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Dolci di Natale napoletani: 10 delizie irresistibili

La Cucina Italiana

Il Natale è sempre un trionfo di sapori, a Napoli ancora di più. Perché i dolci di Natale napoletani sono i veri protagonisti della tavola delle Feste. La città partenopea, infatti, in quanto a dolci natalizi ha una tradizione tutta sua, talmente vasta e inimitabile da permeare lo spirito stesso dei napoletani.

I dolci di Natale napoletani

Divino amore

Si tratta di piccoli dolcetti prodotti con un impasto di uova, zucchero, acqua e mandorle, arricchiti con canditi, vaniglia e scorze di limone. E quindi ricoperti di ostie, marmellata di albicocche e ghiaccia rosata. Il nome deriva dal Convento del Divino Amore, presso Spaccanapoli. Le sue origine sono antichissime: pare che a inventarlo furono, nel XIII secolo, le suore del convento, in onore di Beatrice di Provenza, madre del re di Napoli Carlo II d’Angiò.

Mustacciuoli

Questi biscotti sono diversi dagli altri mostaccioli che si trovano in giro per l’Italia. A Napoli vengono preparati con un impasto a base di farina, acqua, zucchero semolato, miele, mandorle, bicarbonato di ammonio, cacao amaro, scorza d’arancia grattugiata, cannella, noce moscata, chiodi di garofano e cannella, il tutto ricoperto da cioccolato fondente. Come si vede, il mosto non c’entra nulla: si chiamano così perché richiamano i mustacchi, i folti e vistosi baffi di moda nell’Ottocento. Tuttavia, pare che la ricetta più antica prevedesse effettivamente l’utilizzo del mosto da parte delle famiglie contadine. L’abbondante uso di spezie e ingredienti “ricchi” indica, però, la loro origine aristocratica e di corte: li cita ripetutamente, come ingrediente, anche Bartolomeo Scappi nel suo Cuoco secreto di Papa Pio quinto (XVI secolo), distinguendoli dai mostaccioli romani e milanesi.

Mustacciuoli

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Pasta reale

La pasta reale, o paste di mandorle, sono i tipici dolci diffusi anche in Sicilia, preparati con mandorle, succo di limone, cannella, ostie, uova e bicarbonato. La leggenda racconta che un giorno Ferdinando IV di Napoli, il “re lazzarone” (che amava mescolarsi al popolo per serate assai meno “pie” di questa), un giorno si recò nel Convento di San Gregorio Armeno. Qui le monache gli prepararono un ricco buffet di aragoste, pesci e polli arrosto. Ma il sovrano – che era una grande forchetta – declinò perché aveva già mangiato. Ma le suorine insistettero fino a quando il re, assaggiata la prima pietanza, si accorse che tutto quel ben di Dio erano in realtà dei dolci!

Roccocò

Questi dolci a forma di ciambella, adatti a chi ha denti buoni, vengono preparati con farina, acqua, zucchero, bicarbonato di ammonio, mandorle tostate, uovo, bucce d’arancia e pisto, il tipico mix di cannella, noce moscata, chiodi di garofano, coriandolo e anice. La sua origine risale al 1320 per merito delle monache del Real Convento della Maddalena: il nome deriva dal francese “rocaille”, elemento decorativo a forma di roccia o conchiglia da cui, nel Settecento, trarrà origine anche il termine “rococò”.

Cevapcici: cosa sono e come prepararli a casa

La Cucina Italiana

Sapete cosa sono i cevapcici? Sono conosciuti in tutta l’Italia dell’est, soprattutto in Friuli Venezia Giulia. Speziati e molto saporiti, possono essere un secondo, un piatto unico o addirittura un contorno. In lingua originale si dovrebbero scrivere ćevapčići, in breve i cevapcici sono polpette di carne trita tipiche della cucina balcanica e originarie della Bosnia.

Potrebbero essere paragonabili a delle piccole salsicce per consistenza e sapore, ma sono molto più speziate. I cevapcici sono fatti con carne di manzo e agnello tritata finemente e condita poi con sale, spezie e aromi.

Sono uno dei cibi da strada per eccellenza in tutto l’est europeo: polpettine dalla forma cilindrica lunghe circa 10 centimetri e abbastanza sottili, anche se su qualche tavola si possono vedere anche tondeggianti. Vanno mangiati assolutamente cotti, solitamente al barbecue, alla griglia o alla piastra ma se li preparate a casa potete utilizzare anche una padella antiaderente.

Le origini dei cevapcici

Il nome cevapcici deriva dalla parola persiana kebab e dal diminutivo slavo -cici. Piccoli kebab quindi, proprio perché con la celebre pietanza araba condividono la composizione e le speziatura della carne. Pare che siano comparsi sulle tavole balcaniche per la prima volta nel 1860 a Belgrado e che da lì si siano velocemente diffusi in tutta la ex Jugoslavia, in Austria e nelle vicine province italiane di Gorizia, Udine e Trieste.

Come si servono i cevapcici

Queste polpettine molto speziate si servono solitamente accompagnate alla cipolla, sopratutto quella bianca, tagliata finemente a dadini o anelli. Si possono condire con l’ajvar, tipica salsa balcanica molto piccante a base di peperoni rossi macinati e spezie o con il kajmak, prodotto caseario bosniaco, un formaggio spalmabile morbido e leggermente acido che si sposa alla perfezione con il sapore deciso e speziato dei cevapcici.

Possono essere anche infarinati e poi rosolati in padella con olio o burro e in questo caso, solitamente, sono accompagnati da una fetta di formaggio da sciogliere. Come cibo da strada vengono serviti all’interno delle somun, il tipico pane bosniaco di forma rotonda con un diametro di circa 20 cm e uno spessore di circa 1 cm.

La ricetta originale dei cevapcici

Ingredienti

  • 400 g di carne di manzo macinata
  • 150g di carne di agnello macinata
  • 2 cipolle bianche
  • 2 cucchiai di paprica dolce
  • 1 cucchiaio di cumino
  • mezzo aglio tritato fino (opzionale)
  • olio extravergine di oliva
  • sale e pepe nero q.b.

Procedimento

  1. Tritate finemente la cipolla e unitela alla carne macinata in un recipiente capiente.
  2. Aggiungete il sale, il pepe nero, la paprica, l’aglio e il cumino e lavorate la carne per almeno 5 minuti in modo da ottenere un composto omogeneo e morbido.
  3. A questo punto coprite il recipiente con della pellicola trasparente e lasciate riposare il composto in frigo per un’ora, in modo da far insaporire bene la carne.
  4. Per formare i cevapcici, ungete le mani con un po’ di olio e fate delle polpettine di forma cilindrica lunghe circa 10 cm e non troppo larghe (massimo 2 cm).
  5. Potete cuocerli al barbecue, alla griglia, alla piastra o in padella. Serviteli, se non trovate il tipico pane bosniaco, con dei panini abbastanza morbidi e mangiateli quando sono ancora ben caldi.

Lidia Bastianich: «Le ricette e i ricordi più belli della mia vita in Italia»

Lidia Bastianich: «Le ricette e i ricordi più belli della mia vita in Italia»

Lidia Bastianich è cuoca, personaggio televisivo, scrittrice italiana naturalizzata statunitense. Non in ultimo mamma e nonna, premurosa, talvolta severa, ma sempre rispettosa delle sue radici italiane. Già, perché le origini di Lidia Bastianich sono istriane, quando ancora l’Istria apparteneva all’Italia, almeno fino al 1975, quando il nostro Paese – con il discusso Trattato di Osimo – rinunciò definitivamente e senza contropartite, al suo diritto su quei territori. Le abbiamo chiesto qualche aneddoto di quando viveva in Istria, con i suoi genitori e tutti i parenti, molti dei quali oggi non ci sono più. Ma anche cosa si è portata dietro, per ridare vita a quei ricordi con il pensiero e con i fatti.

Questo tema importante di commistione tra ricordi e cucina è il fulcro del progetto I Racconti delle Radici, creato in collaborazione con il MAECI, che è stato presentato alla Farnesina di recente alla presenza dei Ministri Tajani e Lollobrigida durante il lancio dell’ottava edizione della SCIM – Settimana della Cucina Italiana nel Mondo 2023. Naturalmente, Lidia Bastianich non poteva non far parte di questo magnifico racconto dell’immigrazione italiana nel mondo, e qui vi raccontiamo già un primo assaggiato.

Nonna Rosa e gli animali da cortile

«Sono cresciuta con mia nonna Rosa in campagna, a Pola, in Istria, in mezzo agli animali, ai prodotti della terra. Ricordo ancora il cortile di casa e questa scena: i nonni, i loro fratelli, le varie zie, tutte con grembiule e fazzoletto legato in testa. Erano loro, le zie, che a tavola ci ricordavano di non sprecare mai il cibo, “ci son figliol che non dar da magnar”, dicevano. Oggi la cucina italiana per me è un ricordo, una nostalgia, una passione, un modo per ricevere e dare amore. È stata, a tutti gli effetti, non solo uno stimolo per quello che ho fatto e che sto facendo negli Stati Uniti ma anche una conferma di quello che sono. Da bambina son cresciuta in una comfort zone, in piena campagna, tra i polli, le caprette, i conigli a cui portavo da mangiare. Io ero la “runner”, la “helper”, l’aiutante di nonna Rosa in cucina, soprattutto il giorno della domenica. Ricordo ancora quegli odori inebrianti del sugo che bolliva per ore, lì dove c’era la stufa, nella casetta “nera”, accanto al pollaio. Ma anche il profumo del lauro, del rosmarino, della conserva di pomodoro, che mi piaceva “tocciare”, un po’ furtivamente, con un pezzo di pane».

L’addio all’Italia, senza preavviso

«Quando sono emigrata negli Stati Uniti, nel 1958, avevo 12 anni, è stato il cibo a ricordarmi la mia infanzia: cucinare mi faceva stare bene perché mi riportava a quel periodo andato. Una volta arrivata a New York mi sono chiesta: “Perché amo così tanto la cucina?”. Credo che sia stato l’istinto a farmi tornare alle origini: ero bambina e all’epoca non avrei mai immaginato che non avrei più visto casa, poi nel tempo l’ho capito e, con dispiacere, ho pensato che non ero riuscita a salutare mia nonna Rosa, le mie caprette, le mie zie… Ecco, con la cucina ho portato la mia terra, la mia famiglia, in America».

Quella cucina piccola, ma piccola… così

«Una tradizione tenuta viva con passione, entusiasmo e amore da quattro generazioni, persino quando, appena arrivati Oltreoceano, la Caritas ci aveva assegnato un appartamentino con una cucina piccola quanto uno sgabuzzino. Lì abbiamo, comunque, fatto tavolate con la famiglia e gli amici, non senza difficoltà: ci passavamo il cibo di mano in mano, visto che non c’era spazio a sufficienza Poi, appena ho potuto, per reazione, mi sono regalata una grande cucina! Tra i piatti che preparavamo più spesso c’erano risi e patate, la polenta con il formaggio, le verze in padella e, soprattutto, gli gnocchi, che ancora oggi, quando li mangio, sono una carezza interna, mi trasmettono una “sensation” unica. Una tradizione che continua anche a New York e che ho trasmesso anche ai miei nipoti.

Attorno al tavolo a impastare gli gnocchi

Da piccoli i miei nipoti si mettevano tutti attorno al tavolo a impastare, proprio come faceva mia nonna con me; adesso sono adulti, vanno all’università, ma mi chiamano per chiedere consigli: “Come si fa il sugo, quanto deve bollire il brodo ecc.”. Sono felicissima che anche loro, oltre ai miei figli, possano portare con sé le loro origini, nonostante siano nati in America. La cultura del cibo trascende dalla nascita, ma appartiene alle origini della famiglia. Anche perché c’è una differenza sostanziale tra gli italiani e gli americani, noi ci portiamo dietro sempre il cibo. Per quello la cucina italiana negli Stati Uniti è la più apprezzata, anche grazie ai primi italoamericani che nel 1800 erano venuti qui a cercare fortuna, portando con sé le tradizioni regionali. Ben diverse dalle mie istriane, perché le loro erano del sud Italia. Così, in età adulta, ho cominciato a viaggiare in lungo e in largo per il Belpaese, così ho scoperti i piatti regionali e li ho portati negli States. Questa è stata la mia fortuna, questa la mia scelta, questa la mia vita».

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