il ristorante stellato che fa alta cucina alla brace

il ristorante stellato che fa alta cucina alla brace

Lo chef Errico Recanati gioca con il fuoco e stupisce con l’unica cucina moderna alla brace d’Italia. Nello stesso camino della nonna Andreina, non fa grigliate, ma alta cucina in cui il fumo è un ingrediente

Sembra una contraddizione in termini: le cotture ancestrali sono quelle del futuro. Dopo anni passati a cuocere tutto sottovuoto a bassa temperatura, la controtendenza è quella del fuoco e della brace viva. Bruciato, affumicato, BBQ infatti sono le parole più ab-usate nei menù dei ristoranti degli ultimi anni. Da Andreina, a Loreto (Ancona), lo fanno da più di 60 anni.

Il Santuario della Santa Casa di Loreto è uno dei principali luoghi mariani nel mondo e negli anni d’oro arrivavano in migliaia (di pullman) al giorno per visitarlo. Dal 15° secolo è meta di pellegrinaggi, ma per gli appassionati di cucina, Loreto è la città di Errico Recanati, uno degli chef più interessanti del panorama nazionale. Per riassumere il suo lavoro in poche parole: Andreina è un ristorante di alta cucina, stellato, dove si cucina tutto alla brace, ma non si fanno “le grigliate”. Sintesi perfetta fra tecnica ancestrale, eleganza dei piatti e gusto, è uno di quei nomi magari meno noti al grande pubblico, ma che sono la mecca dei gourmet. E che meritano una visita.

Errico e l’hype della brace

Grande e grosso, Errico è la terza generazione. Nipote di Andreina, ha preso le redini del ristorante di famiglia che un tempo fu una drogheria di paese e ha proseguito la tradizione della cottura alla brace imparata dalla nonna. Ha preso tutto il sapere popolare, l’esperienza di anni di lavoro e poi ha girato le cucine stellate. Quando è tornato a casa ha fatto della brace una religione; ben prima che diventasse di tendenza.

Andreina aveva un alimentari che vendeva vino, pane e companatico, cucinava per i viandanti e per i cacciatori della zona che le portavano le prede da arrostire nel camino. La storia è ben raccontata sul loro sito,  in cui ci si ritrova a sfogliare un album di foto di famiglia tenerissime. Tante sono scattate davanti al camino o con Andreina che brandisce una porchetta gigante. Se il cuore di ogni casa è la cucina, in questo ristorante è proprio il grande braciere che accoglie gli ospiti all’ingresso e in cui si vedono rosolare maiali, animali da cortile, ma anche cavolfiori a testa in giù ed esotici ananas. Questa non è una griglieria però dove cuociono bistecche, bensì un ristorante raffinato in cui negli anni sono state studiate tecniche uniche e dove il risultato sono piatti personalissimi. Che non seguono le mode pur facendo, suo malgrado, la cottura più in hype del momento.

Nessuna grigliata, alta cucina con il fumo come ingrediente

Errico racconta mentre attizza la brace con un ventaglio di penne di tacchino: «Ho rimesso tutto in discussione, ho cercato di tirare fuori quello che è la nostra tradizione e di ripensarla in modo moderno. Faccio di una cottura primordiale, una tecnica da alta cucina». Nel camino sono appesi a ganci in metallo una faraona, un biancostato, cavolfiori e zucche pugliesi. Affumicano lentamente, cuociono distanti dalle fiamme e prendono sapore. Qui non si griglia, nel senso di cuocere piccoli pezzi a fiamma elevata, e non si fa il barbecue all’americana, quello in cui grandi pezzi di carne cuociono per ore. Si usa uno spiedo che gira per arrostire il maialino con la ricetta di sua nonna, griglie e grigliette di diverse altezze e con maglie più o meno fini per domare la brace con precisione millimetrica. Strumenti autocostruiti con il fabbro per dosare la potenza del fuoco, padelline di ghisa e, soprattutto, i leggendari cappelli: i “cappelli di Errico non sono altro che teglie da torta in alluminio saldate con dei manici da coperchio e che servono per convogliare il fumo e trattenerlo a contatto con gli ingredienti che cuociono sulla brace, solo il necessario. Diversi per altezze, larghezze e forma, sono lo strumento con cui compone le sue affumicature insieme alla carbonella, piccola, profumata, fatta nelle montagne nel maceratese con sei diverse specie di alberi.

Fumo elegante

Nulla da Andreina sa di bruciato, di smoky taste yankee dovuto al legno di noce, come piace Oltreoceano. Nulla è abbrustolito come una costata, ma carne, pesce, verdure e frutta vengono impreziositi dal nuovo ingrediente: il fumo. «Cerco un fumo elegante, perfettamente dosato per ogni ingrediente e pezzatura, mai invasivo. Che ti permetta di fare un percorso di degustazione alla scoperta di diversi “punti di fumo”, senza annoiare». Ed è stupefacente scoprire questo punto di fumo in piatti leggendari come la Cacio e 7 pepi, cotta sulla brace, o in un petto di faraona succosissimo. Errico gioca con il fuoco e lo fa da professionista, portando avanti una ricerca che va ben oltre la griglia. «A oggi la cottura indiretta però mi rappresenta di più, sto lavorando su scarti di maiale, sull’estrazione del grasso, sui vegetali». E infatti serve scampi dell’Adriatico con bottarga di cuore di agnello o funghi con milza essiccata che sa di polvere di fungo. Nuovo signature dish, il cavolfiore lasciato cuocere in confit nel burro per una notte e poi appeso nel camino per qualche ora a caramellizzare, servito con un purè di gambi e un’estrazione verde fresca ed erbacea di foglie crude.

Alta cucina creativa e personale

La cucina è creativa, ingredienti locali vengono mixati con mango o frutti esotici, la cacciagione e carni saporite trovano spazio tanto quanto ostriche, anguille, verdura dell’orto retrostante e cose come i “paccasassi”, il dialetto locale per definire il finocchio di mare, un’erba simile alla salicornia, sapidissima. «Ricerco l’equilibrio, la leggerezza, l’acidità e la freschezza in ogni piatto finito e nel menù. L’affumicato deve essere delicato e farti divertire lungo un percorso degustazione». Due menù: Fumo e Fiamme, uno con i piatti più classici (95€), uno frutto del fuoco della creatività che gli arde dentro (120€). Nulla di fermentato, altro termine che ricorre insistentemente nei menù di mezzo mondo, ma aceto di rape fatto con gli scarti e aceto di lampone; non yakitori (che fanno figo), ma spiedini di pollo del suo pollaio. Giusto appare un tacos, ma di polenta del giorno dopo come si faceva qui, riempito con verdure ripassate che sono un classico contorno locale, servito come amuse-bouche per aprire il pasto (in una delle sequenze più belle in circolazione e che mettono subito di buon umore). Tutti i piatti assaggiati sono nella gallery, inclusi gli otto diversi tipi di pane, burro affumicato, lardo da spalmare: ma nulla, nulla di greve o di cavernicolo come si potrebbe immaginare. Grande sostanza, piatti minimali e senza troppi fronzoli, niente di lezioso. Piatti che potrebbero stare bene in un design modernista e che invece mangi in una sala classica o in un giardino ben curato, da tipico ristorante di famiglia all’italiana.
Non è a Milano o a Roma, non ha un ufficio stampa che lo promuove a giornalisti e testate di settore, non è un enfant prodige, non c’è nulla da scoprire. Errico cucina, imperterrito da anni, convinto che la sua cara e vecchia brace sarebbe stato il futuro, non solo il passato. E ora ci sono arrivati anche gli altri.

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