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Pomodoro: un concentrato di sole!

Pomodoro: un concentrato di sole!

La pasta e la pizza, ma anche la parmigiana e altre decine delle nostre ricette tipiche prevedono il pomodoro tra gli ingredienti. Eppure è arrivato in Italia solo nel 1500 e ha dovuto aspettare oltre due secoli prima che da pianta ornamentale varcasse la porta delle cucine. Le prime notizie sulla coltivazione del pomodoro nel Parmense risalgono al 1840, quando cominciò la vendita della «conserva nera», preparata con pomodori privati dei semi e delle bucce fatti cuocere a lungo, fino a ottenere un sugo denso e scuro, poi essiccato al sole: ne bastava la punta di un cucchiaio per insaporire le minestre e le pietanze durante i mesi invernali. Il periodo compreso tra il 1870 e l’inizio del Novecento fu fondamentale per lo sviluppo dei processi di trasformazione del pomodoro grazie alle nuove tecnologie, rese possibili dalla rivoluzione industriale, che migliorarono la qualità delle conserve.

Mille querce per la sostenibilità

La provincia di Parma è un punto di riferimento per la produzione e la lavorazione dei pomodori, grazie a una filiera corta e controllata che prevede la coltivazione in un raggio di cinquanta-cento chilometri dagli stabilimenti: questa accortezza permette di conservare intatti il profumo, il sapore e i valori nutritivi dei pomodori appena raccolti. Un approccio che fa bene anche all’ambiente, riducendo l’inquinamento ambientale dovuto invece al trasporto. Il tema della sostenibilità è una priorità di Mutti (mutti-parma.com), tanto che nel 1999 è stata la prima azienda con il marchio Produzione Integrata Certificata, a garanzia di una coltivazione volta alla riduzione del consumo di acqua ed energia e alla tracciabilità dell’intera filiera. Dal 2001 è stata aggiunta la dichiarazione di produzione non Ogm, mentre prosegue da dieci anni la collaborazione con Wwf Italia per trovare soluzioni per ridurre il consumo idrico e le emissioni di anidride carbonica. Novità di quest’anno è il progetto «Mille querce», insieme con i comuni di Montechiarugolo, Sissa Trecasali e Traversetolo: sono stati piantati 1100 alberi su una superficie di 50.000 metri quadrati destinata ad ampliarsi con l’adesione dei comuni limitrofi. Attenzione alla sostenibilità anche per un’altra azienda parmense, Rodolfi Mansueto (rodolfi.com), che dal 2011 si è dotata di un impianto fotovoltaico e ha avviato vari progetti e collaborazioni, tra i quali Biocopac, per trasformare i sottoprodotti di lavorazione in resine naturali da riutilizzare per la realizzazione di vernici per contenitori. Inoltre, sta piantumando presso i suoi conferenti piante autoctone e si sta impegnando a ridurre la concimazione chimica a favore di quella organica.

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Dai campi al tubetto

Si dice genericamente pomodoro, ma il nostro Paese ne produce diverse varietà. Il Rotondo di Parma, che dà il meglio in Emilia-Romagna e nelle regioni vicine, è il più utilizzato per salse, sughi e conserve. Il pomodoro Lungo è una varietà tipica del Sud Italia e cresce principalmente in Puglia, nell’area della Capitanata, dove i particolari terreni e il clima gli regalano un gusto intenso e fresco e una consistenza soda e polposa. Il Ciliegino, piccolo e rotondo, è un’altra varietà tipica del Sud, dove il clima caldo lo rende fresco e vivace. Il San Marzano, coltivato solo nell’area dell’Agro Sarnese-Nocerino, è una varietà Dop dal gusto fresco, intenso e non acido, e dal caratteristico colore rosso vivo. Il Datterino dalla forma allungata è coltivato sia nel Sud, prevalentemente in Puglia, sia nelle zone collinari dell’Emilia-Romagna e del litorale adriatico; è particolarmente apprezzato per la buccia sottile e il sapore delicato e naturalmente dolce. Con questa varietà Mutti produce la Polpa Datterini, indicata per condire pasta, legumi, pesci e molluschi. Rodolfi invece accosta i pomodori alle altre verdure dell’orto per la sua storica Ortolina in tubetto, una salsa nata da una vecchia ricetta del 1936, che Ida, la moglie del fondatore Mansueto, preparava per il pranzo della domenica e nelle grandi occasioni. Il marito cominciò a produrla a livello industriale negli anni Cinquanta, pubblicizzandola con lo slogan «l’orto in cucina»: per la praticità e la bontà ebbe un successo immediato, che dura ancora oggi.

Quale conserva scelgo?

Dipende da cosa si cucina. Per esempio, pizza, amatriciana o carni?

Polpa: si ottiene unendo il succo e la parte polposa del pomodoro, sminuzzata in pezzetti più fini per la pizza e più grandi per i sughi. È un condimento veloce, ideale per le preparazioni fresche e le ricette di pesce, ma aggiunge una leggera acidità ai piatti più robusti, come lo spezzatino o il brasato.
Passata: i pomodori sono tritati, raffinati, riscaldati a temperature molto alte per un tempo breve e leggermente concentrati. Con la consistenza cremosa e il gusto intenso, dolce e leggero, è insostituibile per i grandi primi italiani, come l’amatriciana e l’arrabbiata.
Concentrato: occorrono sei chili di pomodori freschi per fare un chilo di doppio concentrato e ben nove chili per il triplo concentrato. Cremoso, molto denso e con un sapore intenso, regala alle salse e ai sughi una dimensione gustativa più ricca e un colore vivido. Abbinatelo alla polpa per sughi, ragù e spezzatini o usatelo per accompagnare i bolliti.

» Torta di sfogliatine – Ricetta Torta di sfogliatine di Misya

Misya.info

Innanzitutto montate la panna, ben fredda di frigo.

Incorporate quindi lo yogurt, un cucchiaio dilimoncello e 2/3 della buccia di limone.

Iniziate quindi ad assemblare il dolce: create uno strato di sfogliatine nello stampo, spennellate con il limoncello e coprite con uno strato uniforme di frosting allo yogurt.

Aggiungete un altro po’ di buccia di limone, quindi create un altro strato di sfogliatine, bagnandole sempre col limoncello, lo strato superficiale va bagnao un pò di più (volendo potete creare anche più strati, a voi la scelta).

La torta di sfogliatine è pronta: lasciatela riposare in frigo per almeno 2 ore prima di servirla.

Vanity Fair dedica la copertina alle donne afghane: in copertina una cuoca di Kabul

Vanity Fair dedica la copertina alle donne afghane: in copertina una cuoca di Kabul

I volti della sofferenza, la faccia migliore dell’italia. Vanity fair dedica la copertina alle donne afghane fuggite dai talebani e arrivate nel nostro paese. Per loro lancia l’hashtag #noisiamoaccoglienza: un’iniziativa per dare più forza ai progetti di solidarietà che stanno nascendo e che svelano il cuore più autentico degli italiani

Una giovane cuoca di Kabul fotografata nella base logistica dell’Esercito a Riva del Garda, le mani sul volto a nascondere la sua vera identità. È lei la protagonista della copertina del nuovo numero di Vanity Fair, in edicola domani 8 settembre: una delle tante donne afghane costrette a scappare da un regime crudele, arrivate nel nostro Paese, e che tramite le pagine del settimanale lanciano il loro appello: non lasciateci sole, non dimenticateci, «qui e adesso, ma soprattutto nei prossimi mesi, quando le luci della ribalta mediatica si spegneranno e queste vicende rischieranno di essere scordate», sottolinea il direttore Simone Marchetti nel suo editoriale.

La dolorosa questione del ritorno in Afghanistan dei talebani è affrontata in due modi. Grazie all’Esercito e a Croce Rossa Italiana, Vanity Fair è entrato nel Centro logistico di Riva del Garda (Trento) dove è stata allestita una tendopoli in cui le famiglie afghane attendono di essere ricollocate. Sotto falso nome (nessuna vuole rivelare la propria identità per paura di ritorsioni in patria) Amina, Samira, Omulbanin ci hanno raccontato le loro storie di paura e speranza. Paura per quello che hanno lasciato, speranza per quello che verrà. Fondazione Veronesi, inoltre, ci ha presentato Nilofar, una ginecologa che ad Herat lavorava presso il loro centro di prevenzione e cura del tumore al seno. Che è riuscita a mettersi in salvo con sua madre e sua sorella. Che non smette di tremare al pensiero che, se fosse rimasta là, sarebbe stata costretta a un matrimonio combinato con un Mullah. E che ora, sentendosi al sicuro, è tornata a sognare: il desiderio più grande sarebbe quello di riprendere al più presto a fare la dottoressa qui in Italia o in un altro Paese europeo.

Sono tante le istituzioni, le università, le onlus, le aziende e anche i privati cittadini che in questi giorni si stanno muovendo per offrire un aiuto a Nilofar e a tutti gli altri rifugiati. Ci sono famiglie pronte a far spazio, all’interno delle proprie case, a un’altra famiglia afghana. C’è chi offre lezioni di italiano. Chi versa quanto può alle associazioni in prima linea. Ed è da qui che parte la seconda via per raccontare il dramma dei rifugiati in queste settimane, fare un cambio di prospettiva e mettere in luce l’incredibile movimento di solidarietà che si sta attivando nel nostro Paese. «Sui nostri canali digitali, sito e social, racconteremo con l’hashtag #NOISIAMOACCOGLIENZA tutte le iniziative, le associazioni e i progetti che si occupano e si occuperanno di dare una mano», continua Simone Marchetti nel suo editoriale. «Di più: raccoglieremo le storie di chi sta già portando un sostegno concreto. E non importa che siano grandi o piccole somme, né ingenti o trascurabili azioni: ciò che conta è fare un passo. Perché presto, lo sappiamo, arriveranno i soliti a dire che gli italiani vengono prima, che c’è ancora la pandemia, che le persone perdono il lavoro, che ci sono i poveri anche qui. È tutto vero, è tutto comprensibile. Ma è ancor più vero e ancor più comprensibile che esiste una faccia dell’Italia che guardando il volto che abbiamo messo in copertina non può che chiedersi: cosa posso fare? Come posso contribuire? È in quel viso che noi ci riconosciamo. È in quello spirito che possiamo definirci veramente italiani».

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