Tre piatti della trattoria italiana

La Cucina Italiana

A giudicare dalla stanca formula che prevale sui siti web di molti ristoranti, la cucina italiana sarebbe sempre in bilico «fra tradizione e innovazione»: da un lato, insomma, i piatti tipici della cucina regionale, dall’altro la creatività senza briglie dello chef-autore, che si spinge fino a territori inesplorati dell’arte gastronomica. Pur essendo un cliché popolare, taglia fuori una vasta parte della ristorazione italiana, che non è fatta né di trattorie in senso stretto né di locali di alta cucina. Il ristorante medio italiano – per diffusione e numero di coperti giornalieri – è un luogo dove il menù è lungo varie pagine, stampate in corsivo e infilate tra fogli di plastica in una custodia in finta pelle. Tra le molte voci, alcune sono specialità locali, d’accordo, e altre sono imperscrutabili finché non vengono sottoposte a interrogazione diretta del cameriere («Come sono le farfalle di zia Rina?»), ma il grosso della proposta sono piatti ubiqui, né vecchi né nuovi, né innovativi né tradizionali, che in genere non si sa bene da dove vengano, ma soprattutto dove vadano. In questo tipo di ristorante sono spesso mediocri. Di chi è la colpa? Sono piatti insulsi o meritano un posto tra i classici della cucina? Ce lo dirà il tempo, ma siccome siamo impazienti, nel frattempo interpelliamo gli esperti.

Frittura di pesce

A Gianfranco Pascucci, chef del superbo ristorante Pascucci al Porticciolo di Fiumicino (RM) e ormai ambasciatore informale – anche televisivo – delle meraviglie del litorale laziale, chiediamo della frittura di pesce: trovarla sul menù e ordinarla è una cosa sola, eppure quanto spesso, ahinoi, ce ne fanno pentire?

«Il fritto misto è la pietanza più meravigliosa al mondo. Ma quando un piatto diventa di moda è facile che venga maltrattato, e il nome diventa solo un pretesto», spiega. «A Fiumicino, la tradizione è la frittura di paranza, che prende il nome dalla barca per la pesca a strascico, è una pesca di terra, che insiste vicino alla costa, non in profondità. Sono pesci di piccola taglia: ci troviamo il merluzzetto, la triglietta, il totanello e il gambero bianco. Questo quando non è una “sòla”, una fregatura: perché la paranza sta un po’ scomparendo, e allora finisce che nel fritto misto ci sono i calamari, i gamberi rossi o gli scampi. Cosa che non ha senso, perché la frittura di paranza è un modo bellissimo per aiutare il mercato del pesce, sono le cose che all’asta costano meno. Soprattutto, la provenienza dev’essere locale e giornaliera. Questo è lo spirito del piatto, che dovrebbe rappresentare un luogo, il pescato consegnato quella mattina dai pescherecci: la freschezza del pesce è la priorità. Ma il problema grosso è il fritto: che olio viene impiegato, quanto spesso è sostituito? Il fritto ha moltissima dignità gastronomica, dovrebbe diventare una cosa di élite, nel senso buono: il contrario di un piatto iper commerciale, che si mangia dappertutto». Come riconoscere il posto giusto dove mangiare il fritto? «Semplice: dall’odore che si avverte non appena varcata la soglia del locale. La stessa cosa che si dice del pesce – che se è buono non deve avere odore di pesce – vale anche per il fritto: quello buono non sa di fritto».

Tagliata di carne

Michele Varvara, insieme ai fratelli «di carne» (come si definiscono) Vincenzo e Alessandro, alleva pecore di razza Gentile di Puglia e Altamurana nelle masserie della Basilicata, e vacche di razza Podolica, da cui ottiene carni ricercate dai grandi chef di tutta Italia. A lui chiediamo un parere sulla tagliata di carne, l’onnipresente secondo piatto che fa chic, ma non impegna. «La tagliata è l’anticristo, è il modo per ammazzare l’animale due volte», proclama lapidario. Poi elabora: «È un piatto che si fa con entrecôte e controfiletto, alla ribalta dagli anni Ottanta, quando crebbe il potere di spesa nei ristoranti: tagli prevalentemente francesi, che non fanno parte della nostra cultura, e alla francese andrebbero cucinati, usando tanto burro in padella. Invece nella braceria media – ma anche alta – la carne è tagliata al tavolo sulla pietra lavica, in un ibrido tra stile francese e tecnica di cottura sudamericana». Questi tagli sono entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo come pezzi pregiati. «Al punto che», prosegue, «industrie disoneste si sono inventate tagli surrogati che fanno sembrare controfiletto quello che non è, vendendolo a un prezzo tre volte maggiore di quello di mercato. Ai miei clienti non la vendo per fare tagliate: do tutto il pezzo con l’osso, e dico te la sbrighi da te. Va fatto a costata o fiorentina, cotto a regola d’arte. E non voglio nemmeno sentire nominare rucola, scaglie di grana o la glassa all’aceto balsamico contro cui conduco una battaglia quotidiana», conclude ridendo.

Tortino di cioccolato con il cuore caldo

Tocca ad Annamaria Corrado, giovanissima pastry chef del Krèsios di Benevento, fresco di seconda stella Michelin, pronunciarsi su uno dei dessert più famosi – famigerati, forse? – della nostra epoca: il tortino di cioccolato con il cuore caldo, l’unico dei piatti che abbiamo preso in considerazione ad avere una paternità certa. Fu inventato nel 1981 dal geniale chef autodidatta Michel Bras, per la carta del ristorante che porta il suo nome nelle montagne dell’Aubrac, in Francia. Nelle intenzioni del cuoco, il tortino doveva tradurre in un dessert l’emozione di una cioccolata calda in famiglia dopo una giornata trascorsa sugli sci. A Bras servirono due anni per perfezionare il suo capolavoro, finito poi su tutti i menù di San Valentino corredato da fettine di smunte fragole invernali. Anche oggi, il tempo di preparazione resta la chiave del successo: «Il tortino originale di Bras è tecnicamente complesso», spiega Annamaria. «È una sfera di ganache congelata inserita in uno stampo cilindrico che contiene un impasto simile a un pan di Spagna, spumoso e morbido: l’esterno cuoce, l’interno rimane fondente. Nei locali di fascia medio-bassa, invece, l’effetto del “cuore morbido”, della crema che cola al taglio, si ottiene con un espediente: un singolo impasto cotto a bassa temperatura per otto o dieci minuti al massimo, così l’interno rimane crudo, spesso con uno spiacevole retrogusto di farina. Insomma è un grande dessert, ma solo se è fatto con la vera ricetta».

Testo di Sara Porro

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