Il pranzo di Ferragosto – La Cucina Italiana

Il pranzo di Ferragosto - La Cucina Italiana

Il pranzo in spiaggia a Ferragosto è quasi un rito per molti italiani. Il nostro racconto sotto l’ombrellone

Zio Amerigo, detto da tutti Migo, si lascia cadere in ginocchio sulla renella della spiaggia. È sudatissimo. Sfinito. Insomma, ormai ha i suoi sessant’anni e benché sia un uomo in salute, alto oltre il metro e ottanta, robusto, anzi, grosso, visto che è un miscuglio di muscoli e grasso, si è appena fatto tutto lo stradello che dalla provinciale per Portonovo scende, ripido e discosceso, fino al mare di Mezzavalle. Appollaiata sulle sue spalle, in un trespolo che sembra una via di mezzo fra un seggiolone e uno zaino per affrontare la fine del mondo, opera dallo stesso zio Migo, sta sua madre Ortensia. Nonna è una novantenne minuta, gracile e leggera come un fuscello in un tornado. Ma la cosa più strabiliante è che nonna Ortensia fa magie.

Chiamatela strega, maga, fata, insomma definitela come vi pare, e anche se nessuno in famiglia mi crede, io vi giuro che fa magie. L’ho raccontata tante volte questa storia, ma tutti, amici e parenti, mi ripetono sempre che nonna, quella volta lì, mi ha fatto uno scherzo e io, che ero un bambino, ci sono cascato. Per anni ho raccontato quanto accaduto quella mattina, anche in presenza di nonna Ortensia, aspettando una sua conferma a quanto dicevo. Ma nonna si è sempre limitata a fare un sorriso e così tutti hanno continuato a dirmi: «Ma ancora con questa sciocchezza. Lo vedi, ti ha fatto uno scherzo. Eri solo un bambino e ti sei immaginato tutto.»

D’accordo, non ne parlo più con nessuno di quella volta lì, ma io so bene cosa ho visto. E il mio ricordo è nitido. Perché quel pettirosso sul ciglio della strada sterrata che facevamo d’estate per andare alla fattoria, lo avevo trovato proprio io.
«Nonna, nonna. Corri a vedere.»
Ero sceso dalla bici e mi ero inginocchiato. Il pettirosso era lì, fra l’erba polverosa e il breccino bianco della strada. Però non avevo avuto il coraggio di toccarlo.
Nonna era scesa dalla bici e si era chinata accanto a me.
«È morto?» le avevo chiesto senza staccare lo sguardo dal povero animale.
«Non lo so.»
«Ma ha il sangue, guarda!»
«Adesso vediamo come sta» mi aveva detto. L’avevo guardata raccogliere il piccolo volatile e tenerlo fra le mani a coppa. Poi lo aveva stretto delicatamente fra i palmi, si era tirata in piedi e aveva mormorato qualcosa. Io avevo pensato che pregasse. Ma con il tempo, invece, ho capito: diceva delle parole magiche, mia nonna. E questa cosa non me la toglierà mai nessuno dalla testa.
Era andata avanti per un po’. Mi ero alzato e mi ero messo accanto a lei, in attesa. Ero restato lì a guardarla mentre soffiava dentro le sue mani socchiuse. Poi aveva sorriso.
«Bene» aveva fatto alla fine. «Adesso vediamo come sta.»
All’improvviso aveva spalancato le mani e detto: «Vai!»
Il pettirosso, davanti ai miei occhi incantati, era volato via, in alto nel cielo azzurro.
Ricordo di averle gettato le braccia attorno alla pancia stringendola forte forte, mentre lei rideva felice e divertita.
Ma tanto non mi crede nessuno.

«Zio, proprio non capisco: ma fra tante spiagge, dovevamo portare la nonna proprio qui? Ma hai idea di cosa significherà arrampicarci su per quel maledetto stradello, stasera?»
«Mamma voleva vedere il mare. E questo è il mare più bello che c’è. Vero mamma?» Torce il collo per guardare nonna Ortensia, che fa di sì con la testa e sorride.
Su questo non c’è discussione. Il solo scorcio di Riviera del Cònero visibile dalla cima dello stradello che precipita giù per la falesia ripaga di tutta la fatica. La Baia di Portonovo sulla destra, verso sud, e la punta del Trave a sinistra. E al centro l’Adriatico, con le sue acque verdi che rispecchiano il verde immenso e intenso del Cònero. Se incroci la giornata giusta, una di quelle con l’aria limpida e trasparente, da lassù riesci a scorgere anche le isole della costa croata.

Certo che, però, affrontare quell’irto stradello con la nonna appollaiata sulle spalle… Ma ci siamo ben organizzati, come facciamo ogni anno, qualunque sia la località scelta per festeggiare il Ferragosto tutti assieme. Al cibo, alle bevande, alle sedie, ai tavolinetti pieghevoli, agli ombrelloni, insomma a tutto l’indispensabile per trascorrere l’intera giornata in spiaggia pensa il resto del parentame. Anzi, gli ombrelloni sono già qui, perché la generazione dei giovani, mio figlio e quelli dei miei fratelli e dei miei cugini, è scesa giù ieri sera e ha trascorso la notte dormendo sulla spiaggia. Distesi sugli asciugamani, circondati da vuote lattine di birra e qualche bottiglia di tequila, i nostri figli sonnecchiano ancora.

Do una mano allo zio per scaricare la nonna dalla sua schiena. Apro al volo un ombrellone, una sedia e ce la infilo sotto.
«Tu stai all’ombra» le dico. «Il sole picchia forte, oggi». La nonna fa un sorriso. Sa che ci prendiamo tutti molta cura di lei, come una volta lei faceva con noi.
Mi dico sempre che dovrei passare più tempo con mia nonna. Ma poi finisce che il lavoro, la famiglia, gli impegni… insomma, i problemi di tutti i giorni mi portano altrove. E questo mi spiace.
Va bene, ve l’ho detto, ho smesso di parlare del fatto che fa magie, perché sono stanco di farmi prendere in giro e di sentirmi dire che è tutto frutto della mia fantasia di bambino, che è stato solo uno scherzo della nonna. Ma non c’è niente da ridere. Io so quello che ho visto e anche oggi, che ho superato i trentacinque, che sono sposato da quando ne avevo venti e che ho un figlio di sedici anni, io resto convinto che mia nonna le faccia per davvero, le magie. E non c’è niente che potrà mai convincermi del contrario.

Un po’ alla volta arrivano gli altri parenti. A mezzogiorno ci siamo tutti. È incredibile! Siamo oltre trenta persone, quattro generazioni: dalla nonna Ortensia, che è anche bis e trisnonna, alla poco più che neonata Giada, figlia della figlia di mia cugina Margherita. E siamo tutti al riparo di otto ombrelloni disposti in senso circolare, a formare una specie di enorme capanna. Sotto, una distesa di sedie e tavoli attaccati uno accanto all’altro a formare un cerchio che segue il perimetro degli stessi ombrelloni. Se poi ci mettiamo l’infinità di asciugamani sparsi qua e là sulla spiaggia, le borse, le ciabatte, le ciambelle, i braccioli, i materassini e una quantità spropositata di palette e secchielli, occupiamo un fazzoletto di spiaggia grande quanto un monolocale. Visti da lontano, chiunque ci scambierebbe per un accampamento abusivo, una tribù, un campo profughi. E facciamo pure un gran baccano, fra piccoli litigi di famiglia, bambini che gridano e alzano la renella che finisce nella gigantesca teglia con i vincisgrassi di zia Adalgisa, detta Gisa, che prende a gridare a sua volta contro i gemelli ottenni Marco e Mirco, i più indemoniati della brigata fanciullesca. E poi c’è l’interminabile sfida di cucina fra mia madre Gigliola, detta Iola, e sua sorella Gabriella, detta Lella. Più che una gara, è un battibecco che ci tocca sorbire a ogni occasione in cui si sta a tavola insieme. Ormai è una specie di rito. Il giorno in cui smetteranno, dovremo preoccuparci.
In ogni caso, adesso è la volta di mia madre che ha da ridire sull’impepata di mòscioli di zia Lella. Mi pare di capire che le rimproveri qualcosa sul metodo di lavaggio e bollitura. Ma io non ci capisco niente di cucina e non riesco neppure a seguire bene la conversazione perché mio figlio Michele sta cercando di convincermi a prendergli un nuovo iPhone.
«Michi ne parliamo in un altro momento, ok?»
«Quindi è una promessa! Me lo compri…»
«No, Michi, ho detto…»
Ma non mi ascolta già più. Lo vedo correre verso i cugini come avesse fatto gol e gridare: «Evvai! Ha detto sì.»

Zia Lella l’ha presa male e ha messo su il muso. Ma tanto si rifarà dopo, quando arriveranno gli spaghetti con le vongole di mia madre. E poi inizierà il pollaio, con tutte le suocere e le consuocere e le figlie, le cugine e cognate over trenta che avranno da dire la loro sul petto di pollo impanato di mia moglie Giovanna, detta Gianna, oppure sulle tagliatelle al ragù di cinghiale portate da Sandra, detta Sandrina e quindi abbreviata in Nina, moglie di mio cugino Augusto. L’unica che non partecipa mai a questa eterna discussione sul cibo è Nada, la sorella di mia moglie. La sua è una vita da single, le altre dicono zitella ovviamente, tutta lavoro, palestra, serate con gli amici e mangiate al ristorante a pranzo e cena. Una volta che avevo litigato con Gianna e sembrava proprio che ci separassimo, mi sono fermato qualche giorno a casa di Nada e ho scoperto che non aveva neppure una pentola per cuocere un piatto di pasta. Poi la crisi è rientrata e sono tornato a casa mia, dalla mia Gianna, che invece cucina bene e mi vizia.

Insomma, c’è un gran casino sotto quella specie di capanna di ombrelloni, ma anche tanta allegria. E per fortuna la spiaggia, ora che sono quasi le due del pomeriggio, dopo essersi riempita, è quasi deserta, perché il sole viene giù di brutto e solo un brezza leggera che sale dal mare ci permette ogni tanto di rifiatare nella calura afosa che ci assedia. Intorno a noi, infatti, intorno al nostro baccano, ci sono solo asciugamani abbandonati da gente che si è rifugiata nei pochi ristoranti presenti in questo scorcio di paradiso libero.
Però una cosa va detta: quando prende la parola zio Marcello, grande e grosso quanto suo fratello Migo, cala il silenzio. Solo i più piccoli, che non hanno ancora imparato ad ascoltare le sue storie, continuano a far chiasso. Zio Marcello, oggi in pensione, ha fatto per oltre trent’anni l’autista dei bus, e ha sempre degli aneddoti con cui farci divertire. Di solito roba da farci piegare dalle risate, perché lui le sa davvero raccontare le storie. E dire che non ha neppure finito le scuole medie. È un dono, il suo, un talento innato. Non sbaglia una pausa, non perde mai il filo della narrazione, sa sempre da dove cominciare e quando dire la battuta finale. E adesso ci sta raccontando di quella volta che la porta posteriore del bus non si chiudeva, e veniva giù un temporale di quelli che in un lampo trasformano le strade in fiumi. Ci dice che non poteva ripartire con la porta aperta e quindi aveva chiamato in deposito per farsi portare un autobus di ricambio. Ma c’era una vecchina arrabbiata perché doveva andare alle poste a ritirare la pensione e se non si muoveva a ripartire subito con quel maledetto bus avrebbe trovato gli uffici chiusi e lei non aveva i soldi neppure per la spesa.
Noi ascoltiamo in un silenzio rotto solo da qualche scoppio di risa nelle situazioni più comiche, come quando ci dice che la vecchina infuriata era stata trattenuta e messa a sedere a forza da alcuni passeggeri perché lo aveva minacciato con l’ombrello. E lui si dannava inutilmente a spiegarle che con una porta aperta non poteva proprio ripartire, prendendosi insulti che, parole sue, erano degni di uno scaricatore di porto e non della voce stridula e tremolante di una vecchina.
Una risata ancora più fragorosa arriva al termine della storia, quando zio Marcello ci racconta che la vecchina, finalmente calma, gli si era avvicinata per chiedere ancora qualche spiegazione e lui, che è sempre stato un uomo gentile e paziente, gliele aveva date queste spiegazioni. La vecchina, allora, aveva fatto di sì con la testa e si era voltata come per andarsene, ma poi, con uno scatto veloce, gli aveva dato un’ombrellata sulla schiena.
Siamo tutti allegri e felici e ridiamo di gusto, fra un bicchiere di verdicchio e l’altro. E quando poi si inizia a ridere in tanti, si sa come va a finire: una risata tira l’altra, e non si riesce più a smettere e ognuno aggiunge un commento che amplifica il senso del comico.
Lo zio Migo, per il ridere, a un certo punto sbruffa il verdicchio che ha in bocca e fa una smorfia così ridicola che ci fa venire le lacrime agli occhi. Peggio fa la zia Gisa, che non ride ma ulula, creando anche un certo scompiglio e imbarazzo fra i pochi bagnanti tornati dai ristoranti. All’improvviso scompare dalla vista di tutti, cappottata all’indietro con la sedia, le gambe per aria e i capelli e una guancia pieni di rena della spiaggia. E giù altre risate.
Niente, non ce la faccio più, se continuo a ridere vi giuro che me la faccio addosso e quindi mollo tutti e corro a tuffarmi. E la faccio in mare, ovviamente, senza smettere di ridere. Poi do qualche colpo di braccia per allontanarmi dalla riva. Quindi mi volto e ammiro da lontano il nostro accampamento. Riesco ancora a sentire le risate che riempiono l’aria, e mi godo lo spettacolo, galleggiando morbido sul tiepido e placido Adriatico.
Mi immergo e nuoto sotto la superficie del mare. Per alcuni istanti tutto scompare. Sento solo il rumore liquido dell’acqua che scivola sul mio corpo. Quando riemergo sono abbastanza distante dalla riva da sentire a malapena le voci dei parenti. Anche perché la brezza che soffia verso terra schiaccia ogni rumore contro la parete del Cònero e porta verso di me i suoni che provengono dall’orizzonte del mare.
È allora che sento le grida. Cerco intorno con lo sguardo, ma la luce bianca del sole d’agosto che si riflette sulla superficie dell’acqua è talmente accecante che non riesco a vedere quasi niente.
Riprendo a nuotare, pensando che ho in pancia i vincisgrassi di zia Gisa, gli spaghetti con le vongole di mia madre, le tagliatelle al ragù di cinghiale di Nina, l’impepata di mòscioli di zia Lella, una fetta di petto di pollo fritto di Gianna, l’arrosto di maiale di non so chi invece l’ho saltato, ma alla crema pasticcera con i frutti di bosco, al caffè, all’ammazzacaffè, al Borghetti e all’anguria non ho detto di no. Penso che non è bene che io me ne stia in acqua a nuotare con tutta quella roba da digerire nello stomaco, distante dalla riva e con sotto di me almeno tre metri di profondità. Prendo quindi a nuotare verso la riva. Ma, di nuovo, sento alcune grida provenire da qualche parte dell’orizzonte.
Mi fermo. Guardo ancora una volta intorno a me. Ed è in quel momento che la vedo. È una imbarcazione che da lì non riesco a capire quanto sia grande. Si tratta di una barca a vela, questo lo capisco quasi subito, per via dell’albero che si erge verso il cielo. Ma le vele non riesco a vederle, però.
Stringo un po’ gli occhi per mettere meglio a fuoco. Non sono ammainate, sono stracciate, rotte, penzolanti. Ci sono persone che sbracciano ed è da lì che provengono le grida. Ma la brezza si porta via le parole e non capisco cosa dicono.
Guardo verso terra. La mia grande famiglia è tutta sulla battigia. Qualcuno indica con il braccio nella mia direzione.
Anche dai ristoranti la gente si è affacciata e guarda verso il mare.
Poi dalla spiaggia si alza un enorme: «Oooh!» È un boato potente, simile a quello che si leva in uno stadio a un gol mancato per un soffio.
Zio Migo si getta in acqua e dietro di lui zio Marcello, mio figlio Michele, i vari cugini e cognati. Altre persone corrono fuori dai ristoranti come se vi fosse un incendio o stesse per esplodere una bomba. Tutti si tuffano e nuotano verso di me.
Vorrei rassicurarli che sto bene. Che se anche ho la pancia gonfia di vincisgrassi e di tutto quel ben di dio preparato dalle donne di famiglia, e non ho aspettato la fine della digestione, non sono in pericolo di vita.
Lo zio Migo mi raggiunge e a gran bracciate mi supera e prosegue a nuotare con una veemenza che non gli ho mai visto. Allora guardo verso il largo. La barca con le vele stracciate non c’è più.
C’è, però, poco distante da me, la testa scura di un ragazzo che non capisco da dove sia sbucato. Mi guarda con occhi grandissimi e la sua bocca grida qualcosa in una lingua a me sconosciuta. Con un braccio, il ragazzo indica verso un punto del mare dove c’è la barca che non c’è più.
«Kiz kiz» mi grida. Ormai mi è quasi addosso. «Kiz kiz.»
Capisce che non capisco, ma non ha più fiato per gridare. «Beby» mi dice, «beby.»
Guardo con più attenzione verso il punto che mi indica e un’altra testa, stavolta di donna, con un fazzoletto tutto storto a coprire parte dei capelli, arriva nuotando alla mia sinistra. Anche lei dice: «Beby, beby.» Fa fatica a parlare, ma ho capito benissimo: ci sono dei bambini, immagino in acqua. Però, per quanto mi sforzi, io non li vedo.
Ma è solo un attimo. Perché all’improvviso il mare attorno a me è pieno di teste, di gente che grida. E gridano anche dalla spiaggia.
Alle mie spalle sento il rumore nell’acqua di tutti quelli che si sono tuffati e nuotano verso il largo.
Una donna, anch’essa con il fazzoletto che le copre il capo, si dimena per restare a galla. Con un braccio stringe un corpicino cercando di tenere una piccola testa fuori dal mare. Le nuoto incontro. Prendo quel corpicino e poi, con un solo braccio e battendo fortissimo le gambe, nuoto veloce verso la riva. Non riesco a capire se sia un bambino o una bambina. Ha la testa rovesciata all’indietro e gli occhi chiusi, il corpo abbandonato. La donna l’ho persa di vista. Immagino stia nuotando anch’essa verso la spiaggia.
Fra quelli che nuotano verso il largo e quelli che tornano verso la spiaggia, l’acqua è tutta un ribollire come prima di buttar giù la pasta.
In pochi istanti sono a terra, con quel corpicino fra le braccia. Gianna mi viene incontro con un asciugamano pieno di fiori colorati e la scritta «Enjoy the sun.» Lo abbiamo comprato tanti anni fa in Giamaica, in un periodo in cui eravamo molto felici. La guardo stendere l’asciugamano sulla spiaggia, all’ombra di uno dei nostri ombrelloni. Mi piego sulle ginocchia e poso quel corpicino.
Sento Gianna che grida aiuto. Sento zia Gisa che grida a zia Lella che non può offrire le tagliatelle: «Non mangiano il maiale questi!»
«È un ragù di cinghiale, stupida!»
Il corpicino ha una maglietta bianca con la faccia di Topolino e la scritta Mickey Mouse. È una bambina. Un paio di pantaloncini rossi a pinocchietto le coprono le gambe fino ai polpacci scuri. Sul piede destro c’è ancora un sandalo. L’altro sarà in fondo all’Adriatico.
Alle mie spalle Gianna continua a chiedere aiuto. Mi giro. C’è gente che corre da tutte le parti. Zio Migo esce dal mare con al collo un bambino che piange. Lo passa nelle braccia di una ragazza che non so chi sia e subito si rigetta in acqua. Ma un tizio gli urla che bisogna aiutarsi con i materassini, le ciambelle e la gente allora prende a lanciare in mare tutto ciò che può galleggiare.
Altri invece si muovono senza sosta per la spiaggia con i telefonini in mano e scattano foto, girano video. Un anziano con un costume color ocra e le mani raccolte dietro la schiena mi si avvicina. «Povera creatura» dice. Poi guarda verso il mare e ripete più volte che è strano, che non sa spiegarsi come siano potuti arrivare così a nord, che non ha senso. «È assurdo» dice infine allontanandosi, sempre con le mani dietro alla schiena. «È assurdo.»
Gianna è ancora lì che chiede aiuto quando un ragazzo sbuca di corsa dalla confusione. Si ferma, guarda il corpicino disteso e dice di essere un infermiere. Si china sulla bambina e prende a soffiarle aria in bocca, a muoverle le braccia. Va avanti così per un po’. Un tempo che mi pare infinito. Appoggia l’orecchio sul petto della bambina e dice che non sente il battito. Ma non si arrende e di nuovo riprende a soffiare aria in quel corpicino. Poi fa il massaggio cardiaco. Poi riprende a soffiare aria.
Stacco lo sguardo e punto gli occhi verso l’Adriatico. Adesso quel piccolo veliero lo vedo bene. È a non più di cinquanta metri da noi, coricato su un fianco. La superficie dell’acqua è tutta un ribollire biancastro di gente che nuota verso il largo tirandosi dietro un materassino vuoto o una ciambella. Altri invece nuotano lentamente verso terra, tenendo a fatica con un braccio qualche naufrago.

«Ma fatelo bere prima. Santo dio» fa mia madre rivolta alle zie. «Non può mangiare le tagliatelle con la gola secca.»
Un ragazzo con la T-shirt gialla e la pelle scura, seduto non distante da me le ascolta senza capire, ma quando vede le tagliatelle le prende con le mani e inizia a mangiare. Poi vede la bottiglia d’acqua e si mette a bere.
Sulla spiaggia ci sono bambini, uomini, donne con i vestiti bagnati buttati un po’ ovunque. Alcuni piangono. Altri se ne stanno muti e distesi con le braccia aperte. I bagnanti, i camerieri e i cuochi dei ristoranti, tutti insomma corrono di qua e di là per portare acqua e cibo.

«Non si riprende» dice il ragazzo infermiere. «Non so più che fare. Non respira.»
Abbasso lo sguardo. La bambina ha gli occhi chiusi, il viso sereno come quello che aveva Michi da piccolo quando dormiva fra me e Gianna.
Gianna, che a pochi passi da me si asciuga le lacrime con il dorso della mano. Dietro di lei, vedo mio figlio uscire dall’acqua sorreggendo per le spalle un ragazzo dalla pelle scura che a malapena tiene dritte le ginocchia. Lo aiuta a sdraiarsi sulla rena. Poi lo guardo mentre corre a prendere dell’acqua.
Mi chiedo se è lo stesso Michi che stamattina voleva l’iPhone nuovo e, facendo finta di non capire la mia risposta, era poi andato dai cugini gridando come Tardelli ai mondiali di calcio.
Lo guardo mentre tiene la testa del ragazzo sdraiato in terra e lo aiuta a bere da una bottiglietta di plastica.
Mi accorgo che ha i bicipiti possenti, Michi, e una fitta peluria scura gli ricopre il petto. Aiuta quel ragazzo con molta delicatezza, ma con uno sguardo attento, serio. Inaspettatamente adulto.

Il giovane infermiere è sempre lì, che si danna per aiutare la bambina.
Zio Migo e zio Marcello escono ancora una volta dal mare: adesso con una donna che ha il pancione e si lascia trascinare perché non riesce neppure a muovere le gambe. Nada va loro incontro, ferma un bagnante che sta correndo con una bottiglia in mano e insieme la portano via, verso un punto della spiaggia dove qualcuno ha steso decine di asciugamani uno accanto all’altro, quasi a formare una specie di grande letto, o una specie di ospedale da campo improvvisato.

Zio Migo, grande e grosso, si lascia andare sulla battigia. È sfinito. Non credo riesca a tuffarsi di nuovo. Ma forse non è più necessario. Ormai sono in così tanti a darsi da fare che può anche riposarsi. Zio Marcello crolla accanto a lui, con la faccia spiaccicata sulla rena bagnata.
Mi chino per chiedere come va. «Allora?» faccio al giovane infermiere.
Il ragazzo mi guarda con gli occhi spalancati. «Non respira.» Scuote la testa. «Non respira. Non so più cosa fare.» La sua voce è flebile, fra il disperato e il rassegnato. Si alza. Fa un sospiro. «Qui non servo a niente.» Lo dice fissando verso terra, come si vergognasse.
«Hai ragione.» Faccio di sì con la testa. «D’accordo.» Sono in ginocchio accanto al corpicino della bambina. Alzo lo sguardo. «Grazie» dico.
Il giovane infermiere sta con le mani sui fianchi. Ha gli occhi lucidi. Si morde un labbro.
Gianna, con la voce rotta, mi dice che non ce la fa a stare qui vicino alla bambina.
«Vai. Ci penso io qui.» La vedo allontanarsi verso un gruppo di persone che sta portando a terra altri bambini che piangono.
Accarezzo i capelli scuri, leggermente ricci e bagnati di quel corpicino. Guardo le sue manine raggrinzite dall’acqua. Sono piccole, abbronzate. Qualcuno, immagino sua mamma o una sorella maggiore, deve essersi divertito a metterle lo smalto giallo, ormai sbiadito e scrostato. A occhio e croce, penso, avrà sei anni, forse otto.
Mi chiedo che fine ha fatto sua madre. Perché solo adesso ricordo, all’improvviso, che in mare l’ho tolta dalle braccia di una donna che stava quasi per annegare.
Allora mi alzo e cerco con gli occhi quella donna. Quella madre. Ma c’è troppa confusione per sperare di vederla. C’è gente che corre in tutte le direzioni con cibo, acqua, asciugamani. Ci sono quelli che si tuffano e quelli che escono dal mare trascinando persone sfinite, disidratate. E poi la spiaggia è piena di naufraghi distesi ovunque, troppi per riuscire a trovare quella donna senza allontanarmi dalla bambina.
Continuo a guardare attorno in cerca di una soluzione e incrocio lo sguardo severo di nonna Ortensia, che osserva tutto quel movimento davanti a lei. È ancora seduta dove l’ho messa stamattina. Con quel suo costume nero intero a fiori gialli e rosa che ormai le va grande, tanto è diventata magra. Mi chiedo che cosa possa passare per la testa di una donna come lei, che ha vissuto gli anni della guerra e che di cose atroci ne ha viste tante nella vita.
Nonna non si accorge subito che la sto fissando. Ma poi il suo sguardo si posa su di me.
Ed è in quel momento che mi viene un’idea folle.
Raccolgo la bambina fra le braccia e me la stringo al petto, come si fa con un neonato, come mille volte ho fatto con Michi, reggendo la testa che altrimenti penzolerebbe all’indietro. E cammino sulla rena calda di sole fino a raggiungere nonna Ortensia.
Non dico nulla. In silenzio, le metto la bambina contro il petto, con la piccola faccina che affonda sul collo segnato dalle grinze dell’età.
Poi faccio qualche passo indietro.
Nonna mette le mani semichiuse sulla nuca della bambina e inizia a mormorare qualcosa, una specie di litania. Forse una preghiera. Forse le stesse parole magiche che disse quella volta lì.
Va avanti a quel modo per un po’. Un tempo che mi sembra interminabile. Poi spalanca i palmi e sento chiaramente che dice: «Vai».
Aspetto, e immagino di vedere da un momento all’altro la bambina volare via come il pettirosso, fare un salto e mettersi a correre felice sulla spiaggia come i nostri figli hanno fatto per tutta la mattina.
Ma non succede nulla di tutto questo.
Nonna Ortensia però mi guarda. Fra le rughe che solcano profonde il suo volto novantenne mi pare di scorgere lo stesso sorriso di quando la guardavo da bambino.
«Prendila» mi dice.
Mi avvicino, abbraccio la bambina e reggendole la testa me la stringo contro il petto.
Faccio qualche passo all’indietro per allontanarmi e penso che sono proprio uno stupido. Che quel pettirosso non era mai stato morto davvero.
Ma cosa credevo di fare?
Mi giro per portare quel corpicino non so neppure io dove, quando sento un colpo di tosse e un po’ d’acqua calda scivolarmi sulla spalla.
E ancora un colpo di tosse e ancora un fiotto d’acqua calda sulla mia spalla.
Allora con la mano batto leggermente sulla schiena della bambina, come facevo con Michi neonato per farlo digerire dopo la poppata. La bambina tossisce ancora e butta fuori altra acqua.
«Gianna» chiamo forte. «Gianna!» Le grido che la bambina respira e la deve portare subito da qualcuno che possa aiutarla.
Mia moglie mi guarda perplessa.
«Prendila» le dico. Gianna allora se la abbraccia tutta. La bambina inizia a piangere. «Forza, vai!»
La guardo andare verso uno dei ristoranti, ma la perdo di vista quasi subito, inghiottita dal via vai concitato dei bagnanti.

Allora torno da nonna Ortensia. Resto qualche istante a guardarla impalato come uno scemo, con le lacrime sull’orlo degli occhi, pesanti come un oceano. Poi mi piego sulle ginocchia e mi stringo alla sua pancia, sprofondando la faccia sul costume a fiori. Sento tutta la sua magrezza, le ossa appuntite contro le mie braccia, la mano tremante che mi accarezza i capelli. E sorrido. E sorrido ancora. Per un istante, penso che potrei piangere per sempre.

FINE

Racconto di Riccardo Angiolani, redattore web di La Cucina Italiana.
Ha pubblicato, fra le altre cose: Profezia di Palazzo (romanzo, Transeuropa, 1997); Sotto il cielo di Hale-Bopp (romanzo, Foschi, 2012); Turno 666 (racconto ebook, Feltrinelli Zoom, 2013).

Goloso chi legge – I racconti sotto l’ombrellone di La Cucina Italiana. Nel mese di agosto, sul sito e sul giornale, potrete trovare diversi racconti da leggere durante le vostre vacanze: Riccardo Angiolani, Federico Baccomo, Gianni Biondillo, Sabina Montevergine, Davide Morosinotto, Filippo Petitto.

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