sfogliarli, eliminate cioè via via le foglie esterne più dure, fino a raggiungere il cuore (troverete delle foglie che alla base sono verde chiaro).

Step 2: barba sì o no?

Se userete i carciofi per un risotto o in un’altra preparazione che prevede delle fettine di questo ortaggio, tagliatelo a metà con un coltello dalla lama liscia ed eliminate l’eventuale barba interna con un coltellino affilato (basterà correre lungo il bordo inferiore). Se farete dei carciofi ripieni o alla giudia, aprite, invece, delicatamente le foglie e con l’aiuto di un cucchiaino o di uno scavino a semisfera scavate l’interno per mondarli dal fieno. La barba dei carciofi non si può mangiare, il gusto e la consistenza sono proprio sgradevoli al palato. Ricordatevi di immergere le teste (o le metà) di carciofo già pulite nell’acqua acidulata per mantenerne il colore.

Step 3: i gambi e gli scarti

Pelate i gambi tenuti da parte e usateli nelle vostre preparazioni, sono commestibili (e buonissimi). Gli scarti dei carciofi, che sono sempre un bel po’, possono essere utilizzati per arricchire il classico brodo di verdure o preparare un brodo che sarà la base di risotti, zuppe e minestre con questa verdura. Come pulire i carciofi ormai non è più un segreto per voi.

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