Pizza napoletana: il segreto è nell’impasto

La Cucina Italiana

L’arte della pizza napoletana è Patrimonio dell’Umanità. «Il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaiuoli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da “palcoscenico” durante il processo di produzione della pizza», si legge tra le motivazioni con cui, l’Unesco, ha proclamato ormai già quattro anni fa “L’arte del pizzaiuolo napoletano” Patrimonio culturale dell’Umanità.

Un traguardo che ben conoscono Francesco e Salvatore Salvo, della Pizzeria Salvo (due sedi, una a San Giorgio a Cremano, l’altra alla Riviera di Chiaia a Napoli) che da anni si dedicano con passione al proprio lavoro portando avanti una tradizione che si tramanda da tre generazioni. Per farlo sono partiti dalle basi, studiando e lavorando su impasti, cotture e ingredienti, sviluppando idee gastronomiche e imprenditoriali, guardando avanti e guardandosi attorno, forti anche di questo importante riconoscimento.

Francesco e Salvatore Salvo (foto Aurora Scotto di Minico)

Niente “schiaffi”

«La manualità del pizzaiolo è stata per troppo tempo dimenticata. Ma è proprio l’artigianalità che ha reso unica l’arte della pizza napoletana». Tutti abbiamo in mente il pizzaiolo che fa volteggiare il disco di pizza, quasi come se lo prendesse a schiaffi. «Occhio però, la pizza non si schiaffeggia», sottolinea Salvatore Salvo. Nella memoria di Salvatore c’è il padre, cui deve tutto, ma anche un ricordo recente. «Durante il convegno Pizzaformamentis di qualche anno fa chiesi al professore enologo campano Luigi Moio quale fosse per lui il terroir della pizza; “nella vostra arte”, mi rispose». Cosa intendesse era più sottile di quel che sembri. «Il nostro terroir è la capacità di manipolazione, qualcosa che si apprende dopo 10-12 anni, quella che a me piace chiamare “bottega”». Eppure non è sempre stato così. «Oltre 50 anni fa, l’impasto era difficile da stendere perché si utilizzavano il più delle volte lievitazioni sommarie o con farine catalogate dai pizzaioli come “nazionali”, ma con una scarsa predisposizione a tenere dei punti di bassa lievitazione. Poi negli anni 80 e 90 questa capacità si è persa a favore di impasti più facili da lavorare, che non richiedevano chissà quale manualità, la bottega non serviva più», ricorda sconsolato Salvo. «Persino mio padre mi insegnava cosa fosse l’idratazione, usando esempi empirici non tecnici: “l’impasto s’adda fa’ muoll” diceva, solo dopo ho capito che l’acqua all’interno aumenta i processi chimici e favorisce la qualità enzimatiche di lievitazione. La pizza diventa più soffice, “si squaglia in bocca, non viene ammazzaruta”. Termini dialettali che oggi io stesso non saprei tradurre».

L’arte di stendere la pizza napoletana

Tra le cose fondamentali e più difficili da imparare per Salvatore Salvo c’è stata proprio l’arte del saper stendere la pizza. «Il terroir della pizza è la capacità di fare centinaia di pizze all’ora, saperle stendere e cuocere al meglio, un lavoro meccanico fatto con le mani, che si impara con l’esperienza. Lo stesso punto di pasta, che si traduce in un numero (che per me non ha senso: per esempio 69, 67, 71)in realtà nasce nelle mani del pizzaiolo, che si rende conto di quanta idratazione ha l’impasto sentendolo più appiccicoso, elastico, sensibile e, nonostante il supporto di tante tecnologie moderne, intervenendo in maniera empirica».

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