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Come si mangia al ristorante di Al Bano

Come si mangia al ristorante di Al Bano

Orecchiette di grano arso, tubettini con le cozze e piatti generosi da mangiare fra i cimeli del cantante o all’ombra di un olivo secolare. Alla Tenuta di Al Bano Carrisi a Cellino San Marco, si mangia così

Al Bano è ovunque. Ti sorride dal menù, nelle foto di decenni di carriera appesi alle pareti e risuona in sottofondo con una colonna sonora dei suoi gradi successi. Alla Tenuta Carrisi nella sua Cellino San Marco fra oliveti e vigneti, Al Bano ha costruito negli anni attorno alla sua casa, una cantina vinicola, un hotel con spa e piscina, un’enoteca e un ristorante, intitolato al padre, Don Carmelo.

Carrisiland è il parco a tema pochi chilometri più avanti (non c’entra, è quello del fratello), ma la tenuta di Al Bano si sarebbe benissimo potuta chiamare così. Attrae ogni anno migliaia di visitatori incuriositi dal resort del celebre cantante, che fra un calice di vino e un piatto di orecchiette sperano di incontrare il loro idolo. Lo si incontra, perché Al Bano vive lì e farsi un selfie ricordo dopo il caffè non è un’eccezione.

Al Bano Carrisi nella sua tenuta (via FB)

Tutto è partito, in cucina

La fortuna di Al Bano si deve in qualche modo alla cucina. “Un buon piatto è come una bella canzone”, ripete da sempre, e nella sua vita le due grandi passioni sono andate di pari passo. Al Bano ha imparato a cucinare per necessità. Lo ha fatto a Milano, a casa e poi nella pizzeria dove lavorava prima di fare carriera nel mondo della musica. Fino al 1961 nella sua Cellino San Marco aveva cucinato solo sua madre, Jolanda, perché gli uomini all’epoca non stavano in cucina e i fornelli erano appannaggio delle donne. Partito alla volta di Milano però, solo, “la necessità si è fatta virtù” e ha cominciato a inseguire nuovamente i sapori della sua Puglia, cercando di riprodurli nel piccolo appartamento in cui viveva e mentre impastava pizze per lavoro. Ed è proprio al ristorante dove lavorava che conoscerà il produttore che lo introdurrà al mondo dello spettacolo e che lo porterà al successo nel 1967 con la canzone Nel Sole. Fino ad allora il suo lavoro era stato quello di aiuto cuoco e il Sole è l’elemento simbolo e onnipresente dell’intera tenuta.

Cozze crude e ed erbe di campo

Al Bano sa cucinare, bene, le riviste di gossip raccontano di grigliate bibliche e di zuppe di pesce che fecero impazzire Gérard Depardieu – noto gourmet oltre che attore. Il suo amore per il cibo non è rimasto una semplice passione ma è diventato negli anni qualcosa di più, come il Ristorante Don Carmelo all’interno della sua tenuta di Cellino San Marco, il libro di storie personali e ricette, La Cucina del Sole (Mondadori editore) e anche di ristoranti all’estero (La Felicità a Riga in Lettonia). La cantina della Azienda vinicola l’aveva fondata dopo averlo promesso al padre e oggi è in corso la costruzione del nuovo impianto per produrre 5 milioni di bottiglie, vendute in tutto il mondo.

La cucina è invece una passione ereditata dalla madre Jolanda. Dei piatti di casa ricorda le orecchiette al sugo, piatto della domenica, e del pane e olio che facevano invece da base nella dieta quotidiana. Ricorda le erbe selvatiche e i legumi, la frutta essiccata al sole e le cozze crude mangiate nei campi, ma anche di quanto gli fosse piaciuta la cucina giapponese (dove è stato una decina di volte e per trasferte anche di un mese). Ama il sugo in tutte le sue declinazioni, cita ristoranti locali in cui si mangia bene e si capisce quanto le foto che lo ritraggono ai fornelli o a bordo del trattore non siano poi così irrealistiche. Anche il cappello bianco, lo porta effettivamente sempre in testa.

La svolta del 2020 con la cooperativa dei dipendenti

A Cellino San Marco nella sua città natale è tornato nel pieno del suo successo con l’intento di restare e di fare qualcosa per la sua terra. Ha ristrutturato la masseria settecentesca che oggi ospita il ristorante e i suoi uffici, proprio sopra il ristorante. Coltiva vigneti, uliveti, ha orti di proprietà e comprato un intero bosco in cui ora vivono liberi cavalli selvatici. Negli anni Novanta aveva costruito un pezzo alla volta il borgo per ospitare i militari americani di una base vicina, che una volta chiusa gli hanno imposto una nuova destinazione d’uso e la nascita dell’hotel e di tutti gli altri servizi. Nel 2020 l’ultima delle novità dopo la chiusura forzata causa Covid: il personale della tenuta si costituisce in cooperativa e prende in mano la gestione della struttura e porta una ventata di rinnovamento e l’inserimento nel prestigioso circuito Les Collectioneurs fondato da Alain Ducasse. La filosofia resta quella di sempre, mi spiega Oliver, il manager della tenuta, ma al bar della piscina si servono cocktail contemporanei, una piccola cucina di piatti freschi e si guarda al futuro e ad un turismo diverso da quello organizzato di passaggio – azzerato dal Covid. Le recensioni che si leggono fra siti e social network fotografano una platea di curiosi, clienti storici, fan in pellegrinaggio e turisti in cerca di una tavola di cucina genuina.

Il ristorante dove l’ospite è il RE

Al Bano ci tiene all’ospitalità e così lo staff ora al governo del resort e del ristorante, “dove l’ospite si sente un RE”. Al Don Carmelo si servono piatti della tradizione pugliese e cucina italiana in generale, per accontentare i clienti dell’hotel e gli stranieri con un menù un po’ più vario, a rotazione. All’ingresso si viene accolti da una scultura di olivo secolare, la foto di Al Bano da giovane, con il Papa e di Putin, regali di fan illustri. Circondati da cimeli, locandine, vecchi poster, foto con capi di Stato, vip, concerti in luoghi esotici, ci si accomoda ai tavoli delle tre sale ricavate negli spazi della masseria di famiglia. In sala sono tutti gentilissimi, Vito il “maggiordomo” come viene definito dalla sua targhetta è uno di quei veterani capaci di governare comitive di vacanze organizzate quanto quanto feste privati e romantici tavoli da due. Il fatto che vogliamo mangiare giusto un piatto lo lascia perplesso.

Mangiare è come ascoltare una bella canzone. Cucinare è come fare musica.

Porzioni da Re

Facciamo onore al tagliere di salumi e formaggi del territorio per 2 persone che sfamerebbe una tavolata: la qualità della materia prima non è dozzinale, anzi. Il sautè di cozze e vongole che si vede girare agli altri tavoli avrà un chilo di frutti di mare, gli straccetti di manzo in porzione abbondantissima rientrano fra gli antipasti. Si capisce subito che qui si mangia, non si degusta, e che la felicità cantata da Al Bano sarà pure un bicchiere di vino con un panino, ma con un piatto di orecchiette è pure meglio. Alla chef Annamaria Verri pesce e primi le scorrono nelle vene: Tubettini al nero di seppia con le cozze e datterino giallo, Tortellaccio di grano arso con burrata su crema di zucchine e capocollo di Martina Franca, Spaghetti ai frutti di mare, e ovviamente le orecchiette. – ordiniamo quelle, una porzione in due. Le Orecchiette baresi alla salentina non sono un controsenso perché Cellino San Marco è in Salento, la chef barese, e le orecchiette sono fatte con grano arso, a mano, condite con un bel sugo di pomodoro e cacioricotta. La grigliata mista di carne che passa a fianco è un tripudio, a 16€. Le porzioni sono abbondanti, il cibo genuino, ben cucinato, come in una bella trattoria e ai prezzi di una trattoria.

La carta dei vini fra Nostalgia e Felicità

La carta dei vini si limita alle etichette della casa, quindi i vini come il Don Carmelo, vino storico dedicato al padre. Ci sono poi il Nostalgia, un rosso che richiama la canzone Nostalgia canaglia con cui era arrivato al terzo posto al Festival di Sanremo del 1987 con Romina, il Felicità che è un bianco composto al settanta per cento di uva Sauvignon e per il trenta di Chardonnay (entrambi a 14€ alla bottiglia, serviti anche al calice). E poi c’è il vino più prezioso, il Platone, un blend di primitivo e negramaro da vecchie vigne, 50€, il più caro.

“Mangiare è come ascoltare una bella canzone. Cucinare è come fare musica”, ripete al Bano, e per inquadrare il ristorante e tenuta non c’è parallelismo migliore. Non è rock, non è classica, non è jazz o blues sperimentale da critici musicali, è musicala leggera, pop e melodica, di quelle da ascoltare e canticchiare. Ha un fascino un po’ datato? Ha il fascino dei grandi successi, incluso il tormentone dell’estate 2021 cantato con i suoi conterranei Sud Sound System. Un evergreen.

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Come si mangia a La Palta, il ristorante di Isa Mazzocchi, Chef Donna 2021

Come si mangia a La Palta, il ristorante di Isa Mazzocchi, Chef Donna 2021

Un’ex-osteria che diventa meta gourmet, in una frazione del Piacentino. L’ennesima bella storia di provincia, firmata questa volta da Isa Mazzocchi: cuoca cresciuta sul territorio ma attenta al mondo. Ci siamo seduti alla sua tavola. Ottima

La grandezza della cucina italiana è in provincia. Ci sono ottimi ristoranti anche nei maggior centri urbani – a partire da Milano – ma è nei fuori porta (più o meno lontani) che si trova l’eccellenza. Quella storica, quella creativa ma soprattutto quella che riesce a rispettare il passato ma lo porta nel futuro. «In chiave critica e non nostalgica» sottolineerebbe Massimo Bottura che su questa visione ha costruito inizialmente la sua incredibile carriera. E figlia dell’Emilia è anche Isa Mazzocchi, vincitrice del premio Michelin Chef Donna 2021 by Veuve Clicquot. Entra in un albo d’oro importante, a 53 anni: anche questo ha un forte significato, perchè appartiene alla generazione ‘di mezzo’ a differenza dei talenti che l’hanno preceduta come Marianna Vitale o Martina Caruso e hanno trovato una strada meno impervia. Lei invece si è costruita una valenza di cuoca quando era un lavoro poco dignitoso, spesso ereditato da madri o nonne per casualità. L’unico riferimento erano miti lontani come Nadia Santini, Annie Feolde e Luisa Valazza: oggi le giovani possono crescere in ben 42 locali stellati al femminile. Non c’è paragone, a pensarci bene.

Allieva di Georges Cogny

Altra peculiarità: Isa è arrivata alla fama lavorando dal 1989 in una minuscola frazione di Borgonovo Valtidone, in provincia di Piacenza. Storia di provincia, italianissima: l’osteria di famiglia, riferimento per Bilegno perchè vendeva (e vende tuttora) sali e tabacchi, che si trasforma stagione dopo stagione in un ristorante di livello, senza slegarsi dal territorio anzi esaltandolo. Aiutata dalla ‘sua’ famiglia: la sorella Monica che regna sulla sala, il marito Roberto che vigila su una delle migliori cantine emiliane: 800 etichette dai Colli Piacentini al mondo. Perchè a La Palta si è sempre guardato fuori e avanti, anche e soprattutto per il carattere anticonformista di una cuoca che sostanzialmente ha fatto un solo passaggio importante, quello alla scuola di Georges Cogny. Un francese innamorato del Piacentino e grande protagonista della scena culinaria, negli anni ’80 con l’Antica Osteria del Teatro. Per la cronaca, ci è passato pure Bottura.

Cucina di grande personalità

Il menu de La Palta rispecchia il carattere della Mazzocchi: un’alternanza di creatività, tradizione reinterpretata con un tocco di irriverenza e solidi piatti di una volta. Una cucina senza regole se non quella del rispetto per il suo territorio, le materie prime e l’equilibrio dei sapori. Nei suoi piatti c’è la terra piacentina, unita a uno sguardo sul mondo e ai suoi influssi: per capirsi, nella carta del momenti ci sono i Tortelli Piacentini con la coda al verde di stagione e i Ravioli di riso tra Oriente e Occidente. Entrambi intensi, ugualmente eleganti. «Vedo la mia cucina come una follia, quella di poter offrire e presentare portate particolari e impensabili, osservando con piacere che la clientela continua ad appoggiare le mie scelte. Tante volte in passato abbiamo visto i clienti sedersi al tavolo e rialzarsi poco dopo aver consultato il menu, sorpresi di non poter mangiare una cucina tipica. Oggi non è più così» spiega la chef-patronne.

Chef Isa Marzocchi (ph Andrea Moretti)

Stellata dal 2012

La stella Michelin è arrivata nel 2012, una conquista giorno per giorno. E’ una stella estremamente godereccia, lo si capisce quando arriva – immancabile – un assaggio di una clamorosa Coppa di San Carlo, stagionata 16 mesi. I suoi primi signature dish sono stati i Tortei di pisarei ripieni di anolini o il Ravioli di ravioli in sei stagionature di Parmigiano Reggiano (foto in apertura). Ma è pure una cucina che presenta piatti ricercati nella preparazione, negli accostamenti, nei giochi cromatici, ma dal sapore pieno e corposo che non scivola mai nell’esercizio di stile. Attenta al pesce d’acqua dolce (il Toast di pesce gatto arrostito, cotto, crudo e gelato di piselli o il Filetto di trota con pisarei al gusto di gamberi di fiume e spinaci) come alle carni nobili o povere: Petto di faraona “Mille spezie” con carote nostrane alla senape ma anche una sorprendente Asina marinata al pepe, radicchio, pere ghiacciate e grissini bruciati.

Sei nelle mie mani

Nei piatti c’è anche la ricerca del contrasto piacevole (Tagliolini lumache e ortiche, Risotto asparagi e limone candito, Lingua alle fragole) come la golosità finale della serie di dessert: Morbido ai 3 cioccolati, frolla salata, erbe e fiori di campo; Girella ai fiori di sambuco con stracciatella agli asparagi e melissa; Zuppa di nespole con gelato al Vin Santo di Vigoleno e tortelli fritti al latte… Si sceglie alla carta o ci si affida al sorriso di Isa che vuole raccontarsi nel degustazione a mano libera che ha un nome simpatico quale ‘Sei nelle mie mani’: sei piatti a 85 euro (e pure su questo, complimenti). Morale, starete benissimo a La Palta dopo questo meritato premio come si stava benissimo sino a ieri. E’ il regno di una ‘signora’ che ama ristorare nel senso totale della parola, è l’Italia del buon gusto (non solo a tavola), è la nostra provincia che non passerà mai di moda. Per fortuna.

La mocetta valdostana: che cos’è e come si mangia

La mocetta valdostana: che cos'è e come si mangia

La mocetta è un tipico salume valdostano, preparato con la coscia di vacca invecchiata secondo l’antico metodo di salagione e conservazione. Si fa solo con le parti più magre, per questo è ideale anche nelle diete, oltre che essere molto gustosa e aromatica

In Valle d’Aosta ci sono più di settanta comuni, ognuno con il suo patois (il dialetto locale) e il suo modo di preparare (e chiamare) i salumi. Per questo non esiste un modo più o meno corretto di dire mocetta, motsetta o motzetta, poiché dipende dalla vallata in cui ci troviamo. Quello che però è certo è la materia prima di partenza con cui si prepara questo salume antico, dai numerosi utilizzi in cucina, che ci ricorda un po’ la bresaola. Ma fate attenzione a non dirlo ad alta voce, perché in valle potrebbero offendersi: la mocetta è la mocetta.

La Valle d’Aosta è allevamento

La Valle d’Aosta è soprattutto allevamento. Pensate che nel 2014 sono state censiti più di trentamila bovini presenti in regione (e quasi quattromila aziende iscritte all’anagrafe), di cui ventimila di razza pezzata rossa. Negli ultimi anni la situazione non è poi così cambiata: l’allevamento bovino, rispetto a quello ovino o caprino, continua a farla da padrone, anche se si è verificato una sorta di accentramento; sono calate le stalle e le aziende, ma non quello dei capi di bestiame, a dimostrazione che si tratta di un mestiere che fanno sempre meno persone. Inoltre, l’allevamento bovino qui in valle dura tutto l’anno, non ha quasi stagioni; le vacche valdostane trascorrono gran parte della vita al pascolo, cambiando spesso le erbe a seconda del periodo e scegliendo loro stesse di quali essenze nutrirsi. Quindi, oltre a un latte molto vario, da cui i vari prodotti caseari d’eccezione (quali fromadzo, toma e fontina), le vacche valdostane ci regalano anche una carne molto gustosa, presente in vari modi in cucina. Uno dei modi migliori per apprezzare la bontà della manza valdostana è la carbonada, una sorta di spezzatino di carne magra tagliata a dadini e cotta nel vino, spesso insieme alla sosa, uno stufato di verdure miste. E poi, ovviamente, la regina dei salumi valdostani: sua maestà la mocetta, sia fresca sia stagionata.

Che cos’è la mocetta (e la misada o tseur achétaye)

Se sul boudin ci sono più varianti, sulla mocetta non si scherza: si fa solo con la coscia di mucca vecchia invecchiata. In realtà in passato si faceva anche con la coscia disossata di capra, camoscio o stambecco, mentre oggi, per fortuna, questi animali sono protetti dalla caccia. «Ma un tempo non era così, la mocetta si faceva con la cacciagione», ci spiega Denise Marcoz del ristorante Lo Grand Baöu. «Infatti oggi, ad esempio, la fanno con il camoscio solo quelli che vanno a caccia, altrimenti in giro si trova solo di vacca valdostana, vecchia». La mocetta si può mangiare anche fresca e cruda, prima che si compia il processo di salagione e di essiccazione: in questo caso si parla di tseur achétaye o di misada, che ricorda un po’ la carne salada trentina, condita solo con olio di noci e sedano selvatico, come la prepara Denise. Per ottenere la mocetta, invece, cioè la carne salata e essiccata, bisogna procedere così: si prende sempre la parte più magra della coscia, si mette in un recipiente con sale, alloro, salvia, spicchi d’aglio, pepe e altre spezie, poi si conserva al fresco sotto un peso, come vuole l’antico metodo di conservazione. Nel frattempo si forma una salamoia in cui dovrà stare immersa per almeno due settimane; dopo la salagione, a differenza della bresaola, non viene insaccata ma si fa asciugare direttamente e seccare appesa in un luogo arieggiato per almeno tre o quattro mesi, anche se più tempo passa meglio è. In questo modo la mocetta sarà pronta per essere degustata nella tipica merenda valdostana o in altre sfiziose ricette.

La mocetta in cucina

Il modo migliore per assaggiare la mocetta è da sola, come antipasto. In alternativa ci sono numerosi utilizzi che si possono fare in cucina, soprattutto abbinandola con altri prodotti locali valdostani. Ad esempio, spesso si trova sui crostini di pane di segale caldo, con miele o burro; oppure è ottima insieme ai funghi, condita con una salsina di olio, limone, aglio e prezzemolo. Non da meno è l’accompagnamento con i formaggi, dal caprino fresco alla fontina, ma anche con verdure fresche quali insalate o finocchi, in particolare per chi a dieta. Poi c’è un altro piatto curioso che abbiamo trovato in un libro di cucina locale: è il Su sci valdostano di Agostino Buillas, del Cafè Quinson di Morgex, una sorta di sua personale rivisitazione degli involtini di Fénis.

La ricetta del Su sci valdostano

Le dosi che seguono sono per circa quattro persone.

Ingredienti

200 g riso Carnaroli
qb brodo vegetale
8 fette lardo d’Arnad di medio spessore
100 g mocetta
100 g fromadzo (anche fontina o toma di Gressoney)

Per la maionese
100 g tuorlo d’uovo
1 pizzico di sale
succo di mezzo limone
½ litro olio di noci

Procedimento

Tostate il riso come per il risotto e bagnatelo con il brodo vegetale nella misura del doppio del suo volume. Fate bollire, poi mettetelo coperto nel forno preriscaldato a 180° per circa quindici minuti. A cottura ultimata, stendetelo su un piano per farlo raffreddare velocemente, spatolandolo per aiutare il raffreddamento, e ponetelo in frigorifero a riposare per circa due ore.
Nel frattempo preparate la maionese.
Trascorso il tempo stabilito, stendete le fette di lardo su un tappetino di sushi, sovrapponendole leggermente. Aggiungete uno strato di riso di circa 1 cm, avendo cura di lasciare libero almeno la metà del lardo per consentire l’arrotolamento. Sovrapponete al riso una striscia di maionese utilizzando una sac à poche o un cucchiaio. Adagiatevi accanto una striscia di mocetta e una di formaggio. Arrotolate formando un rotolo ben compatto.
Tagliate il rotolo in fette spesse circa 3 cm e disponetele sul piatto di portata. Servite in abbinamento a un calice di Ninive di Ermes Pavese o di Saint-Ours di Noussan e lasciatevi stupire da quel settore recente, ma in crescita costante, che è la viticoltura valdostana.

Ah, lo sapevate che con la mammella di vacca, allo stesso modo della mocetta, si prepara anche un altro salume, seppur più raro? È il teteun, festeggiato ogni anno ad agosto a Gignod durante la Fëta di Teteun.

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