L’olio extravergine di oliva italiano più caro di sempre: perché

L'olio extravergine di oliva italiano più caro di sempre: perché

L’olio extravergine di oliva italiano più caro di sempre, almeno per ora, sarà uno dei fenomeni che ricorderemo del 2023. Il problema dei prezzi ha riportato all’ordine del giorno del dibattito nazionale un ingrediente che usiamo quotidianamente, ma di cui conosciamo assai poco. Ci cuciniamo oramai dalla Sicilia all’Alto Adige ed è stato così disponibile negli ultimi decenni da renderlo una commodity al pari della benzina. Ma ora gli aumenti di prezzo (del 100%) ci pongono davanti a delle scelte e questa potrebbe essere una grande occasione per conoscere meglio e imparare ad amare l’olio extravergine di oliva italiano. Fra statistiche, dati di mercato, operatori grandi e piccoli del settore, abbiamo messo insieme una guida all’olio “spiegata bene”. Con un lieto fine, anche per risparmiare.

Ne consumiamo più di quanto ne produciamo

In Italia consumiamo più olio di quello che produciamo, perché ne consumiamo sempre di più, ma ne produciamo anche sempre meno. Ne usiamo circa 12kg a testa all’anno, 750mila tonnellate di cui ben 250mila di solo olio extravergine, ma oramai è dalla fine degli anni Novanta che fra consumi interni ed esportazioni, il fabbisogno di olio del nostro Paese ci ha imposto di andare ad approvvigionarci all’estero. Guardando ai dati ISTAT, nel 2006 la produzione italiana di olio superava le 600mila tonnellate, ma dal 2019 ha di poco abbondato le 300mila, scendendo a 250mila tonnellate nel 2022. 1/3 del fabbisogno se non fosse che parallelamente nel giro degli ultimi trent’anni le esportazioni di olio d’oliva italiano nel mondo sono quasi triplicate (+170%), spiega Coldiretti, arrivando oramai a 360mila tonnellate. Basta fare due conti per capire che l’olio che vendiamo e che mangiamo, non è olio extravergine di oliva italiano, soprattutto quando lo si trovava a 5€ al kg nei supermercati. Ci siamo abituati così ad utilizzare questo prodotto come una commodity al pari di zucchero o benzina, senza fare troppa attenzione a cosa consumiamo e a quanto. Ma ora con l’aumento dei prezzi la scelta diventerà più oculata e forse per la prima volta si comincerà a fare attenzione a cosa si mette nel carrello e a cosa si usa in cucina.

La questione spagnola

I consumi di olio d’oliva sono in aumento, anche a livello globale. L’Unione Europea ne produce circa il 70%, prevalentemente grazie alla Spagna, paese leader che ne produce quasi tre volte tanto di Italia e Grecia, che a seconda degli anni si scambiano il secondo e terzo posto sul podio degli ulivicoltori comunitari. Negli ultimi due anni la Spagna ha registrato le campagne olearie più basse del decennio, 700mila tonnellate, meno della metà delle campagne precedenti. Il risultato è che nel 2022/2023 la produzione di olio d’oliva dell’Unione Europa è diminuita di quasi il 40% (1,4 milioni di tonnellate). Questa annata, in Italia, promette meglio: «Diversamente dalla Spagna, le condizioni climatiche incluso le abbondanti piogge di fine primavera, hanno determinato una buona aspettativa di produzione che auspicabilmente porterà ad avere tra i volumi più alti delle ultime annate. Tuttavia questa buona produzione italiana, potrà solo mitigare, ma certo non compensare, il deficit produttivo spagnolo» spiega Mauro Tosini, direttore commerciale Gruppo Salov S.p.A., realtà industriale al primo posto tra le aziende nazionali e tra le prime cinque livello mondiale del settore oleario cui fanno capo i marchi Filippo Berio e Sagra. Facile capire il perché dell’impennata dei prezzi.

Il perché dell’impennata dei prezzi

Nel giro di tre anni l’olio extravergine di oliva spagnolo è passato sui mercati internazionali da 3€ al kg circa a superare i 9€, doppiando persino il prezzo dell’olio extravergine di oliva italiano, storicamente più alto e oramai vicino ai 10€ al kg. Nel giro di pochi mesi le bottiglie nei supermercati cresceranno di prezzo, raddoppiando persino. Perché allora costano invece di meno? Per ora è merito delle scorte delle campagne olearie e di accordi commerciali precedenti, nonché di olio che proviene dal bacino del Mediterraneo, Tunisia e Turchia in primis, che ha prezzi attualmente ancora più contenuti. Pensare all’olio come ad un prodotto artigianale a filiera corta, è una visione solo parziale e molto romantica del settore. Molti dei grandi produttori di olio non sono agricoltori, ma selezionano e comprano sul mercato oli italiani o esteri, li stoccano, li miscelano e li etichettano (ad esempio la dicitura «Prodotto a imbottigliato da…» vuol dire che almeno il 50% dell’olio è effettivamente ottenuto dagli ulivi dell’azienda). È grazie a questo tipo di industrializzazione dei processi di produzione e di commercializzazione che abbiamo potuto accedere a quantitativi ingenti di olio a prezzi popolari ; e in generale a qualità inimmaginabili rispetto ai tempi delle macine in pietra. Basti pensare che molti grandi gruppi alimentari, inclusi i pastifici, ad esempio, hanno sede e stabilimenti a Imperia, vicino ai porti, o a Parma, nel centro della logistica italiana. Ben lontano da uliveti e frantoi.

Grandi estensioni vs biodiversità

Sbagliato demonizzare gli oli del supermercato o quelli esteri, non è questo il punto, ma capire che cosa si sta comprando e su cosa investire, facendo la spesa e come Paese. Per fare un esempio, la Spagna ha un’agricoltura più meccanizzata, moderna, estensioni ampissime di oliveti, poche varietà super selezionate per garantire ampie rese. È un modello di agricoltura che si ritrova in moltissime coltivazioni, arance e agrumi inclusi. In Italia invece gli appezzamenti medi sono solo di pochi ettari e possiamo contare su 533 varietà di olive, per un patrimonio immenso di sapori e biodiversità, agricola e culturale, che ci rende meno competitivi sui grandi numeri, ma non sulla qualità, e persino più resilienti nei confronti dei cambiamenti climatici. «La campagna 2023-2024, ormai alle porte si apre con uno scenario che stima una flessione quantitativa su scala regionale di circa il 20-25% rispetto alla campagna pregressa che si è conclusa con quasi 2700 tonnellate di olio certificato IGP Toscano» spiega Christian Sbardella del Consorzio per la Tutela dell’Olio Toscano IGP, che è un risultato più che soddisfacente guardando allo scenario. «La Toscana nella sua importante eterogeneità fatta di micro ambienti e relative diverse sfaccettature climatiche dovrebbe permettere una certa calmierazione di taluni fenomeni» conclude Sbardella, Toscana, Liguria e altre regioni cubano tutte assieme circa il 5% della produzione italiana, dominata da Puglia, Calabria, Sicilia. A Imperia al Frantoio di Sant’Agata d’Oneglia, l’idea che non si potesse puntare sui volumi, ma sulla qualità, è evidente da sempre. Serena Mela, responsabile marketing e commerciale spiega come «rispetto a decenni fa la produzione sia completamente cambiata, negli anni, insieme a un aspetto quantitativo di produzione, ci si è sempre più concentrati su un aspetto qualitativo. Si vuole produrre un olio extravergine di oliva che non sia solo un “accessorio” per la tavola, ma che diventi un vero e proprio alimento protagonista, che completa ed esalta i piatti».

Oltre l’extravergine, nuovi valori

«La denominazione stessa “olio extravergine”, ha indotto il consumatore a ritenere questo prodotto come già assolutamente puro e naturale, rallentando di conseguenza lo sviluppo del segmento biologico. In effetti l’olio extravergine è assolutamente naturale. Altro non è che una spremuta di olive ottenuta esclusivamente attraverso procedimenti meccanici» prosegue Mauro Tosini che con il marchio Filippo Berio ha lanciato lo scorso anno un extravergine biologico 100% italiano. «Lo sviluppo del segmento biologico è stato, in una prima fase, un po’ ritardato, ma poi ha avuto comunque, a partire dallo scorso decennio, un’importante crescita specialmente trainata da quella parte di consumatori, attenta a tematiche ambientali e green». E il biologico è solo un esempio, perché oltre al prezzo cresce l’importanza di altri valori, gusto in primis, ma anche la voglia di conoscere il processo virtuoso dietro ai prodotti che si comprano. «Cinquant’anni di investimenti nel super intensivo hanno consentito alla Spagna di diventare il primo produttore di olio extravergine d’oliva al mondo, ma al contempo hanno esposto il comparto a una finanziarizzazione del sistema che oggi affligge anche noi, nonostante l’Italia abbia mantenuto un modello produttivo su piccola scala» mi spiega PG Bonsignore, fondatore di Incuso, olio pluripremiato e usato nei grandi ristoranti stellati, ma soprattutto progetto culturale di valorizzazione di uliveti abbandonati e dell’economia rurale della zona di Castelvetrano in Sicilia. «In un sistema dove produzione e mercato sono lontanissimi e non si parlano, l’unica strada è accorciare le fila. Dobbiamo avviare processi di rivalutazione delle nostre produzioni» prosegue Bonsignore. «Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale e di passare da un modello legato al capitale, a uno ispirato dalla produzione, dove la collaborazione fra le varie componenti del processo produttivo, permetta di definire in maniera chiara il costo di ognuno dei passaggi e quindi la marginalità necessaria di ognuno di essi e, dunque, il proprio prezzo finale di proposta al mercato. Solo questo livello di chiarezza può consentire di affrontare il mercato al riparo da queste burrasche e quindi aprire all’ipotesi di opportunità di sviluppo reale». E questo sviluppo passa per oli pregiati, costosi, e da un legame reale con il territorio, che può essere un’opportunità.

Olio come promozione e conservazione del territorio

L’olio in Italia si conferma non solo un alimento, ma come molta agricoltura, uno strumento per la conservazione e la promozione territoriale. «In Toscana si osserva una significativa fragilità strutturale del modello produttivo tratteggiato da una olivicoltura ancorata per oltre il 30% ad aree da definirsi per certi versi eroiche, a bassa produttività, con orografia collinare, composta da terrazzamenti, zone ardue da lavorare e che si devono configurare anche con connotazioni rivolte a una forte valenza paesaggistica, fatta di biodiversità e sostenibilità» spiega Christian Sbardella del Consorzio per la Tutela dell’Olio Toscano IGP del Consorzio. Non a caso, l’Associazione nazionale Città dell’Olio promuove il Concorso nazionale Turismo dell’Olio per premiare le aziende virtuose. A vincere per la categoria Strutture Ricettive nel 2023 l’Olivum Experience di Palazzo di Varignana (Emilia-Romagna). «Nel recente passato, le strutture impegnate nell’olivicoltura hanno rinnovato le formule di incoming, con attività differenziate: oggi organizzano corsi di degustazione focalizzati sul prodotto da singoli cultivar, creano le Spa dove l’olio extravergine di oliva diventa la base dei trattamenti, coinvolgono il visitatore nella raccolta e nelle prime fasi di trasformazione dalle olive all’olio, fino ad arrivare alla vendita di piccoli lotti personalizzati per il cliente finale, dove in etichetta appare il suo nome e cognome oltre naturalmente ai riferimenti dell’azienda produttrice. La svolta appare interessante, ma quel che emerge dallo studio 2023 è la ricerca di autenticità, che si basa su un solido legame tra la produzione di olio extravergine di oliva e la storia dell’azienda» spiega Roberta Garibaldi, esperta di turismo enogastronomico.

Prezzi in aumento come opportunità

L’aumento dei prezzi risulta quindi da un lato un problema, dall’altro una opportunità, soprattutto guardando al futuro. «Continuando di questo passo l’olio di oliva diventerà un prodotto non più accessibile a molti consumatori che saranno costretti a orientarsi verso altri oli vegetali più economici» spiega Tosini. «Già osserviamo questo fenomeno in molti paesi esteri, specie in quelli dove l’utilizzo dell’olio di oliva non è così radicato nella cultura e nelle abitudini. In molti di questi paesi, il consumatore sta tornando a consumare oli di semi, meno nobili e salutari degli oli di oliva, ma certamente più a buon mercato». Non tutti i mali vengono per nuocere però. «Questa può essere un’occasione per promuovere a livello nazionale il consumo dell’olio italiano e a riconoscere la qualità di ciò che si compra. Usiamone un po’ meno e usiamolo buono» conclude Francesco Coppini, co-titolare di Coppini Arte Olearia, che mi cita ad esempio il loro olio nuovo, il loro olio non filtrato che viene venduto solo su prenotazione e da usare non per ungere le padelle. Si auspica per il futuro che i clienti investano in un olio da condimento, da degustazione, da valorizzare. Ed eccola l’opportunità per il made in Italy, sapere davvero che cosa stiamo mangiando. «E magari riportiamo in cucina l’olio d’oliva per le lunghe cotture: per la cucina è sempre stato utilizzato, ben prima che l’extravergine diventasse di moda».

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