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Beppe Palmieri, il miglior maître al mondo, si racconta

Beppe Palmieri, il miglior maître al mondo, si racconta

Intervista al maître e sommelier dell’Osteria Francescana di Modena. Che ci svela onori ed oneri di un maestro di sala. Tra rigore, passatelli e zero alcol. In 25 annidi carriera

«Questo è l’ufficio storico di me e Massimo, esiste da circa 15 anni. Uno spazio solo nostro».

Sono con Giuseppe Palmieri, detto Beppe, restaurant manager, maître storico e sommelier dell’Osteria Francescana di Modena, nel suo «rifugio segreto» a due passi dal ristorante, un luogo pieno di arte contemporanea, un lungo tavolo di legno, come quelli dei famosi Refettori Francescani del progetto Food for Soul, per le loro riunioni e una stanza-guardaroba dove lui, elegantissimo, si cambia ogni giorno prima del servizio. Definito «il cameriere più famoso al mondo», Palmieri è praticamente un mito del settore. Ma lui si schernisce «ho scelto coscientemente anni fa il ruolo del gregario», ma senza vittimismi anzi «la vera rivoluzione si fa in sala. E’ qui che si decreta il successo economico e delle idee di un cuoco. Quello che fa la differenza? Il fattore umano». Noi de La Cucina Italiana abbiamo trascorso una giornata con lo staff del ristorante di Massimo Bottura, (il servizio nel numero di luglio, co-diretto con lo chef) due volte migliore al mondo secondo la classifica World’s 50 Best Restaurant, incontrando anche lui, dal 2000 al servizio in via Stella, a Modena, nel locale rilevato 5 anni prima da Bottura. Nato a Matera nel 1975, un carattere forte e determinato, ha all’attivo un blog dal nome evocativo Glocal, manifesto della sua visione del cibo e della ristorazione,  un libro «Sala e Cucina» (Artioli 1899, pp. 169, 35 euro), diario di bordo della sua esperienza in Osteria Francescana. Imprenditore, ha gestito per 7 anni un alimentari con vendita di panini di alta qualità, a Modena, il mitico Generi Alimentari Da Panino, che dopo il lockdown ha deciso di chiudere ma solo per guardare a nuove avventure e «stare al passo con i tempi».      

Come si gestisce una sala da primi del mondo?
«A noi è sempre venuto naturale guardare al collettivo, non ci sono gruppi: per questo, dal più anziano a più giovane ci siamo messi e relazionati sempre sullo stesso piano. L’ho realizzato da subito: per funzionare il nostro assetto non poteva essere verticale ma orizzontale, rendendoci responsabili in egual misura».

Da che cosa si distingue un buon cameriere?
«Amo ripetere che camerieri si diventa, non si nasce, ci vuole esperienza, etica del lavoro. Poi le leadership, il talento, di fatto emergono da soli. Un leader si fa riconoscere per il senso di responsabilità verso i propri colleghi. Trovo detestabile il termine “collaboratori”. Se tu investi in maniera autentica su un rapporto di stima e amicizia tra colleghi in modo forte, ne nasce un grande rispetto, non ci sono subalterni».

Si spieghi meglio
«Se tu hai un sogno, hai bisogno degli altri per realizzarlo: tutti devono dare qualcosa, con lo stesso impegno, con il massimo orgoglio. Poi certo, ci vuole autodisciplina e una condizione psicofisica eccezionale che permette di andare oltre i propri limiti. Bisogna stare bene, essere contenti di quello che si fa. Se il singolo non è allineato, compromette il lavoro della totalità».

Si dice che anche se in cucina c’è l’Inferno, in sala deve regnare il Paradiso. Lei come trova il tempo di ricaricarsi e come riesce a trasmettere sempre armonia, pur nelle sue giornate concitate?
«C’è un momento molto importante per me ed è quando vengo nella mia, «cameretta», come la chiamo io, proprio in questo studio. Qui mi cambio e raccolgo i miei abiti. Ho un rituale che mi rilassa particolarmente: mi sciacquo la faccia, appoggio le chiavi sempre nello stesso punto, mi lavo i denti, scelgo l’abito, lucido le scarpe, mi annodo la cravatta. In tutto non impiego più di 10 minuti».

Molto breve come relax.
«E’ lo spirito della sala, non ci si può fermare». 

E’ sempre molto elegante: la forma è anche sostanza?
«Credo di sì, dato il mio ruolo. Anche in ciò che indosso, tengo a dare importanza al mio passato, e quindi alle cose che hanno una certa età. Le faccio un esempio: una camicia o una giacca anche se si logorano non sono certo da archiviare: in primis perché mi ricordano delle esperienze e quei momenti vissuti danno valore. Poi perché un capo di qualità, più invecchia, più è bello. Le imperfezioni danno fascino».

C’è un piatto che associa a tanti pasti consumati con lo staff dell’Osteria Francescana? Una ricetta delle feste magari?

«Credo che quello che ho più amato qui, siano stati i passatelli in brodo. Quando ce li concediamo, e sono davvero rare occasioni, quel piatto assume le connotazioni di un genere di conforto. Ci rappresenta più di altri perché è una grande ricetta storica emiliana. Poi ha un valore simbolico: è il piatto di recupero per antonomasia pur preparato con ingredienti nobili. Il brodo è un lusso: per farlo buono servono materie prime eccellenti e molto tempo. Nell’impasto dei passatelli infine c’è un mondo: le briciole di pane e un altro ingrediente-principe per noi della Francescana, ovvero le croste di Parmigiano Reggiano. Infine, per prepararli ci vuole il contributo di una comunità intera perché bisogna raccogliere tanti ingredienti. Di solito funziona così: c’è chi si ricorda che ci sono due buste di pane avanzato o un po’ di Parmigiano grattugiato. Poi in 2 o 3 si prepara il brodo. E’ uno dei piatti del nostro collettivo in cui non ho visto nessuno rifiutare il bis. Poi, ogni volta c’è un risvolto comico…».

Comico?
«Sì: nel momento in cui ci si servono i passatelli inizia il percorso accidentato dalla pentola verso la sedia. Si vedono brodi che cadono, gente che scivola. Si ride. Anche questo fa parte della festa, della magia».

In sala, alla Francescana, ci sono incredibili opere di arte contemporanea: cosa rappresentano per lei?
«Chi fa avanguardia ridiscute i classici: ecco, queste opere ne sono la prova, la summa. D’altro canto mi piace pensare che abbiamo sempre vissuto nel rigore».

Infatti il suo motto è «basso profilo, altissime prestazioni». Ha un che di militaresco.
«Esatto.  Dal punto di vista artistico c’è un’opera che mi rappresenta e che trovo al contempo una pietra miliare. E’ stata esposta per diversi anni proprio qui in Francescana: Us Navy Seals di Vanessa Beecroft. Per la prima volta una donna è riuscita a fotografare questi militari della marina americana schierati. Significa rompere un baluardo. Lo stesso approccio che guida la creazione dei nostro piatti».


Lei è un grande sommelier: come brinda lo staff?
«Non lo fa. Nella nostra storia della francescana, in 25 anni, non abbiamo mai bevuto un bicchiere di vino. Amiamo così tanto quello che facciamo che non potremmo agire altrimenti. Il lusso di un buon bicchiere di vino, che sia un Nebbiolo, un Sangiovese un Lambrusco o un bicchiere di Bordeaux, ce lo concediamo quando non siamo operativi. Il segreto per chi fa il nostro lavoro è la concentrazione nell’intensità dello sforzo. Sempre».

 

» Focaccia fiorita – Ricetta Focaccia fiorita di Misya

Misya.info

Innanzitutto preparate l’impasto per la focaccia: mettete farina e lievito a fontana in una ciotola, iniziate ad aggiungere l’acqua, quindi unite anche sale e olio e impastate fino ad ottenere un panetto liscio e omogeneo.

Mettete l’impasto in una ciotola leggermente unta di olio, coprite con pellicola trasparente (non a contatto) e lasciate lievitare per almeno 1-2 ore o fino al raddoppio del volume.
Nel frattempo preparate le verdure che userete per la decorazione.

Quando l’impasto sarà raddoppiato di volume, sgonfiatelo delicatamente con le mani infarinate, quindi stendetelo nella teglia leggermente unta (o rivestita di carta forno).

Procedete quindi con la decorazione della focaccia: noi abbiamo usato i funghi per il terreno, le zucchine per gli steli dei fiori, basilico e rucola per le foglioline, olive verdi, pomodorini e zucca per i petali, il mais per i pistilli (la parte interna dei fiorellini) e per il sole (insieme a pezzettini di polpa di zucchina per i raggi), e olive nere per gli uccelli.
Spennellate con poco olio e salare un pochino la superficie e cuocete per circa 20 minuti in forno ventilato preriscaldato a 190°C (se vi sembra che le verdure stiano scurendo troppo, coprite con un po’ di carta di alluminio).

La focaccia fiorita è pronta, lasciatela intiepidire almeno un po’ prima di servirla.

Il cono gelato da 70 euro si mangia a Ruvo di Puglia

Il cono gelato da 70 euro si mangia a Ruvo di Puglia

Per chi viaggia alla ricerca dei luxury food (dall’inizio di giugno si potrà tornare a farlo), la gelateria Mokambo è una tappa irrinunciabile. Qui si può gustare lo Scettro del Re, un cono da 70 euro fatto solo con gelato di zafferano iraniano

Sentirsi reali a tavola è possibile. Ce lo ha insegnato Gualtiero Marchesi con il suo Riso, oro e zafferano. Ma una foglia d’oro da sola, senza materie prime eccezionali, è niente. Lo sanno bene Franco, Giuliana e Vincenzo Paparella che nella loro gelateria Mokambo, a Ruvo di Puglia, in provincia di Bari, hanno creato lo Scettro del Re, un cono da 70 euro fatto con gelato allo zafferano, panna e oro alimentare. E non è quest’ultimo, l’ingrediente più costoso.

Gelateria Mokambo: dai Borbone alla quarta generazione dei Paparella

La storia di Gelateria Mokambo inizia nel 1910, quando Luigi Marseglia, garzone prima, poi capo di pasticceria del Caffè Gambrinus di Napoli, si trasferisce a Ruvo di Puglia, per seguire la sua sposa pugliese. «È lui è il pazzo che ci ha infettati di questa malattia», racconta Franco Paparella». Qui apre il suo Caffè Gambrinus, uno dei bar simbolo del secolo scorso in città, e prende sotto la sua ala Vincenzo Paparella senior. Proprio lui, l’8 novembre 1967, in corso Carafa 56, apre il Bar Mokambo, dove vivono le ricette dell’arte bianca di Marseglia. Nel locale lavorano Franco e Antonio, i due figli di Vincenzo. Alla sua morte, i fratelli si dividono: Antonio resta nel Bar Mokambo e Franco intraprende un’avventura nel mondo della ristorazione. Negli anni Novanta il bar chiude, ma la nostalgia condivisa per quel gelato eccezionale non si placa. Galeotto fu Facebook. Una utente pubblica un post in cui ricorda quel locale e le sue delizie. Il messaggio cade sotto gli occhi dei fratelli Giuliana e Vincenzo Paparella, figli di Antonio, che iniziarono a fantasticare sul riaprire la gelateria di famiglia. Ma la chiave di tutto era convincere zio Franco, appassionato di donne e motori, ma soprattutto abile maestro gelatiere, a rimettersi in pista. Ce la fanno e riaprono alla fine dell’estate 2016, «una scelta imprenditoriale vincente!», scherza Giuliana. Vincenzo si occupa del marketing, sua sorella “ruba” il mestiere al maestro di lungo corso e si occupa del servizio e della produzione, mentre ancora oggi zio Franco – come lo chiama chiunque entri nel mondo Mokambo – si sottrae ai fotografi e non ama la ribalta. Ma fa un gelato che marchia a fuoco le papille gustative.

Otto gelati e ingredienti “d’Altri Tempi”

Nei pozzetti ci sono otto gusti (elencati da Giuliana rigorosamente in ordine cromatico): Crema del Re 1840 (la ricetta del 1840 tramandata da Luigi Marseglia e premiata dal Re Ferdinando II di Borbone), Torrone croccante di mandorle (con frutti locali, «Ruvo è da sempre un territorio vocato per la coltivazione delle mandorle», spiega Giuliana), Pistacchio di Bronte DOP, Nocciola delle Langhe IGP, Gianduia IGP, Cioccolato Puro (ottenuto da venti fave di cacao differenti, selezionate in giro per il mondo; viene proposto il gusto monorigine o creato con un blend di fave), Tartufo (cioè la variante speziata del cioccolato). Alcuni gusti ruotano durante l’anno: c’è il Caffè superior, la Granita di Limoni di Sorrento IGP (disponibile da maggio a settembre), il Gelato di Gelsi rossi, quello alla Mela cotogna, e il Nonna Lena, fatto con fichi secchi, scaglie di mandorle e pepite di cioccolato puro 100 per cento). Ogni cono viene guarnito con panna («rigorosamente fresca, di origine animale»), granella di mandorle, granella di Pistacchio di Bronte DOP, di Meringhe home made e di Fave di cacao in abbinamento a quelle usate per il gusto al cioccolato disponibile nel pozzetto in quel momento.

Dalle Ricette di Marsiglia al Libro di Ciocca passando allo Zafferano Iraniano

Nei primi anni del secolo lo stesso Luigi Marsiglia collaborò con l’invio di alcune delle sue ricette alla stesura del volume Il Pasticciere e Confettiere Moderno, scritto da Giovanni Ciocca, probabilmente uno dei più famosi pasticceri del XX secolo. Alcune di queste ricette, prevedevano l’utilizzo di ingredienti esclusivi come lo zafferano, appunto, in quel periodo comune solo nelle cucine delle più importanti famiglie. La diffusione di questo ingrediente “al grande pubblico” risale a partire dal 1860 grazie all’introduzione a opera del cavalier Giuseppe Alberti del liquore Strega. È infatti questa spezia che conferisce il caratteristico colore gallino al liquore di Benevento.

Scettro del Re.
Scettro del Re.

Perché questo è il miglior zafferano

Lo zafferano viene valutato in base a 3 parametri: il potere colorante, dato dalla crocina, quello odoroso, dato dal safranale, e quello amaricante, dato dalla picrocrocina. I valori in termini comparativi dello zafferano coltivato in Italia e quello utilizzato presso la gelateria Mokambo parlano chiaro. Lo zafferano iraniano scelto dal team Paparella contiene 233 nm di crocina, quindi ha un colore più intenso, rispetto a quello noto come 1 cat. in ISO3632, che ne ha 190 nm. La quantità di safranel nello zafferano di 1 cat. in ISO3632 è di 70 nm; quello iraniano utilizzato da Mokambo arriva a 100 nm. Quindi ha un profumo più intenso. La picrocrocina dello zafferano di 1 cat. in ISO3632 si attesta tra i 20 e i 50 nm, mentre quello iraniano arriva a 35 nm. «La principale differenza tra lo zafferano made in Italy e quello che usiamo noi è la nota amara, molto marcata, quel sapore metallico della spezia», spiega Giuliana Paparella. «Il primo assaggio del nostro gelato allo zafferano è sì leggermente metallico, ma poi inizia subito a liberare note agrumate e floreali. Se lo zafferano italiano costa un terzo rispetto a quello iraniano un motivo c’è». Il prezzo della spezia italiana si attesta attorno ai 20 euro al grammo, contro i 60-70 euro di quello proveniente dall’Iran.

Un’amicizia preziosa

L’arrivo dell’attuale zafferano iraniano tra le mani di zio Franco e Giuliana è merito di Giuseppe Ladisa e Yuki D’Innocenzo, due avventurieri glocal di Bari, che nel proprio tempo libero vanno a caccia di chicche gastronomiche e no. Durante una domenica in giro tra i colli murgiani, Yuki scova la gelateria Mokambo su TripAdvisor. «All’epoca aveva solo 15 recensioni», ricorda la ragazza di origini italo-giapponesi. «Le ho lette tutte, attentamente, e ho detto a Giuseppe “Perché non facciamo un salto a Ruvo?”». Combattendo lo scetticismo, i due si dirigono verso la cittadina del nordbarese e si innamorano del gelato, della simpatia dei Paparella bros e della sagacia di zio Franco. Tornano molte altre volte. Durante uno dei loro assaggi, raccontano di essere in procinto di partire verso l’Iran. Giuliana non si fa sfuggire l’occasione e chiede a questi due clienti ormai amici di portarle un po’ di zafferano “vero”. Durante il viaggio Yuki e Giuseppe si informano sulla zona di produzione e si tengono in contatto con la gelateria. Scovato il prodotto giusto («perché in Iran il livello di contraffazione è altissimo», spiega Yuki), lo acquistano e lo consegnano ai gelatieri, che ne ricavano un gusto davvero unico. «In Iran fanno il gelato allo zafferano con pezzi di pistacchio o con l’acqua di rose. Ma ci mettono un sacco di gomma di guar, che lo rende tipo una chewing gum», spiega Giuliana, che ha fatto molto di meglio.

Gli ingredienti

Per fare lo Scettro del Re servono latte appena munto (proveniente dalla zona di Altamura, più precisamente dall’Azienda Agricola Santa Maria dell’Assunta, nel Parco nazionale dell’Alta Murgia), uova, zucchero e, naturalmente, lo zafferano. Per assaggiarlo, bisogna prenotare il gusto con tre giorni di anticipo, necessari per organizzare la lavorazione. La sola infusione dello zafferano si aggira attorno alle quattro ore. «Usiamo la parte alta, più nobile del pistillo più alto (ogni croco ne ha tre, ndr.), il sargol», spiega Giuliana. Inoltre, lo zafferano deve essere utilizzato a una temperatura non troppo alta. Dopo una mantecazione di 15 minuti nella storica Carpigiani SED L20c del 1972, il gelato allo zafferano è pronto per essere montato sul cono. Dopo aver farcito il fondo della cialda con panna e tre Pistacchi di Bronte DOP, si aggiunge il gelato e un velo di panna fresca. Non sarebbe un vero scettro regale senza un po’ di metallo prezioso: infatti, chiude la composizione un foglio di oro alimentare e qualche scaglia di zucchero caramellato. Lo Scettro del Re costa 70 euro a cono. Lo si può acquistare solo su ordinazione e per un minimo di due coni. Un’intera vaschetta da mezzo chilo costa tra i 450 e i 500 euro. Come per tutti gli altri gusti, si può ricevere anche a domicilio. L’assaggio è elegante, vellutato. Al contatto con il palato, i sentori agrumati liberano l’immaginazione: siamo nelle Mille e una notte e l’Oriente si può quasi toccare, anche da un paesino della Puglia.

Testo Stefania Leo

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